lunedì 24 ottobre 2011

Ollantaytambo, il trionfo inca


Nella Valle Sacra inca, che si estende più o meno tra Cuzco e Ollantaytambo, in Perù, lo scenario naturale ha del maestoso e del misterioso.

Sul fondo valle scorre il fiume sacro inca, il río Urubamba, più avanti chiamato invece Vilcanota, in uno spazio sostanzialmente assai angusto, cioè circa un chilometro, con pareti che s’innalzano per mille, duemila metri, spesso e volentieri interrotti nella loro monotonia scarsa di vegetazione, verso i giganti andini del Pitusiray e La Verónica, montagne da venerare, apus. Qui la storia ha parlato, e non poco. Furono gli ayamarca ad abitare il sito prima degli inca. Furono sconfitti dall’imperatore Pachacútec solamente verso la metà del XV secolo, dopo un’acerrima resistenza capitanata da eroi quali Paucar Ancho e Tokori Tupa. Lo sfruttamento del sito iniziò subito dopo, con opere grandiose, quali il raddrizzamento del río Urubamba per tre chilometri, la costruzione di un efficientissimo sistema di irrigazione, la costruzione di enormi granai, l’edificazione di un enorme ponte sul fiume che resistette cinque secoli, prima di essere sostituito da una struttura metallica che però poggia sull’unico, antico pilastro inca. Gli spagnoli tentarono di occupare Ollantaytambo già con Francisco Pizarro, ma il leader inca Manco Inca resistette a lungo, grazie anche a due enormi muri difensivi ancor oggi visibili.

Ollantaytambo è certamente un luogo particolare sotto il profilo storico, più di tutti gli altri centri che punteggiano la valle: Pisac, Urubamba, Calca... Qui gli inca hanno vissuto, ma raccogliendo l’eredità di civiltà millenarie, appunto, pre-incaiche, in particolare gli ayamarca. L’abitato attuale, più che in qualsiasi altro centro della regione, e forse dell’intero continente latino-americano, è rimasto simile a quello del XV secolo, o forse ancora prima. Anche perché, soprattutto nella valle di Yucay che parte dalla città, abitano popolazioni ancora considerate di purezza etnica incaica. Come si dice, da sette generazioni. Le basi murarie sono tipicamente incaiche; ma spesso anche la parte superiore delle abitazioni, di fango adobe e coi tetti di paglia, probabilmente è assai conforme agli standard dell’epoca. Entrando in una di queste abitazioni – tutte circondate da alti muri, a proteggerne l’intimità e la sicurezza, in isolati chiamati canchas – si riconoscono gli spazi per la cucina, quelli per la notte, quelli ancora per la convivialità, sotto la protezione di lama mummificati, dei teschi degli antenati, di simboli e raffigurazioni della religiosità tradizionale…

L’ordito della città è regolare e particolarmente riconoscibile. È gradevolissimo abbandonarsi alla deambulazione senza meta, scoprire angoli sempre nuovi, alzando lo sguardo ad ammirare le tre valli – Valle Sacra, Yucay e Tambo – che si aprono al confluire della città, per poi abbassarlo sull’acciottolato regolare ma faticoso per la nostra deambulazione abituata all’asfalto e all’assenza di asperità. Due bimbette con in testa un vaso di petunie fucsia, vogliono assolutamente farsi fotografare per strapparmi una moneta. Cedo, e nei loro occhi leggo non solo la gioia di avermi fregato ma, soprattutto, l’orgoglio di un popolo indomito, che gli spagnoli credevano di avere sottomesso. Fieri forse non come gli aymara, ma quasi.

Sulla montagna a Oriente, si riconoscono i Qolqas, una sorta di vecchi granai, delle fortificazioni e dei condomini – sì, dei condomini, con abitazioni a due piani. Ma è a Occidente che l’incanto diventa realtà. È il luogo della cosiddetta “fortezza”, che nei fatti era un luogo complesso, come sempre accade per gli insediamenti inca di grande portata e dimensione: Francisco Pizarro la definì «così ben fortificata da essere terrificante». Grandi terrazze fortificate salgono verso l’irraggiungibile santuario, talvolta curvilinee, per seguire mimeticamente le variazioni orografiche. Nella cinta muraria sono ospitati anche edifici amministrativi e abitativi, oltre a vari luoghi di culto.

L’ascesa alla fortezza è lenta, deve essere lenta, ma in fondo assai gradevole, nel clima secco di queste parti, che al sole può diventare anche impietoso. Le scale sono state indiscutibilmente una specializzazione degli inca: tutto nei loro insediamenti in fondo ha forma di scala, proprio tutto. Si sale accompagnati da lunghe e larghe terrazze che probabilmente erano coltivate, fino a un gradino più alto degli altri, su cui era sistemato il tempio. A questo livello i muri diventano spettacolari nella loro precisione assoluta d’incastro: le pietre, alcune enormi, di tonnellate e tonnellate di peso, erano state trasportate in questo sito dalla montagna di fronte, in cui ancora si riconosce la cava d’estrazione. Sia dal nostro lato della valle che dall’altro, sono visibili delle ampie rampe che sicuramente erano servite per trasportare le pietre, a costo certamente di una quantità impressionante di vite umane. Ma erano altri tempi, il valore della vita umana non era quello attuale (per certi versi). Sulle enormi pietre del tempio certamente erano state scolpite dei bassorilievi raffiguranti forme animali, simboli religiosi o astronomici. Ma gli spagnoli, a quanto sembra, non sono andati per il sottile nel cercare di convertire le masse alla cattolicità.

La città era stata circondata da Manco Inca, per resistere ai conquistador, con mura fornite di torri e merli, mentre nelle lunghe pareti erano ricavate nicchie o finestre dalla caratteristica forma a trapezio, mai rettangolari, chissà perché. Ciò conferisce all’insieme delle rovine un’inconfondibile aura di esoticità e un marchio inconfondibile. È difficile riuscire a svelare il segreto delle varie funzioni degli edifici: gli esperti ancora si arrampicano sugli specchi al riguardo. Solo sotto la fortezza, a livello dell’attuale città, certamente degli edifici erano dedicati al culto e all’uso dell’acqua, e altri erano invece centri amministrativi. Si riconoscono pure degli edifici costruiti dagli spagnoli, con assai minor perizia costruttiva!

Ed è deambulando nel fantastico sito di Ollantaytambo che mi trovo a rifiutare di giudicare la civiltà inca, come qualsiasi altra civiltà. Serve rispetto, serve attenzione, serve un lungo periodo di studio e approfondimento per riuscire a esprimere un qualsiasi giudizio al riguardo. Meno male.

mercoledì 12 ottobre 2011

Ravenna a portata di sguardo


Una mattinata a Ravenna è come un sogno nella luce. Non tanto e non solo quella esterna – che pure in questo settembre di sole non è da poco –, quanto quella che emana dai mosaici ravennati.

La città è carina, opulenta, cordiale, ma somma architetture spesso infelici del periodo fascista e post-fascista, a gioielli del periodo bizantino, quando qualche decennio la vide trasformarsi addirittura in capitale imperiale, seppur di un impero in disfacimento. Roma migrò in questo sito perché era facilmente difendibile, soprattutto per via del delta del Po e di quelle paludi – le valli – che le proteggevano le spalle, col mare dinanzi. Per qualche decennio, tra il 493 e il 568, funzionò, sotto Teodorico e Belisario, prima dell’invasione longobarda. Poi le distruzioni, o forse piuttosto l’abbandono e le inondazioni periodiche, in qualche modo ne preservarono i gioielli.

Perché di gioielli si tratta, indiscutibilmente. Tutti interiori, ché l’esterno è tutto in laterizi, gradevoli ma in fondo monotoni. È l’interno che si accende, che ci accende, che li accende (i cuori e le anime). Un incanto che, ad esempio, annichilisce nel progressivo adeguamento degli occhi all’oscurità del Mausoleo di Galla Placidia: è la prima volta che vi penetro, ma l’immediata e poi la mediata sensazione è di conoscere tassello per tassello l’intera superficie musiva del piccolo paradiso terrestre, per averne serbato memoria nel cervello: decorazioni, figure umane, vegetali, animali, colombe e riquadri, spirali e volti. Troppo belle queste immagini per non averle registrate definitivamente nella memoria liquida – ma ben più solida di quella del calcolator elettronico – del cervello umano. La copertina di un libro, il fregio di un biglietto nuziale, il frame nascosto di un film di Tarkovski, un’illustrazione nel sussidiario di terza elementare…

Si accende Sant’Apollinare nuovo, con la fantasmagoria delle Vergini e degli Angeli preceduti dai Magi verso la Madonna con Bambino, con città e basiliche fissate e idealizzate nei mosaici, come se le due schiere volessero accompagnare l’illusione di una terrestre possanza che s’annuncia caduca e cadente. Come l’impero. Una storia vera: tra il 493 e il 496 Teodorico la fece costruire per gli ariani, etale rimase fino al 560, quando divenne luogo di culto latino. Il bel campanile circolare data al IX-X secolo, invece.

Si accende pure nel minuscolo e infossato Battistero degli ariani, con una enorme pietra fessurata al suolo e una cupoletta a mosaico coevo d’incantevole precisione: rappresenta il battesimo di Cristo e gli apostoli. E poi il terzo scrigno, il Battistero neoniano, del V secolo, insuperabile nella sua semplicità: rappresenta il battesimo di Cristo, apostoli e troni cruciferi.

Ogni dettaglio architettonico della città non può che impallidire dinanzi a tanta bellezza. Non potrebbe essere altrimenti. Le vie di Ravenna sanno tale verità e vivono quindi di umiltà – sulla propria natura – e di fierezza – per ospitare la natura dei gioielli bizantini. E sta proprio qui la grandezza della città romagnola.

Mosaici ravennati. Difficile non rimanere abbagliati, nel cuore. Un impero in disfacimento ha qui concentrato le ultime energie creative, già indicando la direzione dell’Oriente, l’apertura, il confronto e il dialogo tra le culture, più che la lotta tra di esse. I risultati paiono straordinari, addirittura decisivi. Non per l’oro che brilla, ma per quello che fa brillare gli altri colori e le forme tutte. Questa non solo è arte, ma concentrato di storia e geografia e tradizione.

Sant’Apollinare in Classe: basilica cimiteriale del 549, con un mosaico absidale da togliere il fiato, con un Buon pastore e le sue pecore che incanta di bucolica atmosfera che sfiora la teologia paradisiaca. Classe, con la maiuscola, è il paesello che sta alle spalle della chiesa, il porto sull’Adriatico. Ma è anche la “classe”, con la minuscola, quella che rende grandi la bellezza creata dall’umana perizia.

lunedì 3 ottobre 2011

Isla del Sol, il mare di luce


Viaggio in Bolivia/10 e fine - Lascio le bellezze del Paese andino in un'isola che verrebbe voglia di includere nelle sette meraviglie del mondo.

Ci sono momenti che si oserebbe definire perfetti. Come questo, nel piccolo borgo di Copacabana (il copyright del nome è locale, non carioca!), sulla terrazza di un albergo che si affaccia sul lago Titicaca all’ora del tramonto, mentre dalla spiaggia provengono i rumori della festa dei peruviani che sono venuti qui a far benedire le loro auto dalla madonna indigena dei boliviani e degli aymara, la Virgen de Copacabana dalla pelle scura. Sono appena tornato da un’escursione all’Isla del Sol, che dista circa un’ora di barca da questo porticciolo. Il benessere è totale, salvo un certo affaticamento dello sguardo: un’ubriacatura di luce.

È sì, qui siamo a 3800 metri sul livello del mare, il respiro è faticoso e ogni movimento deve essere calcolato e non si può lasciarsi andare: l’eccesso qui va lasciato solo alla luce, che ne è gelosa. Che rende il mare – pardon, il lago! – un abisso di blu e il cielo un tetto d’azzurro. Che dà rilievo a ogni dettaglio, che universalizza il panorama, che trasforma l’ordinario in straordinario.

L’Isla del Sol è la più grande del più alto lago navigabile del mondo, per estensione secondo solo al Mar Caspio. È nota per essere un luogo sacro per gli inca: ha dato il nome all’intero lago, essendo chiamata nella storia Titi Khar’ka, cioè “roccia del puma”. Il luogo veniva considerato dalle popolazioni pre-incaiche come luogo della nascita di diverse divinità, Sole compreso. Qui fecero la loro apparizione terrestre Manco Capac e sua sorella e sposa Mama Ocllo, i prima inca. Qui aymara e quechua condividono le leggende fondative, e solo qui.

Arrivo dopo un’ora di traversata movimentata: il pilota – un uomo sulla trentina dai denti d’oro, che oggi s’è portato dietro due splendidi marmocchi – mi spiega che a fine luglio e inizio agosto, cioè in pieno inverno, qui capitano giornate così: apparentemente il vento non spira, ma le acque del lago si mettono in movimento come scosse da un fremito interno, che sale dagli abissi per volere della Pacha Mama, della Madre Natura, l’armonia universale degli aymara. Ma tutto quanto si spalanca intorno a noi ha del fantastico: le Ande e la Cordillera Real; le isole e isolette che si materializzano dinanzi al natante; i radi boschi di eucalipto; le nuvole che muovono un poco il cielo sempre terso; la spuma delle onde.

Dopo il superamento di uno stretto che pare troppo angusto anche per una piroga, ben presto giungiamo al porticciolo di Pilko Kaina, nell’Isla del Sol. Ed è un universo che si apre, il mondo inca assieme a quello pre-incaico, il passato e il presente totalmente aymara. Un primo complesso di rovine dà l’idea di quel che può offrire l’isola: il Palacio del inca, presumibilmente fatto costruire dall’imperatore Tupac-Yupanqui ha le finestre e le porte rastremate, dai davanzali e dalle soglie verso gli architravi. Ma non c’è solo il retaggio incaico: nella lunga passeggiata tra Pilko Kaina e Yumani, per un inimmaginabile sentiero in costa, una terrazza sul lago e sulla cordigliera, incontriamo lama e asini, alpaca e pecore accompagnati dai loro pastori, sempre riservati, sempre gentili, talvolta refrattari alla fotografia d’uopo. Un mondo che ora s’apre al turismo, e chissà come andrà.

A Yumani si torna in qualche modo alla civiltà, anche se la presenza aymara è così forte che pare difficile che un popolo che ha resistito agli inca si faccia abbindolare dal dio denaro. È qui che scendiamo i 200 e passa gradini di una scalinata chiamata Escalera del inca, che a metà percorso porta a delle fonti perenni che stupiscono in un luogo come questo: sono la Fuente del inca, che viene suddivisa in tre canali di pietra che fiancheggiano la scalinata, di rara perfezione, curata e percorribile agevolmente. La sorgente irriga un meraviglioso giardino a terrazze, ricco di piante e fiori. Per gli inca i tre canali di pietra erano la rappresentazione fisica del loro motto: Ama sua, Ama lulla, Ama khella, cioè non rubare, non mentire, non essere pigro. Nella luce del pomeriggio ancora abbagliante non posso non guardare a questo popolo aymara mescolato al popolo dei turisti, così riconoscibili e così degni. E m’appare chiaro come l’identità di un popolo sia una questione di luce, più che di essere. La luce della divinità e quella dell’umanità che si fondono. Abbagliando.

Non mi resta che aspettare la barchetta che ci riporta a Copacabana. Il sole cala dietro le nostre spalle, la luce si canalizza, si materializza, si colora. Come un amore maturo.