lunedì 19 dicembre 2011

Praga, il castello di Vaclav


E' morto Havel. Lo ricordo passeggiando nel "suo" Hrad.

La collina della “piccola Torre Eiffell”, la Rozhledna, la Torre dell’osservatorio, profuma di fiori di pesco e di biancospino e passiflora. La deambulazione pomeridiana pare un passeggiare paradisiaco, mentre i bimbi sgusciano tra le gambe, gli adolescenti in bicicletta tra gli adulti e gli innamorati cedono alla seduzione della primavera che illanguidisce. Al tavolino del caffè il boccale di birra brilla degli ultimi raggi confondendosi con l’oro riflesso della città che s’abbandona innamorata anch’essa e languida sulle rive della Moldava increspata d’oro liquido e aereo.

Il tramonto verso il Castello s’apre senza fine, senza limiti alle gradazioni cromatiche, senza profondità immutabili, senza confine tra cielo e terra e acqua, senza spazi chiusi e senza spazi già visti. Un tramonto primaverile come raramente se ne vedono. Sul molo, nei pressi del Ponte Carlo, ad ammirare lo show della Natura, non ci sono solo turisti pacchiani e firmati, ma pure indigeni un po’ tristi e un po’ trasandati. Lo spettacolo non è di quelli che si dimenticano facilmente, con le guglie della cattedrale che paiono evidenziare, nere, tutta la scala cromatica del cielo e che sembrano voler fare il solletico alla natura che ride e sorride.

Le due città. Non quella terrena e quella celeste, ma, molto più prosaicamente, quella dei turisti e quella degli indigeni. A Praga non è questione di luoghi, ma di tempi. Gli stessi luoghi sono occupati in orari diversi o in stagioni differenti da folle diverse, spesso opposte, per vestimenta, rudimenta, bastinenza. Mi piace capitarci all’alba, quando i turisti ancora dormono; alle due del pomeriggio, quando si ingozzano di gulash e delizie; alla notte, quando sono nelle discoteche. E allora il museo a cielo aperto ritira i suoi cartelloni pubblicitari e si tramuta per incanto in scrigno di intrighi, banalità, letture, sputi, baci, preghiere… Quello che chiamiamo habitat. Praha, non più Praga-Prague-Prag-Πραγη…

Zlata Praha, Praga dorata, l’oro a Praga. Ce n’è ovunque, steso da una mano sulle facciate delle case, sulle inferriate, sulle fontane, persino sui gradini. Talvolta pare eccessivo, e allora abbaglia e schiaccia. Compie la sua funzione appieno solo quando è giusto, misurato, direi sapiente, così da illuminare una facciata, una fontana, una inferriata intera. Illumina quando non è, quando scompare. E così, come il bianco, dà colore. A Praga ci sono strade che paiono d’oro. A Praga ci sono anime che paiono d’oro.

lunedì 12 dicembre 2011

Delfi, ascesa all'oracolo


Ci sarebbe da interrogarlo anche oggi per capire dove va la Grecia. Visita del 1998

In piena estate, mentre la temperatura amoreggia coi quaranta gradi, quando tutto farei tranne che del turismo, ecco che l’auto mi porta quasi magicamente nel luogo dove vaticinava l’oracolo. Ma in tal luogo non ci tornerò un’altra volta… Sarebbe una profezia con poche speranze di verifica. E allora mi costringo a scendere dall’auto, ad acquistare il biglietto di entrata, a rifugiarmi nel nuovissimo museo che presenta il tesoro di Sifnos, bronzi e marmi di atleti e kouros, ompholoi e sculture crisoelefantine, la Niké alata l’auriga e le metope del tesoro degli ateniesi.

Ma Delfi non è in quelle sale, di reperti ce ne sono anche più al British o al Louvre. Delfi è fuori, sotto il sole cocente, tra gli ulivi e le pietre rimosse. E allora, forza e coraggio, alla ricerca dell’oracolo, cominciando dal baso, dal santuario dedicato ad Atena pronaia, di cui restano soprattutto tre stupende colonne del colonnato esterno, attraverso le quali l’ascesa si mostra in tutta la sua impervia, ma soprattutto in tutta la sua benedizione. Sì, proprio benedizione, perché il cielo azzurro e l’argento degli ulivi indicano che l’ascesa è benedizione. E poi il tesoro e la stoà degli ateniesi, il muro poligonale con le pietre interamente ricamate dalle scritture dei devoti che invocavano gli dèi attraverso la mediazione dell’oracolo.

Il Tempio di Apollo mi lascia esterrefatto: sei colonne come moncherini di culto levati al cielo e un mare di pietre divelte, ma con il risultato della rarefazione, della distillazione della preghiera, perché questo era in primo luogo un santuario per la preghiera, non per le offerte. Il teatro, immenso, con la scena che addirittura muore nel mare lontano, fa pensare ai versi immortali di Eschilo, di Sofocle, di Euripide, condensato del pensare greco e anche della fede dell’epoca, in un connubio che mai risulterà più convincente, nemmeno in epoca cristiana: dal cielo al mare, il teatro è la rappresentazione dell’umanissimo bisogno di comunicare col divino passando per la mediazione della cultura. Non sempre ci si riesce.

Al culmine della salita mi aspettavo un tempio, un santuario, un romito al limite. Nulla di tutto ciò. Solo un’immenso stadio, con la sua entrata che fu a tre archi. Sudato come rare volte, affaticato dall’erta ascesa, attraversato dai mille stimoli di un luogo come questo, unico al mondo, mi chiedo dove sia il senso di questo stadio, bello quanto si vuole, perfetto nelle dimensioni e nell’orientamento. Mi sfugge il senso, e me ne dolgo, perché il quesito sull’oracolo permane senza risposta. Poi il fiato grosso e il cuore a centoventi pulsazioni al minuto aprono una breccia: certo, l’oracolo profetizzava e vaticinava, ponendosi come mediatore della divinità. Ma in questo sito aveva predisposto il primo oracolo, il primo vaticinio dell’uomo che anela a Dio: l’ascesa, la fatica del superare, gradino dopo gradino, l’umana tenzone che appanna la psiche, per giungere all’umana tenzone, figurata dalla corsa, che appanna il fisico. Per poi lasciarlo più forte di prima, forgiato dall’ascesa.

martedì 6 dicembre 2011

Sulmona, la semplice giustezza

Una cittadina ai piedi della Maiella. Nulla di speciale, se non che è al posto giusto.

Giustezza, à la française, cioè col significato che quello che c’è è proprio quel che deve esserci. Sulmona non ha pretese artistiche particolari, né aspirazioni economiche, né tantomeno politiche. Sulmona desidera essere quel che è, né più né meno. Vie e viuzze disegnate sapientemente da una mano anonima e collettiva nel corso dei secoli, nella valle Peligna, cinta da una cerchia di severe montagne. Si fregia di un monumento di grande valore, L’Annunciata, che risale al 1320 e che comprende la chiesa, purtroppo ricostruita nel XVIII secolo, e l’annesso palazzo, che invece resta quello originario del XV secolo, elegantee pulito, direi fresco, ricco di quella semplicità che non puòl lasciare indifferenti. Si deambula nelle piazze e nei vicoli, si coglie una battuta in stretto dialetto abruzzese, si cglie un cane vagante che pare essere a casa sua, si ammirano le anticaglie preziose d’una bottega, il tranquillo incedere d’un’anziana signora che pare aver preso su di sé guerre e terremoti, pestilenze e tutte le drammatiche vicende di questa valle. La Piazza del Comune non è altro che un allargamento di Corso Ovidio, impreziosita dalla Fontana del vecchio, che risale al 1474 rinascimentale. Un caffè, un po’ dell’ultimo sole estivo. E la giustezza si manifesta in tutta la sua pregnanza. A Sulmona non si deve cercare nulla, perché così facendo si riceve il tutto. Gratuitamente, come gratuitamente s’è cercato di percorrerla.