lunedì 24 dicembre 2012

Gesù Firmino

Natale ai tropici. A Capo Verde. Anche qui si rinasce.

Arcipelago di Capo Verde. Isola di Fogo. Villaggio di Portela. Al centro della Chã das Caldeiras, ai piedi del vulcano attivo Pico de Fogo, il paesello si rivela uno spaccato antropologico di tutto rispetto. Case basse, del color della lava, squadrate secondo il modello contemporaneo o a pianta circolare secondo la tradizione, si alternano in un disordine urbanistico che pare in realtà la riproduzione in scala di una colata. L'atmosfera pare natalizia per il semplice e inusitato fatto che sulla lava, e quindi anche nell'abitato, crescono spontanee delle splendenti piante rosse, che anche qui chiamano stelle di Natale. Nella piazzetta del paesello, che conta mille abitanti assieme al borgo attiguo di Bangaeira, un branco disordinato di ragazzini neri come la lava gioca a calcio con un pallone pure nero, che pare una bolla di lava sgonfia. Lì vicino si fronteggiano la chiesa avventista, tutta bianca e azzurra, e quella cattolica, più articolata, dalle imposte verdi. Poi la scenetta familiare di una giovanissima madre che elabora con perizia le treccine delle sue due figliolette, una nera come lei, l'altra bionda con gli occhi azzurri, ricordo della storia antica d'un francese che nel XVIII secolo si fermò da queste parti, incantato dalla bellezza del luogo, impiantando la vite, avviando un reale progresso sociale della popolazione e spargendo il suo seme ai quattro venti: pare che un quinto della popolazione abbia il suo sangue, e talvolta i suoi capelli biondi. Poi il centro del paese, un bar angusto gestito da Ramiro, un'epopea da solo, musicista e vinaiolo e vate e gendarme (perché qui c'è una stazione di polizia, ma vuota). Gli avventori stanno sulla strada a sorbire vino e ad ascoltare musica suonata rigorosamente dal vivo.

Penetro poi per un viottolo nella seconda e nella terza fila di case, attirato da una abitazione circolare che mi pare perfetta per far da pari, nel mio obiettivo, con il cono rovesciato del Pico de Fogo. Dinanzi all'edificio scorgo un bue e un asinello, è tempo di Natale, la scena evoca altre contrade povere di altri tempi. Ma tra i due animali non c'è nessuna mangiatoia. Solo un telaio arrugginito di chissà quale auto. Un po' deluso, mi accingo a fotografare la casa dal tetto conico allorché mi accorgo che, dentro l'angusta porticina aperta mi guardano quattro occhi. Mi avvicino, metto la testa appena dentro la stanza circolare: un giovane uomo tiene in braccio il suo piccolo. L’uomo mi dice di chiamarsi Firmino, così come il suo erede. Mi invita ad entrare. Gli occhi si assuefanno al buio, mettendo a fuoco un caos quasi primordiale. Tutto il loro bene è affastellato lungo il muro circolare. Ed è allora che mi accorgo che, in un angolo che non è un angolo perché non potrebbe esserlo, ma che è il centro della scena, una donna dall'età indefinibile sta scaldando dell'acqua su un misero fuoco di carbone. Mi offre del tè. Mi sorride, e il suo sorriso accende nel mio cuore un'idea dapprima confusa, poi sempre più chiara, man mano che ne distinguo i tratti delicati del volto: Maria. Ecco, mi dico, che il presepio si completa: sì, d'accordo, a Betlemme era Giuseppe ad avere un'età indefinibile e Maria era la giovane, la giovanissima tutta bella. Ma il presepio è innumerevolmente riproducibile perché cambiando i fattori il prodotto non cambia. Questo è il mio presepio 2012.

Lasciamo Chã das Caldeiras in una luce serale che pare rendere il mare di lava, da impressionante che era nella sua massiccia neritudine, ad impressionante come un mare in tempesta. Tutto prende rilievo, creando infiniti movimenti di magma, mentre la ferita del Pico Pequeno pare riprendere a sanguinare e la luna fa capolino dietro una lingua di lava che pare un arco, proprio dove il Pico de Fogo scende precipitosamente a valle. Risalgo al passo dove inizia il parco nazionale. E riappare. Lui. Il mare, l'oceano, il liquido amniotico del mondo bambino che anche quest'anno rinasce. Sì, rinasce. L'ho visto lassù, a Chã das Caldeiras. Sì chiamava Gesù Firmino.

 

lunedì 17 dicembre 2012

Gaeta, la luce spaccata



Visita alla cittadina del Sud del Lazio che vive di pesca, di militari e di turismo. Ma anche del santuario sulla pietra. 

C’è un luogo a Gaeta, nel sud del Lazio (forse laziale per caso, perché Napoli pare assai più presente di Roma), che sembra simboleggiare un’intera città. È la “montagna spaccata”, ora sede di un santuario dedicato nientemeno che alla Trinità. Fu edificato nell’XI secolo su una fenditura nella roccia che scende alla Grotta del Turco, creatasi, secondo la leggenda, al tempo della morte di Cristo, quando si squarciò il velo del tempio di Gerusalemme. Lungo la scalinata che porta nelle viscere della montagna, lungo la stretta spaccatura di roccia, è possibile notare sulla destra un distico latino con a fianco la cosiddetta “mano del turco”, cioè la forma di cinque dita, che secondo la leggenda si sarebbe formata nel momento in cui un “miscredente”, un marinaio turco che non credeva alla storia raccontatagli sulla causa della spaccatura nella roccia, si era appoggiato alla roccia che miracolosamente era diventata morbida sotto la sua pressione, trattenendo l'impronta della sua mano. Nel 1434, dall'alto dei due costoni di roccia si staccò un macigno che andò ad incastrarsi tra le pareti della fenditura. Su di esso venne realizzata una piccola cappella dedicata al Crocifisso, dall'interno della quale si può ammirare lo strapiombo su cui è situata. Ma, prima di addentrarsi nella sua evocatività, è bene immergersi nella cittadina, passare da uno specchio all’altro, bagnarsi sulla bella spiaggia di Serapo, fare una passeggiata sui moli del porto, occupato dalle imbarcazioni della marina militare statunitense, sorbire un caffè nel Lungomare Caboto, degustare una succulenta e direi preziosa tiella al polipo (e poi una seconda alle erbe con uva passa). Solo più tardi la salita al Santuario della Santissima Trinità può creare i collegamenti mentali necessari per capire il luogo: perché a Gaeta tutto è spaccato. Ma per lasciare filtrare la luce, la stupenda luce che ferisce le pupille per la sua intensità, ma che riscalda il cuore con la sua grazia.

mercoledì 12 dicembre 2012

Colorno, palazzo ducale e culatello reale


Nella bassa parmense che degrada vero il Po, ricordi d'adolescente.

Mio nonno Pierino, agrimensore stimato e coraggioso, ha il suo studio all’ingresso del Palazzo ducale di Colorno: la “rocca di Colorno” fu costruita nel 1337 da Azzo da Correggio con lo scopo di difendere l'Oltrepò. Appartenne alle famiglie dei Correggio e dei Terzi e fra il XVI e il XVII secolo fu ristrutturata da Barbara Sanseverino che la trasformò in un palazzo e ne fece la sede di una raffinata corte e di una prestigiosa raccolta di dipinti di Tiziano, Correggio, Mantegna e Raffaello.  Passò nel 1612 ai Farnese. Nel 1731 il ducato passò aCarlo III di Borbone, che trasferì a Napoli le collezioni e gli arredi del palazzo. Alla morte di Ferdinando il Ducato di Parma venne annesso alla Francia: il 28 novembre 1807 un decreto di Napoleone lo dichiarò “Palazzo imperiale”. Dopo l'Unità d'Italia il palazzo venne ceduto dai Savoia al Demanio dello Stato italiano, e nel1870 venne acquistato dalla provincia di Parma.
Ho modo di visitarlo solo nel giorno in cui il nonno, ormai anziano, lascia quell’amato locale, sistemando sul carro dello spesato, trascinato da un trattore Fiat che all’epoca era un vanto della fattoria, i faldoni di sammartini, sli strumenti delle misurazioni agruicole e persino un busto di marmo d’un antico professionista della terra. Ne approfitto per spaziare nel grande cortile del palazzo, correndo su uno scomodissimo acciottolato o sulla ghiaia dei vialetti, in percorsi che paiono più adatti agli equini che agli umani. Ma proseguo fino a scrogere affreschi straordinari attraverso porte socchiuse e inferriate che segmentano le pitture. Salgo le scalinate lunghe, una prima rampa e poi una seconda, simmetriche, finché un guardiano mi scaccia in malo modo. E allora il nonno mi richiama all’ordine, per aiutare il contadino a caricare il carretto di suppellettili dell’agrimensore. E la fatica del ragazzino che io sono mi pare una compartecipazione alla fatica di coloro che costruirono quella bellezza che è il Palazzo ducale, anzi la Reggia ducale. Ma di reale mi sembra solo il panino col culatello che il nonno ci offre come compenso per il trasloco!

martedì 4 dicembre 2012

Misurina, come in un sogno



Agosto 1964. Un albergo, un lago dolomitico, le Tre Cime di Lavaredo...

Venivamo da Padola di Cadore, nel Comelico, da una cinquantina di chilometri di distanza, dove trascorrevamo le nostre vacanze estive. Il lago di Misurina era un sogno, perché quello specchio d’acqua largo e incantevole, incastonato tra le montagne ampezzane, mi pareva un pezzo di cielo disceso in terra, quasi una benedizione per la terra dolomitica. Anche se tutte le volte che ci eravamo avventurati fin lassù, quasi sempre avevamo trovato tempo inclemente. Ma aspettavamo che le Tre Cime di Lavaredo apparissero per un attimo in mezzo alle nuvole, ed ecco che la mia, nostra gioia era piena. Proprio così, basta poco per gioire. E poi c’intrigava il Grand Hotel Misurina, che chiudeva il lato meridionale del lago, quello verso il Cristallo, maestoso, giallo e umido negli intonaci. Avevo fantasticato avventure mirabolanti in quelle stanze. Finché arrivò il gran giorno, il Conte di Carpegna in persona ci invitava a pranzo! Incredulità. I genitori ci vestirono a festa, ma non avevamo granché con cui abbigliarci per una reception. L’avventura fu in realtà un piccolo inferno: i camerieri, i genitori e gli ospiti ci controllavano in ogni nostro movimento. Io inciampai per le scale. Mio fratello Cesco se la fece addosso e la Tatina stette male in auto. Pioveva. Ma all’uscita, scendendo i pochi gradini del perron, d’improvviso il cielo lasciò filtrare uno squarcio azzurro che subito fu riflesso nel lago: le Tre Cime!