lunedì 27 dicembre 2010

Guglie, campanili e fortezze

A Segovia, nella città che ospitò Giovanni della Croce. In tempi difficili, mirare alle "notti" aiuta a trovare la luce. Visita del 2002.

Posta a mille metri d’altezza, su uno sperone roccioso tra gli avvallamenti creati dai fiumi Eresma e Clamores, circondata in tutto il suo perimetro da alte mura medievali, Segovia si erge imponente, quasi misteriosa nel suo profilo di guglie, campanili, fortezze. Senza saperlo, quasi ogni giorno ne vediamo una stilizzazione qua o là, perché la Disney per il suo logo ha scelto proprio l’Alcázar di Segovia. Insediamento degli areveci, fu conquistata dai romani nell’80 avanti Cristo, come testimonia il sorprendente acquedotto a tre arcate sovrapposte, vecchio di più di due millenni. Una lapide regalata alla città dal comune di Roma, sotto una lupa che allatta Romolo e Remo, ne sottolinea l’autenticità. Nei secoli fu conosciuta anche per la convivenza tra cristiani ed ebrei, a cui fu messa fine nel XV secolo: la sinagoga fu allora trasformata in una chiesa “cattolicissima”, prendendo il nome del Corpus Domini.

Mi avvicino a Segovia avvolto in banchi di nebbia che conferiscono al paesaggio della meseta un non so che di misterioso e ovattato. Fa freddo. A lato della carreggiata si scorgono pietre ordinate, le une sulle altre, a creare muretti divisori, e talvolta piccole ma incantevoli cappelle romaniche, coronate dallo svolazzare di inquietanti stormi di uccelli neri. Oppure pietre disordinate, levigate dal vento, frammiste a querce e lecci di dimensioni ridotte, per via delle intemperie e della calura estiva. Poi, improvvisi, spuntano a interrompere la linearità dell’orizzonte un campanile, poi una cupola, una torre, un tetto aguzzo. E d’improvviso eccola: Segovia, circondata dalle sue mura maestose; Segovia signorile e fiera; Segovia mozzafiato. Una nave, forse un’astronave, o piuttosto un astro. Un patrimonio dell’umanità, secondo l’Unesco.

A Segovia oggi mi metto sulle tracce di Giovanni della Croce, qui sepolto in una grande teca dorata attorniato dagli altri santi e sante carmelitani, dopo avervi trascorso gli ultimi anni della sua esistenza: morì ad appena 49 anni. Aveva incontrato Teresa di Gesù, ad Avila, che dista una cinquantina di chilometri, all’età di 25 anni, quand’ella ne aveva più del doppio. Ma, al di là della differenza d’età, in lui la santa riconobbe colui che le avrebbe permesso di estendere la riforma del Carmelo anche tra gli uomini: «Adesso posso incominciare», disse in quell’occasione.

Il sepolcro del dottore della chiesa si trova nel Monasterio de Carmelitas, ai piedi della maestosa Alcázar, che lui stesso contribuì a costruire con le sue mani. Il luogo è attraversato dalla memoria di tre santi fondatori: il primo è Giovanni di Mata, iniziatore dei trinitari, che acquistò per primo il luogo. Più tardi, visto l’insalubrità del sito, i suoi religiosi l’abbandonarono. A quel momento Giovanni della Croce lo riacquistò, ma per ricostruirlo più a monte, sia per motivi di salubrità, sia perché riteneva che si dovesse creare un luogo più degno, povero ma idoneo alla preghiera e alla vita comunitaria, per i suoi carmelitani. La storia non finì qui, perché dal 1836 al 1875, come si sa, in Spagna furono aboliti gli ordini religiosi. Terminato quel periodo, Antonio Maria Claret desiderò ricomprare il sito per i suoi claretiani. E ora il convento è di nuovo occupato da una comunità di carmelitani scalzi.

A guidarmi nella visita al monastero, padre José Damián che, dinanzi al sepolcro barocco del dottore della chiesa, tutto oro e marmi, mi porta a conoscenza di alcune delle pagine più belle del santo. E mi fa rivivere alcuni momenti significativi della sua vita, a cominciare dai ricordi legati al luogo: Giovanni della Croce scavava con le sue stesse mani le pietre che servivano alla costruzione del monastero, ma non trascurava l’apostolato, che svolgeva soprattutto nel pomeriggio, mentre la sera la dedicava alla contemplazione. Amava in effetti rifugiarsi sulla collina dietro il convento, in compagnia delle pietre, e ammirare fuori e dentro di sé nientemeno che la Trinità. Si racconta che, faceva sera, un confratello gli chiese perché si appartasse al calar del sole, percorrendo un lungo sentiero di gradini di terra, su quell’altura; Giovanni gli rispose che pregava, e che, se lo voleva, poteva accompagnarlo nella sua contemplazione. Ma ben presto quel frate si stancò della pratica ascetica, e chiese di ridiscendere per coricarsi. Cosa che quella volta fece anche il santo, per amore fraterno.

La vita nel monastero era fatta per metà di preghiera e per metà di amicizia fraterna. La vita comunitaria era forte, completa, come testimonia il fatto che nelle serate i frati potevano parlare tra di loro, per un momento di ricreazione comune, cosa assolutamente sconosciuta nei monasteri dell’epoca. Precisa giustamente il nostro accompagnatore che la “negazione” di cui Giovanni della Croce è indicato come il paladino, non era tanto ascetica, quanto mistica: l’amore era per lui la vera “negazione”, non la privazione fine a sé stessa. Non per niente la sua mistica è stata tra le più elevate mai conosciute.

Altro capitolo, quello riguardante gli scritti di Giovanni della Croce: i suoi seguaci presero sin dall’inizio l’abitudine di ricopiarli, per poterli poi meditare. Fu proprio questa continua diffusione che permise di ritrovarne degli esemplari anche dopo che una “persecuzione” nei suoi confronti, scoppiata all’interno stesso del suo ordine, portò alla decisione di distruggere tutto quanto egli aveva scritto. A questo proposito, ammiro in un oratorio accanto alla chiesa un quadro del crocifisso, che Giovanni amava molto, e davanti al quale spesso si ritirava in preghiera. Un giorno il Cristo gli parlò: «Cosa vuoi in cambio per tutto quello che hai fatto per me?», gli chiese. E lui rispose: «Soltanto patire e essere disprezzato per te». Da quel momento iniziò una persecuzione che egli però si rifiutò di definire tale, spiegandola invece così: «Queste cose non le fanno gli uomini, ma Dio per il nostro bene».

Giovanni della Croce era anche, come si sa, un grandissimo poeta. Con i suoi versi parlava di Dio senza nominarlo, usando un vocabolario comprensibile da tutti, più letterario che teologico. Si dice che Rafael Alberti, grande poeta spagnolo, comunista e ateo, a lungo in esilio in Italia e perciò nominato cittadino onorario di Roma, poco prima di morire sia venuto a Segovia. Si sarebbe fermato alla grata dinanzi al sepolcro, senza voler entrare nel tempio, perché sentiva già una comunione con Giovanni e quindi con il mistero di Dio.

Uscendo, c’è il tempo di salire alla chiesa della Vera Cruz, nel quale i Templari, e poi i cavalieri dell’Ordine di Malta, si ritiravano in preghiera nella notte precedente alla loro nomina. Dall’altra parte della stessa collina, invece, si scorge il Santuario de la Fuencisla. La tradizione racconta che una donna ebrea di nome Ester si fosse avvicinata al cristianesimo, pur osteggiata dai suoi. Giunsero ad accusarla falsamente d’adulterio, e la condannarono a essere gettata giù dal dirupo che oggi sovrasta la chiesa. Mentre cadeva, si volse verso la statua della Madonna che ornava il portale della cattedrale, allora vicinissima all’Alcazar, e gridò: «Madonna dei cristiani, aiutami». Uscì illesa da quel dirupo. Quella statua della Madonna, chiamata appunto Fuencisla, è ora conservata nel santuario.

mercoledì 15 dicembre 2010

Notre-Dame d'Afrique, Algeri, Africa


Riapre dopo lungui restauri la chiesa più nota dell'Algeria. Un segno di collegamento tra il Nord e il Sud. Nel segno del dialogo. Visita del 2005.

Lasciati all’immobile sguardo marino l’Ammiragliato e i Bastioni, lasciate le piazze popolate d’ogni età urbana e umana che dicono accoglienza e gioia d’esserci, la salita verso la collina del santuario di tutti gli algerini – cristiani e musulmani – è una catarsi di blu e di bianco, ancora. Notre-Dame d’Afrique sta, e basta. È lassù perché un vescovo cattolico l’ha voluta, nel lontano 1858, rispondendo a due donne pie che rimpiangevano la basilica lionese di Fourvière. Certamente. Ma sta lassù perché Maria-Mariam è il tratto comune delle due fedi qui professate, fors’anche più amata dai musulmani che dai cristiani. Bella la basilica non lo è, non lo è proprio. Ma sta, vestita di damascato da una mano kabyla e coronata dalla dorata scritta che incanta e stupisce: «Notre-Dame d’Afrique prie pour nous e pour les musulmans», Nostra Signotra dell’Africa, prega per noi e per i musulmani. Voglio fotografare la scritta dall’alto della galleria che ospita l’organo. Salgo una strettissima scala a chiocciola che pare africana anche nel colore, tanto è lisa e sporca. Ma lassù, tra l’aria stantia che sa di ceri arsi, di umidità e di salmastro, quella scritta voluta da mons. Pavy pare una profezia. Sarà quella donna a riunire le due fedi, nella preghiera comune e nella comune volontà di unire oltre ogni logica divisione. Africa ce n’è a volontà, su questa collina, non solo per la presenza d’algerini, ma anche per quella di tanti africani subsahariani che da queste parti studiano o lavorano. Il panorama è mozzafiato, come da Nostra Signora della Guardia a Genova, come da Notre-Dame des pecheurs a Marsiglia, come dalla casa di Maria ad Efeso… Maria-Mariam veglia su tutti i suoi figli.

lunedì 29 novembre 2010

Teotihuacán, piramidi per acchiappare il cielo

A Roma è stata inaugurata recentemente una mostra sulla civiltà mesoamericana. Visita del giugno 1998 sul sito archeologico messicano.

Non si tratta di magia, di fumose sensazioni new age, o di passeggere vague à l’âme. Salendo sotto il sole cocente i gradini consunti della piramide del sole, si avverte battere il cuore della gente di Teotihuacán, a duemila anni di distanza, o poco meno. Salivano verso il cielo, inquadrati dal rigido cerimoniale politico-religioso che li disponeva nel gradino corrispondente al loro grado nella gerarchia terrestre, specchio forse di quella celeste. Assistevano ai sacrifici cruenti di cuori umani offerti al Dio creatore, o a quelle divinità cosmologiche che appaiono oggi più come esseri intermedi tra Dio e la creatura, piuttosto che vere e proprie divinità. Una civiltà che suscita curiosità, anche perché per certi versi risulta moderna, scomparsa improvvisamente prima ancora del secondo millennio dopo Cristo. Perché? Non si sa. Si fanno solo ipotesi che appassionano il mondo accademico messicano.

Nel 1878, José Maria Velasco, pittore messicano di media fama e poca ispirazione, dipinse un quadro che segna in certo qual modo l’inizio della riscoperta del sito dove sorgeva “la città degli dei”, traduzione dell’ostico Teotihuacán. Piazzò il cavalletto sulla sommità della collinetta che nascondeva la Piramide della luna, e raffigurò realisticamente la via dei morti, la piramide del sole e le altre asperità della zona. Ancora non si immaginava cosa nascondeva quel paesaggio che alternava regolarità sospette e naturali protuberanze orografiche.

Appena una ventina d’anni prima, il barone Alexander von Humbolt, celebre e impenitente viaggiatore teutonico, aveva attirato l’attenzione degli avventurieri dell’epoca su quelle vestigia ricoperte di terra e vegetazione di cui la memoria si perdeva nella notte dei tempi, senza però che la fama fosse mai scomparsa completamente: tra gli altri, lo stesso Carlo V se ne era interessato tre secoli prima. Von Humbolt e Velasco marcarono così senza saperlo l’inizio di un selvaggio saccheggio, protrattosi fino a qualche decade addietro. Come per gli Etruschi qui da noi.

Fu Ramon Almaráz, appena oltre la metà del XIX secolo a intraprendere i primi scavi ufficiali, seguito da altri illustri personaggi, come il francese Désiré Charnay. Ma bisognerà attendere gli anni Sessanta del nostro secolo per veder tornare alla luce uno dei complessi architettonici più sconvolgenti che occhio umano possa ammirare.

Ecco allora qualche data, per fissare i punti di riferimento necessari a capire questa civiltà scomparsa. Gli studiosi sembrano essere arrivati alla conclusione che si debba risalire al secondo secolo prima di Cristo per trovare le origini contadine di Teotihuacán, con un rapido concentramento di popolazione sulle pendici delle montagne attorno al sito. Circa un secolo più tardi cominciò la costruzione delle due piramidi principali del complesso ora visibile; si trattava di un centro cerimoniale comunitario che permetteva alla società nascente di saldarsi più facilmente. La costruzione delle strutture principali della zona cultuale continuò ancora per un paio di secoli, ma le aggiunte si prolungarono fino al VI secolo, quando la civiltà teotihuacán raggiunse l’apogeo. Come in altre civiltà mesoamericane, si era infatti diffusa la tradizione di ricoprire gli edifici cultuali ormai caduti in disuso con altre costruzioni, simbolo della potenza dei regnanti del momento.

Nel frattempo la città si era espansa su una superficie di 22 chilometri quadrati, la società si era rigidamente strutturata e la sua influenza si era estesa in un raggio di circa mille chilometri attorno al centro principale. Fu in quest’epoca che la città divenne probabilmente la più grande del mondo, più ancora di Costantinopoli, essendo Roma ridotta a poca cosa dal crollo dell’impero.

Un elemento da sottolineare di questo sviluppo, impressionante per l’epoca, è la presenza di numerosi gruppi stranieri all’interno della città, provenienti dalle popolazioni zapotechi, maya, huaxtechi e da alcuni gruppi núhualt. Ma queste stesse presenze sembra non siano state senza colpa nel crollo della civiltà. L’apogeo, infatti, segnò nello stesso tempo l’inizio del rapido declino della città e della civiltà intera. Su quest’argomento le discussioni tra studiosi sono feroci, e non si è ancora giunti a una conclusione definitiva sulle ragioni di tale scomparsa. Sembra tuttavia che siano stati i problemi legati al sovrappopolamento e a una lunga carestia che abbiano determinato la fine di Teotihuacán nel giro di un paio di secoli. Assalti esterni e rivolte della popolazione travolsero il potere politico-religioso che reggeva la società, a favore delle città-satelliti che divennero più potenti della città-madre stessa, fino a soppiantarla completamente.

Visitando la città degli dei, salendo e scendendo le migliaia di gradini di diverse dimensioni che ricoprono i diversi edifici, non solo quelli cultuali, e immaginando lo splendore che dovevano avere le diverse costruzioni rivestite di intonaci e di preziose decorazioni, non si può non meditare sulle alterne vicende dell’umana sorte. Il lungo e non ancora completato restauro del sito ha riproposto le ardite strutture architettoniche delle costruzioni – sempre legate ad elementi cultuali, e in particolare all’osservazione del sole e degli astri notturni – senza però poter riprodurre le decorazioni, di cui si possono però ammirare importanti vestigia nel locale museo o in quello Antropologico di Città del Messico. Ma Teotihuacán deve ancora svelare almeno la metà delle sue meraviglie, celate dalla terra con cui la natura e l’uomo – sembra che, per motivi di culto e superstizione, le varie strutture “obsolete” siano state volontariamente ricoperte dalla popolazione incapace ormai di erigerne altre più grandi – hanno nascosto tanta bellezza. Dall’alto delle piramidi del Sole e della Luna, anche un semplice sguardo da turista rivela movimenti che non possono essere naturali.

Ma già ora le statue ritrovate, le decorazioni ricostruite e le strutture urbanistiche ci presentano la duplice meraviglia di una civiltà scomparsa: una popolazione che, pur ignorando la metallurgia, era riuscita addirittura a deviare il corso di un grande fiume e ad erigere costruzioni di settanta metri di altezza, senza prescindere da una ricerca estetica che in alcuni casi lascia stupefatti, come dinanzi a certe maschere decorate di rara e moderna bellezza.

Teotihuacán manifesta con la sua stessa presenza la tensione “naturale” dell’uomo mesoamericano per la divinità. Sembra addirittura che in origine le popolazioni fossero monoteiste, con un grande pantheon di divinità intermedie legate alla natura, in particolare al sole e alla luna.

mercoledì 17 novembre 2010

Dublino, alla Trinity Old Library


La situazione finanziaria della Repubblica d'Irlanda è sotto attenta osservazione. Pare che si sia pensato troppo in grande... Visita ad un luogo sacro della cultura "irish", nel febbraio 2004.

Non è un luogo sacro e non vuole esserlo. Eppure qualcosa mi dice che in questa lunga galleria qualcosa di immortale si respira. The Trinity Old Library nasconde tesori di carta rivestita di cuoio antico, ma soprattutto ricchezze d’anima e di spirito accumulatesi nei secoli. Volumi ricoperti di polvere mille e mille volte, e poi amorevolmente spolverati con attenzione, come se anche quella polvere fosse altrettanto antica che la carta. E c’è pure del vero, perché negli interstizi delle pagine i secoli si sono depositati ed hanno fruttato. Cosa? Come? Quando? I misteri rimangono sepolti sotto i ripetuti e sempre nuovi strati di polvere: quelli confusi alla polvere da sparo, quegli altri invece misti alla polvere della siccità e della carestia, e ancora quelli frammisti ai coriandoli della raggiunta indipendenza.

Nella “lunga stanza” converso con Platone, Aristotele, Cicerone, Swift e Defoe, i cui busti fanno la guardia impettiti alle alcove lignee che custodiscono i secoli stampati, i secoli catalogati dal basso verso l’alto: a, b, c… e ancora aa, bb, cc… Ogni alcova ha la sua scala a pioli, che permette di accedere ai ripiani più alti, quelli alfabeticamente maturi. I pioli conservano le tracce delle ricerche degli scienziati e dei curiosi: a salire, paiono man mano meno consunti, portano le tracce della fame di sapere dei secoli che furono. Tutto è stato riverniciato più volte, anche di recente – pareti, scansie, volte, parquet salvo quei pioli che tracciano la discriminante della storia.

Il silenzio è assoluto, o quasi. I libri assorbono i suoni, e così il legno e i tappeti. Persino l’arpa gaelica più antica che si conosca – datata al 1014, e secondo la leggenda apparteneva a Brian Boru, allora re d’Irlanda – tace; anzi assorbe fonemi e decibel per sublimarli nel quasi-silenzio di ogni biblioteca-come-si-deve. Non sono sopportabili nemmeno i clic delle macchine fotografiche, nemmeno i più impercettibili perché digitali: la tecnologia sembra venire rifiutata da carta e cornucopia e pergamena e papiro…

Il senso del tempo si dilata in questa galleria dove la cultura si eterna nei legni, ma ancor più nei marmi dei busti illustri. Ma dove pure la caducità delle umane sorti si spande a dismisura, ricordando che la polvere è retaggio non solo delle cose, ma anche dell’uomo. Così è della Old Library, il gioiello di una Dublino oltremodo fiera dei suoi antichi scrigni. Rari.

martedì 9 novembre 2010

Belém, la ricchezza e il debito


Il Portogallo vive una profonda crisi economica. Il presidente cinese Hu Jintao si offre di coprire i buchi "acquistando" il debito del Paese. Ma le ricchezze di Belém non sono certo in vendita. Visita del 2004.

Bisogna far astrazione dal ponte una volta dedicato a Salazar, ed ora al 25 aprile, giorno della sua caduta dal potere. Bisogna dimenticare l’obbrobrio del monumentale sgabello al Cristo Re e le silhouette drammatiche delle raffinerie al di là del Tago. Poi ci si può mettere ad immaginare le caravelle salpare verso nuovi mondi e nuovi mercati, inviate da quei regnanti che possedevano lo spirito commerciale nel sangue. Come Manuel I, a cui si devono quei capolavori d’arte manuelina, appunto, che hanno fatto di Belém un incantevole porto verso l’oceano, un viatico e nel contempo uno scongiuro. Di marmo e d’oro.

Osservo passare barche a vela sospinte dalla robusta brezza invernale e petroliere sospinte dalla forza dei motori scoppiettanti dalla loggia rinascimentale della Torre di Belém, fatta costruire da Manuel I tra il 1515 e il 1521. Sono certo che il diportista domenicale e il pilota professionista guardano entrami in direzione della torre; o, meglio, della statua della Vergine con bambino, meglio conosciuta come Nostra Signora del felice rientro in patria, simbolo di protezione per i marinai che intraprendono brevo o lunghi viaggi. La statua è rivolta verso il mare. E all’epoca della costruzione della torre era pure in mezzo ai flutti, perché l’argine distava almeno cento metri più di quanto non faccia quest’oggi.

La loggia è quanto di più elegante si possa immaginare in una costruzione peraltro difensiva, grazie alle eleganti arcate ispirate all’architettura italiana dell’epoca. Oggi la luce è cristallina e limpida, il sole bacia la pietra bianca della torre trasformandola in slancio verticale verso l’azzurro intenso del cielo invernale. I raggi del sole riescono quasi a penetrare gli spessi muri di pietra, e ad illuminare l’angusta scala a chiocciola che lega tra loro i quattro livelli superiori della torre, dando rilievo alla consunzione dei secoli e degli innumerevoli passi che hanno fatto leva su questi gradini ormai irrimediabilmente scavati e deformati. Una volta erano i passi di soldati, animati dallo spirito di conquista territoriale, mentre oggi sono passi di spensierati turisti animati dallo spirito di conquista fotografico, e nulla più. Ma allora imperava la guerra, ora impera il denaro; o forse allora imperava il denaro e ora la guerra. Chissà.

Gradini invece imperiali sono quelli che permettono di accedere ai diversi edifici che compongono l’altro immenso capolavoro dell’arte manuelina, il Mosteiro dos Jerónimos, edificato dal nostro solito monarca Manuel I intorno al 1501, appena rientrate le caravelle conquistatrici di Vasco de Gama. Un trionfo di perizia architettonica e scultorea, di ardimento prospettico e di audacia decorativa. Il chiostro. Ah, il chiostro di João de Castilho, i suoi archi e le sue balaustre in pietra traforata e con intagli preziosi! Verrebbe da trattenervisi senza limiti dìorari e di timing draconiani da turisti onnivori! Ma bisognerebbe ritrovarsi in solitudine, a meditare sulla fallacia dell’umana ricchezza, sulla sete di conquista che mai scompare, nonostante la profondità dell’animo umano che, arrivato alla più sovrumana intimità si volge alla più sovrumana esteriorità.

Se il chiostro invita alla verticalità verso il basso, verso l’intimità, la chiesa invece spinge alla verticalità verso l’alto, verso il Dio che sta nei cieli. Che sta da qualche parte oltre le volte della navata che viene sorretta da quei palmizi che sono le colonne ottagonali, esili ma decoratissime. Uno spazio sapientemente distribuito dalla luce che filtra colorata dalle vetrate policrome.

Il moderno monumento alle scoperte, poderosa costruzione voluta da Salazar nel 1960, per celebrare i 500 anni della morte di Enrico il navigatore, non stona più di tanto sulle rive del Tago, all’altezza del monastero. Magellano, Vasco de Gama, Cabral, Colombo, issati sulla declinante prua di una caravella immaginaria ci stanno bene, con lo sguardo fisso verso quell’oceano che avevano sfidato come si intraprende una coraggiosa discesa nell’intimo dell’anima, o come si scala la via al cielo, terrificante di ascensioni verticali. Forse hanno intrapreso l’infinita orizzontalità dell’oceano perché incapaci di scendere nell’intimo o di ascendere al soglio divino. Eroismi, al plurale.

mercoledì 3 novembre 2010

Milano, col sole e con la pioggia


Mentre si moltiplicano le accuse alla metropoli lombarda per l'inquinamento che l'assedia, breve visita nella città di Ambrogio.

È bella o non è bella Milano? Dipende dal sole. Se c’è e lo smog è spazzato via dal vento, la città rifulge di storia ed arte, se invece imperano nebbia e umidità il lato grigio della metropoli opprime le aspirazioni estetiche.

Milano versione n° 1 l’incontro in un fantastico mattino d’ottobre, uscendo dalla bocca della metropolitana al Castello Sforzesco. Persino i dipendenti Cobas dell’Atm in sciopero paiono allegri e pacifici nella loro manifestazione, e le loro bandiere gialle e rosse paiono vessilli medievali sullo sfondo di uno dei più bei manieri dell’architettura italica. Dapprima circuisco il castello, lo circumnavigo, osservando i poligoni di luce e d’ombra che si alternano nel fossato – les duves, direbbero i francesi – attorno alle possenti mura della costruzione degli Sforza, cole le gigantesche vetrate del piano nobile protette da altrettanto robuste inferriate. I due ampi cortili rossi di mattoni e verdi di erba, paiono persino allegri, illuminati dal sole come sono quest’oggi, ingentiliti nelle aperture e nelle chiusure, umanizzati nelle dimensioni, persino gradevoli negli acciottolati peraltro così sgradevoli alla deambulazione. Sono qui, in realtà, per rendere omaggio, direi per contemplare, l’ultima scultura michelangiolesca, quella Pietà Rondanini che ha fatto della sua imperfezione il culmine della perfezione. Dal vero è ancor più affascinante che nelle minuziose fotografie in bianco e nero che l’hanno denudata e rivestita di luce. Il percorso d’entrata e d’uscita – lunghissimi corridoi, scale interne anguste e scure, saloni affrescati come se fossero tappezzati di geometrie pazze e sobrie nel contempo – sembra un trattato di protologia e d’escatologia, affidando socì alla scultura del Buonarroti l’onere e l’onore del presente, del “già e non ancora”.

Come non concludere la visita al Parco Sempione che esalta il Castello Sforzesco alla Triennale di Milano, fascista nella sua architettura lineare, del miglior fascismo intellettuale. La libreria baciata dal sole filtrante è un invito alla cultura lenta e contemplativa, mentre il caffè inondato dai raggi è un’irrefrenabile istigazione alla conversazione d’arte e di libri, di uomini e di eventi, mentre la coppa di Rosso della Valtellina assume tutti i colori della tavolozza degli Sforza.

Tutt’altra Milano, ma sempre luminosa, è quella che scorgo percorrendo i quattro chilometri di via Padova, via che diventa cinese e filippina, maghrebina e sub sahariana. Ma con misura, nonostante qualche delitto, nonostante l’insofferenza di qualche leghista. Massaggi a 20 euro e barbieri a 4 euro s’alternano a negozietti aperti 24 ore su 24 dove puoi trovare di tutto, proprio di tutto. Mentre il vecchio galoppatoio è stato trasformato in parco d’arte e cultura che anche gli immigrati riescono a capire: la natura e le arti visive riescono ad affratellare. Fino a Piazzale Loreto, rotonda ricca di storia patria e di insignificanza architettonica. Fuggo a sud, verso Porta Venezia, e poi nel breve quartiere di via Mozart, campionario eccelso di art nouveau, dalle ville della buona società e dei nuovi ricchi, dalle terrazze pensili che paiono boschi innalzati alla dea della luce. Ammirare nella Villa Necchi Campiglio i paesaggi – grafismi bianchi e ocra e solcati e striati e rossi e verdi e neri e segmentati – del Tullio Pericoli appare congrua elevazioni della straordinaria cura del quartiere intero.

Gli ultimi raggi di sole della giornata mi trovano a Sant’Ambrogio, il gioiello, la storia che si fa pietra e forme, l’anima della Chiesa ambrogina, l’orgoglio della milanesità industriosa e sobria, ma elegante fino al parossismo dell’estetica pura. Toglie il fiato penetrare attraverso l’ingresso a sud, scorgere i due campanili – dei … e dei … – e il frontone a tetti scoscesi, il grande portico materno nelle forme e paterno nell’austerità. Pochi gradini per scendere dalla sede stradale al portico e poi alla basilica, e poochi altri per risalire all’altare, gradini levigati e sbeccati, marmorei nella loro altera sicurezza, fino a morire nella pazza gioia – altra milanesità – delle pietre sottostanti all’altare d’oro e d’argento, pietre levigate e arrotondate, quasi a ricordare gli acciottolati della città d’una volta e a istituzionalizzare la creatività della gente di Milano.

Milano versione n° 2 l’incontro invece l’indomani nel centro più centrale della centrale Milano. Esco dalla bocca della metropolitana a San Babila, accanto ai salotti buoni della finanza e del commercio milanese, all’imboccatura delle vie della moda, della alta moda. Qui tutto vuol essere “alto”, anche se in alto non ci sono che nebbia e nubi. Percorro Viale Vittorio Emanuele II, m’imbatto nei portici delle boutique di lusso, mentre i ricchi, soprattutto i nuovi direi, i vecchi paiono aver scelto ultimamente la via della sobrietà del lusso che non si pavesa ma che si porge modestamente. L’abside del Duomo restaurato, mentre la Madunina è ancora sorretta da impalcature leggere ma sempre sgradevoli, dà una visione certa dell’enorme sforzo dell’Europa delle cattedrali, ma avvolta dalla fiumana di gente assatanata di consumo che si costringe in poche vie, mentre cinquanta metri più in là il tappeto umano diventa deserto umano. Un’Europa del consumo che non sa più costruire se non beni voluttuari, esternazioni dell’opulenza dell’Europa della finanza e del lusso che vacilla tuttavia dinanzi alla penetrazione irrefrenabile dell’armata d’Oriente, carica di suggestioni di marketing e d’imitazione, ma con una valanga umana che non ha limiti.

La Galleria ne è l’esemplificazione, e così via Torino, e via Montenapoleone e tutte le altre vie del lusso. Vie che non sanno che farsene dell’antica tradizione milanese della laboriosità. Un mito, e come tutti i miti destinata a non essere più realtà ma espressione dell’idealità della realtà. E più s’allontana dalla realtà, più cioè vive di rendita e d’ozio, più il mito della laboriosità cresce e la spocchiosità e l’assenza di generosità lievitano. Il cardinal Tettamanzi abita dietro al Duomo, in un palazzo d’antico lignaggio discreto ed elegante, ma sobrio, veramente sobrio. Lì sotto passa poca gente, e pochi ascoltano le sue parole che invocano la solidarietà dei ricchi, la necessaria giustizia, l’inderogabile necessità di riprendere a pensare ai figli, all’altro, al lavoro più che ai soldi. Pare una Cassandra in porpora cardinalizia, ma quanto più necessaria in un’epoca grigia, com’è la Milano versione n° 2.

martedì 26 ottobre 2010

Maalula nelle mani dei qaedisti



La città è ormai caduta. Che cosa si trova in una delle città più cristiane della Siria? Visita del 2005.

Lasciata la stupefacente Mar Mousa e il deserto di rocce tra Damasco e Homs, una stretta e pittoresca valle conduce da Yabrud verso una cittadina dal nome fascinoso: Maalula, ai piedi della catena ancora innevata dell’Antilibano, incastonata in una striscia di verde che evidenzia l’umidità della valle. Il mio accompagnatore mi dice con una certa fierezza che la cittadina è famosa presso il popolo siriano non tanto per le bellezze d’arte, per la natura scorticata o per la tradizione d’un tempo lontano di cristianità originaria, quanto molto più prosaicamente per la bellezza delle sue giovanette e delle sue donne. Costato come sia vero. Spuntano ovunque, dagli angoli più impensati, degne senza essere ingabbiate in scafandri di tessuto, certamente più intraprendenti di quanto non lo siano normalmente le donne siriane…
A Maalula c’è dell’altro, ovviamente, del bello e dell’antico. Come il monastero di Santa Tecla, Deir Mar Takla. Pare di essere nel siq di Petra, in un canyon angusto e misterioso che si dice sia stato aperto miracolosamente dal passaggio di Santa Tecla, appunto, seguace di San Paolo in fuga, e poi martirizzata sul posto. La Siria non cessa di sorprendere per la sua incredibile capacità di generare miti, di tirar fuori dal suo cilindro santi d’ogni tipo ed origine.
Più sotto, appresso al convento moderno dedicato alla santa, come una fortezza ricca di modestia (mi si perdoni l’anacoluto) si para dinanzi al pellegrino il monastero di San Sergio, Deir Mar Sarkis, che in alcune sue parti risale addirittura al III-IV secolo. E il suo altare data ad un’epoca pre-cristiana: è semicircolare e non è piatto – come prescrissero i primi vescovi, per non confondere il rito cristiano con quello pagano –, conservando quelle scanalature e quei bordi che servivano a trattenere il sangue dei sacrifici animali dei culti ancestrali della regione. Il pretino, che pare voler affermare d’essere lui stesso una reliquia dei primi tempi del cristianesimo, mi offre un bicchierino di passito – squisito, per onor di cronaca –, prodotto dalle magre vigne del monastero e poi intona solo per me il Padre nostro in aramaico: il dialetto del posto è quello stesso (sembra proprio che sia così) che Gesù parlava in Palestina.
Il monastero annuncia poi una originalissima conformazione calcarea, forata come un gruviera da infinite grotte che avevano ogni sorta d’uso, forse salvo quello dell’eremitaggio. Da quegli anfratti escono capre, pecore, mucche, galline, conigli e umani ch sembrano capre, conigli…
Ancora una ventina di chilometri di ebbrezza, seguendo una catena montagnosa che pare lo slabbramento d’una ferita mai rimarginata, ed ecco un altro grappolo di case, l’ennesimo, che s’inerpica su un colle coronato da un altro grappolo, di cupole questa volta. Ecco Seidnayya, una delle più antiche mete di pellegrinaggio di tutto il Medio Oriente: qui è conservata, in un oscuro anfratto ricavato nella cripta della chiesa principale, un’immagine mariana, un’icona ante litteram, che si dice dipinta niente meno che dall’evangelista Luca in persona. Ogni sorta di miracoli è attribuita all’icona, non solo dai cristiani delle Chiese più diverse, ma anche dai musulmani. Nell’orribile scalinata a zigzag costruita di recente con materiali dozzinali per permettere un’ascensione più comoda al santuario, le donne velate sono in effetti più numerose di quelle a capo scoperto. Si confondono con le monache ortodosse che custodiscono il santuario con ferreo rigore, senza transigere minimamente alle anarchie dei turisti. Anch’io mi becco una violenta reprimenda per aver osato fotografare l’icona, commettendo così un atto di peccaminoso consumismo…
Perdersi nei cortili, sulle terrazze, nei tetti, negli intricatissimi passaggi del monastero è piacevole e contagioso, tanto più quando si ha la coscienza di scoprire uno dei luoghi più antichi della fede cristiana, dopo Gerusalemme, ovviamente costruito per sostituire, o più precisamente per sovrapporsi, a un antico tempio pagano, romano o greco, chissà. In ogni modo qui la fede non è un’opinione, è forte come la roccia. Quella dei cristiani e quella dei musulmani. Maria fa da trait-d’union tra i fedeli delle due religioni, forse non a caso. Forse è una profezia.

mercoledì 20 ottobre 2010

Auvers-sur-Oise, Van Gogh e gli scioperi


Mentre la Francia vive momenti di alta tensione politica e sociale, una visita nel paese che ospita le spoglie di Van Gogh (a cui Roma dedica in queste settimane una mostra importante) può insegnare il senso della misura. Si era nel 1993.

La chiesa di campagna immortalata dal pittore fiammingo negli ultimi squarci della sua tormentata carriera d’uomo si erge nella modestia contadina, così simile al dipinto eppure così diversa, quasi meno reale della copia. Potenza dell’arte, potenza dell’immaginazione! Controvoglia salgo i quattro materiali scalini della parrocchiale, che subito m’appare deturpata nella sua semplicità architettonica dal solito armamentario dei curati: annunci libretti rosari questue riviste.

Immaginavo di potere incontrare sotto le volte neogotiche un vecchio sacerdote senza più forze né illusioni che mi scaldasse il cuore, come a Emmaus; che mi ascoltasse calmo e amoroso, come al pozzo di Samaria; che mi capisse acuto e misericordioso, come l’angelo del sepolcro vuoto; che mi rimproverasse con un drammatico: «Mi ami più di costoro?». Ci sono giorni così. Il prete appare sul serio, ma giovane e dinamico, scattante come una cavalletta, preoccupato che tutto funzioni alla perfezione per la cerimonia che comincerà di qui a poco. Non mi degna ovviamente di uno sguardo. Meglio così. Meglio emigrare da questa chiesa, quest’oggi chissà perché senza Santissimo. Chissà dove l’hanno nascosto, quasi che ci si dovesse vergognare della sua presenza.

Sono giorni blu, come il cielo che avvolge le arcate schizoidi del folle d’Anversa, pazzo per amore. Dietro la chiesa, oltre un prato ubriaco di ranuncoli, giacciono le tombe dei due fratelli Van Gogh, Vincent e Théo, legatissimi in vita, uniti nella stessa terra mortuaria. Altrove la gente si slancia accecata sulle orme dell’uomo che da vivo non vendette nulla; Van Gogh Museum, Moma, Héremitage e Musée d’Orsay rigurgitano di gente assetata di vedere, ingoiare e digerire in pochi minuti le sue pennellate geniali. Senza grande successo, domani un Cezanne o un Michelangelo pubblicizzati prenderanno il posto del fiammingo, in una confuzione da supermercato dell’arte.

Auvers-sur-Oise gode invece della pace dello spirito. Cosa valgono le ceneri di un pittore, anche del più grande? Polvere. Van Gogh, eunuco della vita. Ma le sue ceneri sono avvolte da un fitto cuscinetto di edera silenziosa. Un capolavoro di divina semplicità, che Vincent avrebbe certamente approvato.

Van Gogh ha sperimentato l’eterna assurdità di riconciliare il mondo col suo Dio. Ha ricominciato cento volte. La centunesima gli fu fatale. Ma, ne sono certo, nell’agonia, avrebbe voluto ancora ricominciare. Il sangue nero di polvere da sparo glielo impedì.

giovedì 14 ottobre 2010

Serbia, la pace tra 10 mila anni


1999: intervista all’allora arcivescovo cattolico di Belgrado, Franc Perko, personaggio conosciutissimo a Belgrado, di cui all'epoca era arcivescovo metropolita. Di grande interesse rileggerla dopo i fatti di Genova.


Nato nel ’29, Franc Perko è sloveno. Mi accoglie nel suo studio carico di libri, riviste e soprammobili, che evidenzia una cultura vasta e coltivata: è teologo orientalista e “basilista”. È stato condannato a quattro anni di prigione, che ha scontato dal ’55 al ‘58 proprio a Belgrado. L’arcivescovo fuma la pipa e ha un parlare schietto.

Proprio oggi si festeggiano Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei Balcani. Cosa le suggeriscono le vicende dei patroni dell’Europa «a due polmoni», assieme a Benedetto?

«Nell’attuale difficile situazione è molto importante che la chiesa contribuisca alla creazione di una nuova mentalità di perdono, convivenza, e, perché no, mutuo amore. Tra singoli e tra etnie. La pace dipende da questo cambiamento di mentalità, che tuttavia non si può fare dal giorno alla notte. Inutile illudersi. È una sfida, un dovere non solo per la Chiesa cattolica, ma anche per quella ortodossa e per la comunità musulmana. Penso che la mia chiesa sia pronta a questo passo, che anzi sta già compiendo. Ma sono felice che anche la Chiesa ortodossa si sia avviata nella stessa direzione, ammettendo alcuni errori passati. È una speranza; bisogna essere pazienti e ottimisti».

La propaganda del regime è invadente. Ma anche in Occidente spesso non abbiamo informazioni esaurienti. Così si dipinge il popolo serbo come bellicoso e quasi diabolico…

«No. Tutti i popoli sono uguali. Che alcune persone appartenenti all’etnia serba siano sotto l’influsso del male, questo è un altro discorso. Ma di gente così ce n’è in tutti i popoli. Così non si può nemmeno dividere la popolazione tra buoni e cattivi; ma c’è qualcosa che, a mio avviso, ha falsato l’orizzonte politico, religioso e sociale della regione: l’idea della Grande Serbia, che andrebbe difesa (e non conquistata) contro coloro che la minacciano nella sua esistenza. Nella penultima guerra balcanica, quella del ‘91, paradossalmente erano in conflitto solo difensori: mi dica, non è difficile fermare una guerra quando non c’è un solo attaccante, un solo colpevole? Il regime attuale ha usato quest’idea della Grande Serbia anche nel recente conflitto: la Serbia non esisterebbe senza il Kosovo. Alcuni esponenti religiosi hanno appoggiato ripetutamente quest’idea, sin dalla guerra con la Croazia: so per certo che nei giorni precedenti il conflitto, autorevoli uomini di chiesa in Kraijna diffondevano e sostenevano questa teoria. In quell’occasione era stato persino rifiutato un piano croato (detto Z4), per una forte autonomia della regione. E ora, dopo la nuova ripartizione della Bosnia-Erzegovina firmata a Dayton, la Grande Serbia non c’è più. È vero, emerge lo spettro di una Grande Albania, che si esprime tra l’altro nella purificazione etnica attuata dai kosovari albanesi in numerosi villaggi abitati anche dai serbi, già prima di quest’ultimo conflitto. È ora di finirla con queste menzogne storiche e politiche».

La carta dei Balcani è impressionante per il mixing etnico. Sarebbe possibile dividere definitivamente le etnie? Non servirebbe piuttosto un piano per la loro coesistenza pacifica?

«Dividere le etnie nei Balcani è assolutamente impossibile, come ha dimostrato la guerra in Bosnia ed ora il conflitto in Kosovo. Lo ripeto, più che un piano politico (pur necessario) c’è bisogno di un cambiamento di mentalità per giungere alla coscienza che si deve vivere assieme. Solo questo è il futuro, al quale debbono collaborare tutte le comunità religiose. Si conoscono ad esempio i codici di vendetta esistenti tra gli albanesi: in Kosovo i cattolici avevano proposto e realizzato un perdono generale tra tutti gli albanesi, cattolici o musulmani che fossero. I conti erano stati azzerati. Ma i cattolici albanesi non avevano rivolto questo invito al perdono reciproco a serbi e rom. Sarebbe ora opportuno farlo. È vero, ci sono migliaia di morti che pesano sulla bilancia, ma senza azzeramento delle vendette non si riuscirà ad uscirne vivi. La Chiesa cattolica è pronta a fare questo passo, speriamo che lo siano anche i cattolici».

L’Europa si interroga, perché nel suo seno è nata questa guerra, risolta coi bombardieri americani. Quale ruolo può ancora giocare il vecchio continente?

«L’Europa ha fatto molti sbagli, ma ha anche avuto i suoi meriti. Senza la sua presenza - lo dico senza remore - le cose sarebbero andate molto peggio. Dopo il crollo del comunismo, che aveva fatto tacere con la paura le discordanze etniche dando cinquant’anni di apparente pace ai Balcani, i movimenti sociali si sono rimessi in moto. I piccoli popoli, giustamente, non sopportano più di restare sotto il dominio dei grandi. La Russia stessa, con le sue quindici etnie maggiori, è sul bordo dell’esplosione. Penso che il processo di decolonizzazione africana ci insegni qualcosa: le frontiere, quali che siano, debbono restare intatte. Questo principio ha salvato l’Africa dalla totale anarchia. Nei Balcani ha tenuto finché non è venuta fuori quest’idea della Grande Serbia, e tutto è saltato per aria. La Bosnia si è salvata grazie proprio a questo principio dell’immutabilità delle frontiere. Credo che lo stesso possa accadere col Kosovo. Autonomia delle singole regioni, sì. Indipendenza, no».

A suo avviso, quali sono i lati più positivi del popolo serbo?

«L’ospitalità, l’amicizia e il rispetto, soprattutto - a dire il vero - per chi è dalla loro parte. Un giovane studente serbo mi disse un giorno: siamo amici, perché allora non abbiamo la stessa lingua? Gli risposi che dovevamo rispettarci e amarci, ma nella diversità. I serbi sono inoltre eccellenti non solo nel calcio, ma anche nella cultura. È un popolo fiero e nobile».

A quando la vera pace nei Balcani?

«Tra 10 mila anni».

10 mila, senza sconti?

«A meno che la provvidenza non intervenga. Questo lo spero e lo credo».

martedì 12 ottobre 2010

Masada, l'orgoglio degli ebrei

Il governo israeliano ha approvato una modifica alle norme della concessione della cittadinanza: bisognerà giurare fedeltà anche all'ebraicità dello Stato. Visita a Masada, orgoglio d'un popolo.

Masada, Massada o Mezada, dipende dalle traslitterazioni. Il Mar Morto giace come sempre sonnacchioso, con le onde rese vischiose dalla concentrazione salina, sotto una foschia che sa di inerzia, di mestizia, di polvere sospesa nell’aria. Il profilo del Monte Nebo s’intravede al di là della distesa d’acqua che ricopre la depressione: il papa è lassù, a predicare pace su queste terre che nella storia hanno conosciuto più conflittualità che tregue. I paesaggi sono lunari, desertici, aspri: si capisce così l’asprezza di questa gente avvezza più a costruire muri che ponti. Qui in effetti anche le montagne paiono muri invalicabili, o quasi. Come lo sperone roccioso di Masada, che persino i romani fecero un’improba fatica a conquistare. Spingendo i difensori a immolarsi come kamikaze ante litteram, forse seguendo il Sansone biblico, che gridò in un impeto di collera nazionalistica: «Muoia Sansone con tutti i filistei».

Che i romani abbiano faticato tanto a conquistare il simbolo stesso dell’entità nazionale ebraica lo si capisce da subito, salendo dal Mar Morto fino alla roccaforte di Masada, issata su una roccia che pare un tronco di cono sovrastato da una piattaforma che già dalle pendici del monte pare grandiosa. Si può salirvi usando una funivia di fabbricazione svizzera – rassicurante presenza elvetica –, oppure sfidando sole e calore imboccando lo snake path, il sentiero del serpente, chiamato così non a caso, per l’ardito percorso che s’inerpica lungo il crinale orientale. Ad ogni tornante lo scenario acquista toni sempre più epici, quasi si stesse spiccando il volo a picco sull’azzurro cupo del Mar Morto. E salendo si scorgono pure i perimetri ben visibili degli accampamenti che i romani eressero per porre l’assedio alla fortezza, che durò circa sei mesi. Eressero pure una muraglia di legno, per impedire ogni via di fuga agli assediati: oggi resta un lungo e ininterrotto muretto a secco che ne ripercorre il tracciato.

È con non poco sollievo, allora, che si giunge alla Porta Orientale, attraversata la quale s’apre il vasto altipiano (700 metri su 300) di Masada, che dapprima non suscita grandi entusiasmi, a dire il vero, né estetici né archeologici, salvo per tre o quattro torri monche che paiono più che altro residui di un forte militare d’altri tempi, o poco più. Ma è questione di qualche centinaio di passi, quando il reticolato di muri svela la città che lassù era stata costruita, o piuttosto una reggia fortificata. Se la polvere, che nell’ascesa contrappuntata da gradini che si sfaldano alternati ad altri che invece paiono venire dai millenni trascorsi e andare verso nuovi millenni, era stata invadente e appiccicosa, qui invece si erge addirittura in volute modellate dal vento che paiono materializzare fantasmi. Ebraici e romani, in lotta tra loro, con il corredo di zeloti ed esseni e finanche cristiani bizantini.

La fortezza viene descritta dallo storico ebreo che s’aggregò all’esercito romano, Giuseppe Flavio, quasi un imbedded reporter dell’epoca. Fu il re Erode, quello del tempo di Gesù, quello sepolto nella collina artificiale dell’Herodiyon (40-4 a.C), che rese grande Masada, trovando il luogo adatto a difendersi dai tanti nemici, reali o potenziali, che minacciavano Israele. Così su questo pianoro eresse una reggia e una fortificazione di eccellente fattura, usando dell’arte dei migliori artisti e artigiani dell’epoca. Scriveva Giuseppe Flavio: «Costruì sulle mura trentasette torri e un intero castello, cosicché la sua opera si erge verso il cielo e di fronte agli uomini a riparo del nemico che sale in guerra contro di lui».

Ma la vicenda di Masada fu resa epica dalla grande rivolta contro i romani del 66 d.C., quando un gruppo di “sicari” (zeloti estremisti, determinati alla morte pur di sconfiggere il nemico), guidati da Menachem Ben-Yair, attaccò la fortezza sottraendola al controllo romano. Arrivarono anche gli esseni quassù, in un impeto di orgoglio tutto ebraico. Dopo la caduta di Gerusalemme, nel 70 d.C., gli ultimi ribelli si rifugiarono proprio quassù. Vi costruirono nuovi edifici, sia militari che cultuali che educativi. Finché i romani, al comando di Flavio Silva, tre anni più tardi intrapresero la riconquista di Masada. Mille erano quassù, diecimila laggiù. Ma l’assedio non fu facile, e durò alcuni mesi. Fu una terribile battaglia in cui gli assediati si decisero alla morte pur di non cadere vivi in mano del nemico: dapprima furono le donne e i bambini ad essere sgozzati dai loro stessi mariti e padri, i quali poi funsero da kamikaze ante litteram, cercando di sacrificarsi solo dopo aver ammazzato ciascuno dieci nemici, più o meno. I romani, vinte le ultime resistenze, trovarno a Masada solo una distesa di cadaveri. Vennero poi i bizantini, prima che l’intero sito cadesse nell’oblio, finché due archeologi inglesi, Smith e Robinson, nel 1838, reperirono di nuovo il sito. Ma solo nel 1953 vennero reperiti il Palazzo Nord e la serpentina, e fu così chiarito l’enigma storico di Masada, così come l’ho sommariamente raccontato.

Si capisce, allora, come Masada sia diventata il simbolo storico dell’eroismo ebraico, al punto che gli ebrei ora vengono in questo luogo come si va in un pellegrinaggio, ritenendo questo luogo il simbolo della conquista della libertà. È la storia della resistenza di una minoranza contro la maggioranza: in fondo, la storia del popolo ebraico. Non a caso i soldati israeliani impegnati nelle più complesse operazioni militari e di intelligence contro il terrorismo palestinese (o la resistenza, dipende dai punti di vista!) vengono quassù giurare la loro fedeltà allo Stato ebraico, naturalmente sulla Torah.

È importante deambulare nel sito avendo ben in mente questa storia, che spiega tutto, o quasi, di questi reperti. Così le terme – con frigidarium e calidarium e tiepidarium – e il complesso sistema di raccolta delle acque (già all’epoca una specialità degli abitanti del luogo di religione ebraica), così i magazzini regolari e efficienti, così il Palazzo di Erode vero e proprio, costruito su tre livelli, quasi sospeso nel vuoto, così i mosaici di squisita fattura che compaiono qua e là nelle abitazioni e nelle casematte. Si cammina e si respira la profondità dei millenni, pare di scorgere, nelle frotte di turisti velati dalla nuvola di polvere, truppe disposte al combattimento; pare di udire le grida dei bimbi che scorrazzano nelle corti delle scuole; pare di veder le donne intente a coltivare i loro orticelli e a raccogliere l’acqua piovana fino all’ultima goccia. Pare scorgere il corteo reale incamminarsi per le celebrazioni dello shabbat

venerdì 8 ottobre 2010

Shanghai, il castello del capitalismo comunista


Il premeir cinese Wen Jaobao è in visita in Italia. Ha promesso 100 miliardi di scambi tra Cina e Bel Paese. Visita del 2006 a Shanghai, capitale del capitalismo locale.

Industrializzazioni spinte all’estremo e limitazione delle libertà religiose e di pensiero, consumismo sfrenato e comunismo al potere. Sono contraddizioni a lungo sopportabili? Questo mi chiedo in attesa dell’aereo della China Eastern che mi condurrà a Shanghai, capitale commerciale del Paese: se Beijing è la storia e la tradizione, Shanghai è invece il presente, costruito com’è con criteri di massima produttività e spirito d’iniziativa privata.

Abito in una torre di 35 piani, proprio di fronte al mercato più noto ai turisti occidentali, quello dove si vendono i prodotti di marca europei, in particolare italiani, contraffatti bene: dai Rolex ai Louis Vuitton a Prada e Armani. Tra pochi mesi questo mercato, anche per le pressioni occidentali, verrà chiuso, e i commercianti che vi sono attualmente accolti non avranno più la licenza di vendere. Ma questo, mi spiegano, avrà probabilmente come solo effetto quello di moltiplicare tali templi della copia, perché la capacità riproduttiva cinese e il disprezzo per le leggi internazionali della proprietà è assolutamente irrefrenabile.

Dalla mia finestra si ammirano centinaia di grattacieli, una foresta impressionante di acciaio e cemento, anche se è rivolta verso il Nord, e quindi non riesce a inquadrare Pudong, il massimo centro commerciale della città, che conta il maggior concentrato al mondo di grattacieli assieme alla lontana Manhattan e alla vicina Hong Kong. «Ma sono in media i più alti esistenti», ci tengono a dirmi degli amici. Aggiungono che la corsa ai grattacieli è finita, perché il sottosuolo della metropoli, sottoposta ad un’enorme pressione, comincia qua e là a cedere. Per questo motivo sono state interrotte tutte le estrazioni di acqua dal sottosuolo, e per questo i nuovi progetti vengono valutati uno alla volta, con rigore. Non è nemmeno immaginabile pensare quello che succederebbe se ci fosse un cedimento, fosse anche di mezzo metro, del terreno di Shanghai.

Mi reco a pranzo in un noto ristorante del centro, il Nanxiang Steamed Buns, dove si sono fermati a gustare le prelibatezze della cucina di Shanghai – meno fritta, va detto, di quella di Beijing – persino la regina Elisabetta d’Inghilterra e Bill Clinton. Non costa più di tanto (25 euro in quattro), e si rivela una cucina prelibata: un’infinità di cibi dolci e salati, accompagnati da un tè meraviglioso che sembra sciogliere ogni grasso, con manicaretti che paiono impastati dalle mani di un chef di grandi capacità.

Il ristorante dà su una piazzetta sospesa sopra un piccolo lago in cui sguazza una moltitudine di pesci rossi ingozzata da cento e cento mani generose che si sporgono dai parapetti come stessero nutrendo gli dèi stessi. La folla è traboccante e impenetrabile, un muro, dedita alle più varie attività, in certo modo incurante di chi passa accanto. Siamo nel centro antico della città – antico, si fa per dire, qualche edificio supera appena il secolo o i due –, completamente restaurato e trasformato in un immenso centro commerciale che offre di tutto e di più, dalle effigi di Mao ai profumi di Calvin Klein, alla Bibbia. È in certo senso un buon modo per introdurmi al capitalismo cinese, alla sua incredibile aggressività e, almeno in apparenza, alla sua assoluta mancanza di etica. Tutto è possibile, sotto l’occhio attento del Grande Fratello.

È un impatto forte, quello con Shanghai, 17 milioni di abitanti, una storia in fondo breve, un passato coloniale a opzione plurima, uno sviluppo economico al 30 per cento annuo, un’esplosione edilizia che non ha eguali al mondo. È la città dei grattacieli, di tutte le fogge e le altezze. Ce ne sono a bombetta, a foulard, a punta, a palla, a bustina, a infiorescenza, a borsalino, a piume. E ancora a biscotto, a carota, a sedano, a zucchina, a mango, a melanzana. Ce ne sono bombati e slanciati, tozzi ed esili, giunchi battuti dal vento e querce secolari. Gli architetti del mondo intero vengono qui a vendere i loro progetti ai cinesi, che hanno soldi e mano d’opera a buon mercato, know how e gusto del rischio.

È tutto vero, ma Shanghai, vera città cinese del business, ha l’attenzione dovuta per i suoi edifici più antichi, che vengono preservati e restaurati qui sul Bund sul quale passeggio sul far della sera, illuminato a festa. In questo modo la città cerca di attirare turisti cinesi in primo luogo ma anche europei e americani, tanta valuta pregiata e una riserva di plusvalore impressionante a causa dei ritmi di lavoro e degli stipendi ancora bassi, da Paese in via di sviluppo, e dello yuan che il governo non accetta di rivalutare. Con queste riserve il governo cinese sta comprando il debito estero statunitense, robe dell’altro mondo!

Shanghai ha il concentrato di popolazione di Hong Kong e la vastità dell’abitato di Pechino. Una miscela esplosiva, se non fosse per la straordinaria capacità disciplinare del popolo cinese. Lo penso osservando, al di là del fiume Huangpu, Pudong, uno degli skyline più belli al mondo. Su un grattacielo vengono proiettate immagini della Gioconda, di quadri di Van Gogh, di film di Fellini. Ecco la globalizzazione alla cinese!

Finalmente varco il fiume. Qui sono concentrati alcuni degli edifici più alti e avveniristici della città, attorno a quella Torre della televisione che è diventata il simbolo della città, con le sue due enormi sfere lucenti che ne ornano la base e la cima. Salgo alla sommità del più alto grattacielo della città, quel Jinmao Dasha, edificio cristallino, scintillante, alto ben 420 metri, che negli ultimi 35 piani ospita uno dei più straordinari hotel che esistano al mondo, in un’avveniristica cavità scintillante d’oro. Dalla cima della enorme torre lo spettacolo è vertiginoso, anche se la foschia oggi è particolarmente densa. Si ha l’impressione che un gigante stia giocando coi birilli, che la gravità umana sia più relativa che altrove, e che si possa incarnare per una volta lo scalognato Icaro, ma con più fortuna.

Ai piedi del grattacielo, magnati thailandesi hanno costruito un avveniristico centro commerciale, tutto luci e ammiccamenti e pubblicità. E l’interrogativo essenziale di questa mia visita riprende forma e colori: come può convivere una società comunista, retta ancora da un partito forte e onnipotente, con una società di mercato spietata e tragicamente avviata ad accrescere le disuguaglianze sociali? Le risposte stanno o nella progressiva diminuzione dell’uno o dell’altro: facile pensare che sarà il materialismo spietato a scacciare il comunismo altrettanto spietato. Ma chi poi renderà la gente più felice?

venerdì 1 ottobre 2010

Konyeurgench, le culle in miniatura


Le rovine raccontano più delle costruzioni rimaste in piedi. Nelle macerie di tanta parte dell'Asia centrale, Konyeurgench, in Turkmenistan, è un capolavoro.

Era la vera Urgench, ma gli uzbechi hanno voluto non perdere il suo nome, costruendo un’orrida città con lo stesso nome a un centinaio di chilometri di distanza. Così l’antica capitale del Khorezm ha dovuto chiamarsi Konyeurgench, cioè antica Urgench. Poco male, ciò non toglie nulla alla sua gloriosa storia: il Khorezm, in effetti, faceva figura di un’oasi di civiltà nel deserto dell’Asia centrale. Nel VI secolo a.C. divenne persiano, mentre già nell’VIII secolo gli arabi vi introdussero l’Islam. La grandezza della città divenne reale nel 995, grazie al re Mamun, che unificò il Khorezm: all’epoca l’Amu Darja, l’immenso fiume che viene dal Pamir, attraversava ancora la città. Furono però i Khorezmshah, dinastia selgucide, a dare il massimo splendore alla città. Fino al regno di Muhammad II, che spostò la capitale a Samarcanda, irritando nel contempo il “grandissimo” dell’epoca, Gengis Khan. Risultato: i mongoli distrussero Samarcanda, Bucara, Khiva e Konyeurgench. Muhammad II morì in esilio nel 1221, su un’isoletta del Caspio. Nella città restano i mausolei di suo padre e di suo nonno. Tamerlano ci mise poi del suo, radendo di nuovo al suolo la città, nel 1388. Non si riprese più, Konyeurgench.

Si respira storia da queste parti, che contrasta non poco con la piccola storia che, invece, si vive nell’abitato più recente di Konyeurgench, che fa da corona ai due siti archeologici. Poca roba, ma grande povertà – quella che il presidente-dittatore vuole nascondere alla sua opinione pubblica e, soprattutto, agli stranieri –: un bazar assai povero, pochi edifici pretenziosi di rappresentanza, pressoché inutili, come quelli che ho visto ad Ashgabat, Mary e Dashoguz. Poche attività commerciali e artigianali, per giunta sommarie. Pranziamo in uno dei migliori ristoranti della cittadina, che conta circa 15 mila abitanti, affacciato su una strada polverosa, gestito da una coppia uzbeco-coreana: qui i sovietici, in effetti, avevano fatto traslocare con le buone o con le cattive alcune migliaia di coreani del nord. Tre e solo tre sono i piatti a disposizione degli avventori, cotti in una cucina a vista di sporcizia notevole: spiedini (ne ho fin sopra i capelli), salsicce di pecora (idem) e lenticchie con una sorta di hamburger. Opto per quest’ultima pietanza, nei fatti assai appetitosa, anche se estremamente ricca di calorie. E così comincio a sudare come una fontanella, mentre l’aria condizionata non ce la fa più a sputare fresco. Sopore prolungato seduto su un divano ricoperto da un polveroso tappeto. In effetti la polvere regna sovrana, perché qui le strade secondarie non sono asfaltate. Esco, do uno sguardo dentro un cortile: c’è solo povertà, disagio sociale, trascuratezza. Qui la gente ha come prospettiva storica quella di portare a casa qualcosa da mangiare per la giornata, il mese sarebbe già un lusso. Un vecchio, Ahmad, intabarrato in un abito di lana, come solo i vecchi ormai fanno, mi confessa: «Vivo con la pensione di 15 dollari al mese. Il resto lo tiriamo fuori con altre attività agricole. In famiglia siamo in cinque a dover vivere. Già sopravvivere è importante».

È da queste case e da queste strade che mi inoltro nel primo lotto del sito di Koneurgench, certamente il minore, ma comunque significativo, in particolare per la fede dei musulmani turkmeni, certamente non delle più ortodosse e vive, ma forse sottovalutata soprattutto dal governo laico che vorrebbe ora lunghe schiere di musulmani obbedienti. Due in particolare sono gli edifici che meritano attenzione, due mausolei guarda caso: quello di Najm-ed-Din Kubra (XII secolo) e quello del sultano Ali (XV secolo). Il primo è il luogo più venerato della città, dedicao com’è al maestro sufi che nel XII secolo fondò l’Ordine di Kubra. Si ritiene che la sua tomba abbia poteri terapeutici. Mi diverto a seguire tre donne, giovani e slanciate, che appaiono devotissime, che toccano ogni pietra, che compiono percorsi votivi per me misteriosi, che recitano incomprensibili formule di preghiera. Le fotografo e loro stanno al gioco: la gente turkmena è estremamente affabile.

Ma è all’esterno della città che si trovano i grandi monumenti che testimoniano ancor oggi la grandeur perduta della capitale del Khorezm. Maestoso, anche se di dimensioni in fondo non straordinarie, è il mausoleo di Turabeg Khanym, del XIV secolo, simbolo della rinascita di Konyeurgench dopo il passaggio devastante dei mongoli. È l’edificio antico più importante giunto pressappoco ancora integro all’appuntamento del XXI secolo. È accogliente, armonioso, perfetto anche se in fondo fragile, con la sua cupola esterna ampiamente danneggiata e le decorazioni in ceramica quasi interamente divelte dal tempo, dalle intemperie e dall’incuria. Ma mantiene una sua dignità, la fierezza di un passato glorioso e di un presente un po’ trascurato: non è che i restauri siano poi stati impeccabili e la pulizia lascia a desiderare, coi piccioni che spargono il loro guano ovunque. Ma il rivestimento interno della cupola è rimasto intatto, meraviglioso nei suoi blu e azzurri che in qualche modo vogliono riprodurre la volta celeste. L’osservo nelle sue geometrie che, per volere religioso islamico, prendono il posto delle rappresentazioni figurative. Ma no, che dico, le figure ci sono: le costellazioni e i sogni e i misteri della Terra e del Cielo. Nei fatti il mosaico rappresenta i 365 giorni dell’anno, gli archi a sesto acuto sotto la cupola raffigurano le 24 ore del giorno, mentre i sottostanti archi rappresentano i 12 mesi dell’anno. Le quattro grandi finestre stanno per le settimane del mese.

È faticoso camminare quest’oggi col calore che fa. Ma almeno ora la meta è chiara, lo slanciatissimo minareto di Kutlu Timur, eretto nel 1320, che contende a quello di Bucara il primato dell’edificio antico più alto dell’Asia centrale. Da lontano pare pendente e d’altezza indefinibile – so che raggiunge i 67 metri –, ma avvicinandomi appare certamente ragguardevole, con la sua silhouette aggraziata, quasi un porro gigante, oppure un giunco col suo bulbo. Oppure, perché no, una giovane donna stilizzata. L’apertura d’ingresso è posta a dieci metri d’altezza sopra una fonte alla quale si abbeverano i pellegrini – che coraggio, l’acqua ha il colore della terra quando esce dalla cannella! –. Ci stanno lavorando degli operai, che tuttavia riesco a “corrompere” per qualche manat. 275 gradini – o, meglio, balzi – di altezza sempre diseguale, in un buio impressionante, per poi arrivare alla delusione di un’apertura sommitale a cui non è possibile affacciarsi, tutto è ancora in restauro. E allora scendo, con estrema attenzione, usando la mia lampada frontale benedetta, come fossi nel ventre di una balena posta in posizione verticale, o piuttosto nel cuore di una fede che non cessa di voler salire in alto, sempre più in alto.

Ma i due edifici che più mi incantano sono visibili solo dall’esterno. Si tratta dei mausolei di Sultan Tekesh e di Il-Arslan, rispettivamente nonno e padre di Muhammad II. Mi colpiscono per la forma delle cupole, coniche o quasi, più attente si direbbe al Cielo che alla Terra, protese verso l’alto con le loro ceramiche azzurre a zigzag che sembrano essersi in gran parte staccate proprio nello sforzo di sollevarsi, come le scaglie di ceramica di uno sky shuttle. Dalle contingenze umane alle cose più serie. Hanno un che di indifeso, più che incutere timore, un desiderio di accogliere sotto quella strana cupola uomini e donne e bambini e vecchi, nella speranza di portarli alla gioia della vita piena.

Il resto non ha gran peso archeologico, a Konyeurgench, La fede popolare sembra privilegiare luoghi di recente costruzione piuttosto che le pietre della storia. In particolare la gente si concentra su un mausoleo dedicato alla “vecchia fiamma”, reminescenze zoroastriane. Sulla collinetta attigua, chiamata Kyrkmolla che, probabilmente, ospitava il più antico villaggio di Konyeurgench e dove si combatté l’ultima battaglia, la più sanguinosa, contro i mongoli, sono state scavate ed erette varie tombe e vari luoghi di preghiera. Uno in particolare mi colpisce: un semplice mucchio di sassi sui quali le donne con problemi di fertilità depositano delle culle in miniatura, come voto ai Santi perché concedano loro la grazia della maternità. Mi pare un segno: le civiltà muoiono e, di solito, continuano in forma diversa in altre civiltà, dando in qualche modo loro vita. Non accade sempre. A volte le civiltà perdono la loro fertilità.

lunedì 27 settembre 2010

Chiara Luce Badano beata


Intervista al sottoscritto pubblicata su "La Provincia" di Como, Lecco, Sondrio e Varese, a firma Alberto Galimberti, a proposito del libro "Io ho tutto. I 18 anni di Chiara Luce", che sabato 25 è stata proclamata beata.

Chiara Badano aveva 18 anni, il cuore traboccante d’amore per Gesù e un tumore alle ossa che le stroncò la vita il 7 ottobre 1990. A 20 anni di distanza la sua testimonianza suscita ancora conversioni e riempie di senso la speranza e la fede in Dio. Domani, 25 settembre, sarà la prima persona appartenente al movimento dei «Focolari» a essere proclamata beata. Michele Zanzucchi, direttore di Città Nuova e autore del libro su Chiara Badano "Io ho tutto" ci aiuta a delineare il normale eroismo di questa ragazza.

Chi era Chiara Badano?
Chiara era una ragazza di 18 anni con un male (sarcoma osteogenico con metastasi) che oggi si potrebbe curare mentre negli anni ’80-’90 non prevedeva alcun rimedio. Nata a Sassello, trascorse un’infanzia spumeggiante e felice. Coltivò sin da piccola la propria fede grazie all’educazione ricevuta in casa e alla frequentazione della parrocchia. Un rapporto irrobustito e arricchito dall’incontro a 9 anni con il movimento dei Focolari. Una ragazza estroversa e sensibile come raccontano gli episodi d’infanzia quando decise di destinare ai bambini poveri i suoi giocattoli nuovi (e non come verrebbe normale quelli vecchi o rovinati) e quando ospitò una compagna di scuola da poco orfana, avvisando la mamma di aggiungere un posto alla mensa perché «oggi sarebbe venuto a trovarci Gesù». Esperienze, se vogliamo piccole ma paradigmatiche di un rapportarsi con gli altri
in modo semplice e nella verità.

Un’adolescenza serena, una giovinezza pronta a dischiudersi. E poi l’irruzione della malattia... L’adolescenza di Chiara era un’emozionante ricerca di vere amicizie e voglia di futuro. Il liceo classico, la passione per lo sport e la natura. Poi, celato in un acuto dolore alla spalla sopraggiunto
durante una partita di tennis, il tumore alle ossa e la vita che si stravolge in un istante. Quando scrissi la biografia di Chiara, rimarcai questo elemento. Chiara una volta informata della gravità
della propria malattia, rientrò in casa ed evitando gli sguardi dei genitori, si rifugiò in camera. Trascorsero 25 minuti e Chiara disse alla mamma: «Se lo vuoi tu Gesù, lo voglio anch’io». In un grappolo di tempo, 25 minuti, Chiara comprese il significato della sua esistenza e decise di instradarsi verso la propria santità. Quando Chiara Lubich lesse il libro mi confidò che dissentiva da quella mia opinione. Mi disse infatti: «Chiara Badano iniziò a essere santa nel momento stesso in cui cominciò a vivere». Credo che avesse ragione Chiara Lubich.
Quanto fu importante per Chiara l’incontro con i Focolari e l’intensa corrispondenza con Chiara Lubich?
L’importanza è radicale e lo affermano gli scritti di Chiara Luce stessa nei quali si scorge più volte la volontà di scegliere quel Gesù abbandonato che era il "segreto" di Chiara Lubich, come lo sposo
della sua vita (lascerà precise indicazioni di essere sepolta con il vestito bianco perché da sposa voleva prepararsi all’incontro con il suo Sposo). Il Movimento dei Focolari ha sicuramente infuso
in lei quel senso profondo della vita spirituale e comunitaria che le ha permesso di affrontare la malattia e la morte nella pace e nella serenità, arrivando addirittura a rinunciare alla morfina per
non perdere la lucidità di continuare a pregare Gesù e restare in contatto con Lui.

Qual è il portato spirituale di "Luce", come la chiamò poi Chiara Lubich? Il suo merito è di aver incarnato una santità popolare, vicina all’uomo, un modello imitabile. La santità che viene mostrata come una via normale di vita, ma che irradia. Ecco la straordinarietà di "Luce". Non solo frutto di una scelta personale. Ma un cammino accompagnata dalla condivisione con la comunione dei suoi genitori, delle sue amiche del movimento.

venerdì 24 settembre 2010

Hué, la grandezza dei dettagli


La Piaggio ha deciso di investire per il suo sviluppo in Vietnam, Paese dove il 50 per cento della popolazione viaggia in sella a scooter che paiono zanzare. Visita (in taxi-motorino) alla città imperiale (dicembre 2009).

È una città imperiale, Hué, e ci tiene ad esserlo, anche in epoca comunista, come lo fu in epoca coloniale. Una città a suo modo santa, ma prima di tutto nobile, attenta ai grandi movimenti della storia e quindi anche ai più infimi dettagli della vita quotidiana. Dettagli che dicono tutto, forse molto di più di quanto non possa dire l’insieme delle grandi visioni.

Colpisce subito, Hué, perché i suoi spazi non sono spazi qualunque, ma spazi regali, altamente regali, addirittura imperiali. Non per niente la città è divisa in due da uno dei più fascinosi corsi d’acqua che mai abbia avuto modo di ammirare, il Song Huong, il Fiume dei profumi (già il nome è un incanto). L’orizzontalità prende subito possesso della sensibilità del viaggiatore, che non può non accomodarsi in questa prospettiva che, dapprincipio almeno, trasmettere una grande serenità, un desiderio di godere delle semplici naturalità del luogo. Sul fiume scorrono placide le lunghe barche a fondo piatto che il nostro immaginario collettivo ha da sempre localizzato in Estremo Oriente. A completare l’idilliaco quadro, c’è la vegetazione che sembra voler accarezzare l’acqua, senza arrecarle alcun danno, senza contenderle alcuna primazia. Queste sono solo delle premesse banali, naturali, quelle che l’istinto imperiale scelse nel corso del XVII secolo. Fu in quell’epoca che cominciò ad assumere un ruolo di primazia la città di Hué. Per non perderla più, almeno fino al 1883. Una storia tutta da raccontare e da scoprire, poco alla volta.

Tanti sono i luoghi dove si po’ cogliere la grandezza di Hué, c’è solo l’imbarazzo della scelta; luoghi che hanno scelto come ambientazione il fiume e i suoi dintorni, il fiume e i suoi profumi, là dove gli effluvi dell’acqua e dell’incanto arrivano eccome, spandono ed espandono la propria benefica influenza. Bisognerebbe raggiungerli tutti in barca, questi gioielli, come sarebbe naturale, nell’ordine delle cose; ma in questa mia breve visita non ho in alcun modo il tempo per concedermi certi vezzi. Il viaggiatore è come un architetto: deve ammobiliare nel miglior modo possibile i limiti del tempo e dello spazio che gli sono concessi. Mi concedo, perciò, una semplice motoretta, ma con autista, un brav’uomo che si dà da fare con solerzia e competenza stradale, indicandomi i luoghi precisi in cui si può ammirare un monumento, conducendomi per sentieri nei campi e nei boschi fino alle precise posizioni in cui i panorami diventano veramente mozzafiato, come su una collina anonima che domina una straordinaria ansa del Fiume dei profumi. La vista è controluce, il sole è timidissimo, le nebbie non vogliono sollevarsi; ma la vista è di quelle che commuovono l’anima, che appagano, che raccontano l’infinito e recano con sé l’ineffabile sorpresa della felicità d’un momento strappato alla convulsione della vita.

Attraversiamo il Fiume dei profumi su uno dei tre ponti che esistono nella città di Hué. D’improvviso s’annuncia un altissimo pennone che regge un’enorme bandiera vietnamita, issati su un piedistallo nero d’umidità che pare incutere un timore che, forse, qualcuno vorrebbe diventasse terrore. È in qualche modo un simbolo della fierezza dei vietnamiti, essendo stato costruito, distrutto e ricostruito più volte, l’ultima nel 1939. «Non ti preoccupare – dice il mio driver –, dietro il pennone e la bandiera c’è la Cittadella, il nostro orgoglio». Ed è così che penetro attraverso la Porta di mezzogiorno (Ngo Mon), di per sé una costruzione di grande valore, essendo stato edificato nel 1833 per volere di Minh Mang, in uno stile che, come il resto, ha certamente delle influenze cinesi, conservando nel contempo una sua “vietnamicità”. La storia stessa lo conferma.

Anche qui alla Cittadella i lavori sono in pieno sviluppo, e i restauri «procedono secondo i piani prestabiliti», come recitano tutti i cartelli che specificano i lavori svolti e da svolgere in corso d’opera. Sarà. Qua e là sono state poste finte colonne e enormi falsi fiori di loto, non si sa quando e non si sa perché tanto sono assurdi: dettagli senza senso e senza prospettiva. Tra i vari padiglioni, non posso non segnalare un’ampia sala di ricevimento chiamata Thai Hoa, che riesce a dare il senso di una grande armonia: il nome Hué viene non a caso da Hoa, che vuol dire pace, armonia. Nella sala vengo attirato dai rossi soffitti lignei: ho l’impressione che in quelle forme merlettate di fili dorati sia riposto il segreto dell’intera città. La luce non è molta, mi spiegano i guardiani, perché le lacche ne soffrirebbero. Lacche certamente ripassate di recente; ma mi piace immaginare gli artigiani dell’epoca distenderla con tutta la passione e tutta l’arte di cui erano capaci, come svolgessero una funzione divina. E nei fatti lo era, anche perché gli imperatori vietnamiti non erano da meno dei loro compari cinesi nel considerarsi tramite tra Cielo e Terra.

Poi comincia il disastro comune e la mia fortuna. I restauri non sono che ipotesi nel resto del recinto, immenso, va detto, coi suoi 6 chilometri quadrati di superficie, attorniati da alte mura e da un fossato di grande fascino, ininterrotto lungo tutto il suo percorso rettangolare. Posso così girare tra gli operai e i visitatori quasi senza dovermi preoccupare di vedere tutto come un Pico della Mirandola del turismo. Due immagini conservo stagliate nella memoria: alcune vecchie tegole, ed altre invece nuove di zecca, appoggiate in un mucchio nel vasto spazio della Città purpurea proibita sono curate, verniciate nella superficie che deve apparire, in stato grezzo invece in quelle che vengono celate alla vista. Un mucchio alla rinfusa, che però mi permette di capire come anche i più piccoli dettagli in queste costruzioni abbiano una loro funzionalità, quasi un simbolo di quella di ogni suddito alla vita dell’impero tutto e dell’imperatore in particolare. Che sia in ruolo visibile o nascosto.

C’è un luogo che attira la mia attenzione in modo direi prepotente, essendosi però a me manifestato in modo assolutamente umile. Dietro un padiglione il cui restauro è in via di finitura – gli operai stanno in effetti dipingendo di lacca rossa lucente le colonne e le imposte – quasi nascosto da un’isolotto di vegetazione esuberante e selvaggia, s’offre alla vista una costruzione di dimensioni modeste, annerite dall’umidità: le finestre mancano di numerosi listelli, mentre l’assenza di colori trasforma le preziose decorazioni che contrappuntano i tetti incolori: draghi, uccelli mitologici, strani animali antropomorfici. La circuisco, quella che capisco essere – dopo un po’, grazie ad una iscrizione scolorita in francese – una biblioteca, anzi più precisamente il Padiglione di lettura imperiale. Voglio sedurla ma lei mi seduce. Grazie alle raffinate decorazioni di frammenti di maiolica, con gli scorci che apre con grazia sul vicino bacino del loto, usando dell’arte della curiosità per le tante aperture sul suo piccolo giardino, grazie alle bellissime piante che le fanno corona. Mi seduce ogni volta che con il teleobiettivo scorgo il motivo di una decorazione insospettabile da lontano. E mi lascio trascinare nel vortice delle continue scoperte, quasi che si passasse di cielo in cielo; oppure di terra in terra, ma con la grazia di quell’eleganza che ti fa toccare il cielo con un dito.