giovedì 26 dicembre 2013

Tempesta fuori stagione nei Caraibi


Georgetown e Orange Hill, ovvero la furia degli elementi naturali nei territori dei caribi.

Già appena lasciata la costa turistica del Sud dell’isola di St Vincent, una delle Isole Sopravento dei Caraibi meridionali, si possono notare sulla strada detriti d’ogni genere, fango e pozzanghere, pietre cadute dall’alto delle falesie. La notte di Natale è stata terribile, con la caduta di una quantità impressionante d'acqua. La popolazione è stata presa alla sprovvista, perché di questa stagione fenomeni come questi non se ne conoscevano.
Si avanza con prudenza. Poi, all’altezza del tunnel di Byera, un insolito movimento ferma il traffico. Sulla vallicciola cresciuta a monte della strada, s’è abbattuta una colata di fango che ha investito due o tre case e portato a valle qualche automobile. C’è scappato il morto, un anziano che stava dormendo, la cui stanza è stata invasa dall’acqua e dal fango. C’è dolore nelle parole degli astanti, uno dei quali è il figlio, così come un certo fatalismo. Il rapporto con la morte qui è decisamente diverso da quello che abbiamo da noi in Europa: se la nostra speranza di vita raggiunge ormai gli 80 anni, qui i 50 sono ancora un sogno… Mi raccontano che nel territorio caribi, più a Nord, sono morte altre cinque o sei persone, trasportate chissà dove dalle acque e dal fango che scendeva dalle pendici del vulcano La Soufrière, ancora attivo.
Passato il breve tunnel, oscuro, ecco che s’annuncia la seconda città del Paese, Georgetown. Dopo un primo momento di sorpresa nel vedere un abitato almeno all’apparenza ordinato e vivace, con una originale chiesa metodista e un’altra anglicana proprio sul lungomare, ingentilite e rese attraenti dagli ampi cimiteri all’inglese, prati curatissimi con tombe candide, mentre la chiesa cattolica qui giace abbandonata, senza tetto e ormai senza protezione alcuna, ecco che la cruda realtà dell’inondazione che ha colpito l’isola nella notte di Natale si fa vedere in tutta la sua crudezza. 
Le strade sono invase dal fango e dai detriti, qualcuno qua e là sta cercando di riattivare i canali di scolo delle acque, mentre la gente commenta più che darsi da fare. Arriviamo bene o male al ponte principale della città, o meglio quello che fu. È crollato su sé stesso, a metà della campata principale. Fortunatamente non era altissimo, un paio di metri, così che per miracolo, scendendo la prima metà del ponte e poi risalendo la seconda, si riesce ancora a passare in auto. Per poco, perché un altro ponte è irrimediabilmente crollato e ci si deve inoltrare verso l’interno per una deviazione istruttiva: non tanto per il disastroso stato delle strade e dell’abitato, quanto perché posso osservare un intero paese alla ricerca di acqua potabile, visto che le tubature sono saltate ovunque. 
Mi dicono che due sono le sorgenti disponibili: una da questa parte della città e un’altra, invece, sul litorale. E mi stupisce la semplicità della gente che fa la coda, magari grida ma poi aspetta il suo turno. E ci sono i giovani che aiutano i vecchi e i bambini che vogliono cooperare, e la vecchietta che con una scopetta piccola piccola cerca di aiutare nello sgomberare la via dinanzi a casa sua… 
Avanziamo oltre la città, verso la “riserva” delle popolazioni caribi, che qui non ha questo nome, preferendo quello di “territorio”. Solo nel territorio caribi, ci conferma ora la radio, sarebbero morte cinque persone e quattrocento persone avrebbero perso la casa. Lasciamo la città a fatica, per via dei ponti crollati. Ma ben presto, appena al di là del cartello indicativo che segna l’inizio del territorio caribi e l’avvio del cammino che porta alla cima del vulcano La Soufrière, con il mio amico Crespin, che guida da manuale nelle difficilissime strade di St Vincent, ci accorgiamo che probabilmente non riusciremo ad arrivare alla nostra destinazione, il villaggio di Owia, all’estremo Nord dell’isola, appena al di là di una baia che dicono incantevole, la Sandy Bay. La strada, in effetti, è spesso ridotta ad un mare di fango e detriti di ogni genere che si sono riversati sulla carreggiata. Più volte dobbiamo scendere per verificare la tenuta di ponti, muri di sostegno, curve sospese nel nulla perché la terra è stata scavata dalle acque al di sotto del manto stradale…
Un vero percorso del combattente, accompagnato dai locali, i famosi caribi, che non perdono occasione per intavolare qualche discorso con noi, ovviamente cominciando dai danni dell’alluvione. Le donne e i bambini, mentre i maschi sono impegnati nella risistemazione delle strade o nella salvaguardia delle case danneggiate, portano acqua alle loro case dalle sorgenti, perché l'acquedotto costruito qualche anno fa come segno di interesse dello Stato per la minoranza caribi è stato danneggiato in mille punti diversi dalla furia delle acque e così la potabilità è andata a farsi benedire (ma comunque l’acqua non arriva nelle case e nelle fontane). Finché, dopo diversi tentativi e dopo non pochi rischi per passaggi che forse non era prudentissimo effettuare, decidiamo di tornare indietro: questa strada “mangiata” (vedi foto) è troppo anche per chi è abituato a rischiare.  
Fantastico ritorno, perché tutta la gente che avevamo incontrato all’andata vuole sapere tutto quello che abbiamo visto e così condividere il dolore. Mi dice un vecchio barbuto: «Non è Dio che ci ha colpiti per farci credere di più in lui. Ma è la natura che ci ricorda che non siamo Dio». E dove mai ha studiato teologia questo contadino caribi?



martedì 10 dicembre 2013

Battersea, la periferia che è centro


Sulla riva meridionale del Tamigi, attorno a una vecchia centrale elettrica...

Ci sono immagini che restano impresse nella memoria e non se ne vanno più, anche decenni più tardi. Come quella che appariva sulla copertina di un album dei Pink Floyd, Animals, dove sullo sfondo di una centrale elettrica londinese volavano dei palloni aeronautici a forma di maiali rosa. Quel disco l'avevo imparato a memoria, nota dopo nota, lirica dopo lirica. E quella power station mi era diventata familiare, con le sue quattro ciminiere bianche che spuntavano da possenti assenti di mattoni che dovevano essere all'epoca rossi, ma che ormai erano diventati marrone scuro: mattoni che formavano un'insolita scalinata ovviamente non praticabile.
Oggi mi ritrovo alloggiato per un fine settimana di lavoro a Londra presso degli amici che abitano a Battersea, sobborgo londinese dominato proprio da quella enorme struttura industriale, una presenza ingombrante che ormai non ha più nulla di pericoloso, perché la centrale elettrica è in disuso da qualche anno. L'enorme edificio è parte di un progetto di ristrutturazione che riguarda l'intera zona limitrofa sul Tamigi - vecchi gazometri, magazzini abbandonati, abitazioni collassate  -, che verrà trasformata in un quartiere di lusso con tanto di spiaggia che darà direttamente sul fiume.
Accanto alla centrale elettrica cresce la città, un quartiere che, come in altre zone della metropoli, vede affiancarsi case a schiera in puro stile vittoriano di indiscutibile cachet a vecchie abitazioni popolari che tradiscono la sostanziale povertà dei suoi inquilini. L'ordine è comunque assicurato ovunque, mentre i negozi e i ristoranti tradiscono la vocazione cosmopolita di tutta la metropoli londinese: ci sono afghani e cinesi, marocchini e pakistani, italiani (un locale chiamato evocativamente “Bunga bunga” pavesa il tricolore) e greci... E poi c'è un magnifico parco (... ettari di bosco  prato) che pare un invito alla deambulazione riflessiva. C'è persino una grande pagoda dai Buddha dorati e pensanti a spingersi all'introspezione e ala successiva estroversione.
A Battersea si respira l'atmosfera londinese, quindi, ma nello stesso tempo si vive di periferia, fuori dalle forsennate scorrere dei turisti che trasformano Londra in una bolgia.

martedì 3 dicembre 2013

Storebælt, il vento padrone del ponte



Un'opera ingegneristica tra le più ardite al mondo, tra le isole danesi.

I danesi sono popolo rotto al freddo, al vento, al mare tempestoso, alla convivenza con le avverse condizioni meteorologiche. E sono pure persone industriose e indomite. Non sorprende, allora, che già nel 1986 abbiano iniziato un’opera ingegneristica straordinaria, conclusa dodici anni più tardi, per unire le due regioni più popolate e importanti del Paese, la Selandia e lo Jutland, passando per la mediazione dell’isola di Fionia, Fyn in danese. I dati sono semplici: 254 metri di altezza dei piloni, cavi lunghi fino a 85 metri, ampiezza del ponte principale di 48,2 metri, due ponti per un totale di 15 chilometri, un tunnel ferroviario di 8 chilometri, un’isoletta minuscola e ingrandita al punto da diventata piattaforma per i due ponti…
Oggi, a bordo di un’utilitaria, con una coppia di amici, vogliamo visitare l’isola di Fiona e per farlo dobbiamo percorrere il ponte sullo Storebælt. È giorno di vento quest’oggi, le raffiche giungono ai 50 chilometri orari, cosicché le piccole auto – troppo leggere – e i grtossi Tir – troppo ampi – debbono procedere con estrema cautela: ai 60 orari di vento scatta di solito la chiusura del ponte, il che avviene una ventina di volte all’anno. Passiamo ed effettivamente gli scossoni provocati dal vento non sono pochi e incutono un certo timore, soprattutto all’autista che stringe il volante come fosse un’ancora di salvezza. Il primo tratto del trasbordo, quello con il ponte a un’unica campata aerea e da brivido, dà un’impressione di leggerezza e precarietà, anche se le dimensioni dei due piloni del ponte paiono rassicurare, così come rassicuravano già una dozzina di chilometri prima di arrivarci, quando dalla linea dell’orizzonte della terra fuoriuscivano come due immense crune d’ago erette chissà con quali scopi. Giunti all’isola semi-artificiale – su cui fa tenerezza l’apparizione del vecchio faro che pare un vecchio cimelio da rottamare –, inizia il secondo ponte, che invece corre orizzontale su una serie di piloni in fondo modesti, ma comunque profondi. Ma è su questo tratto dell’opera ingegneristica più importante mai compiuta in Danimarca che il vento soffia impetuoso e sembra accanirsi con straordinaria tenacia sulla nostra piccola e rossa utilitaria. Il vento, senza dubbio, appare il vero padrone del ponte, al punto da sembrare di voler trasformare la piuatta pista di asfalto del ponte in una scalinata coi gradini irregolari: una folata uno scalino!