martedì 26 novembre 2013

Tivoli (Copenaghen), le luci di Natale senza lui



Nello splendore della festa consumista, sparisce la dimensione spirituale. O no?

È novembre, verso il declino. Quest’anno a Copenaghen hanno deciso di accendere le prime luminarie natalizie già il primo di ottobre. Tutto logico, se si considera che ormai il 25 di dicembre non segna più la nascita di Betlemme, ma la maggior festa commerciale del mondo. E allora, perché non dilatare il periodo di sfruttamento merceologico della ricorrenza oltre ogni limite plausibile? Le feste religiose sono accanitamente legate a ferrei calendari liturgici, la memoria non può essere sottoposta all’umano decidere, ma deve rimanere intoccabile nelle sue fondamentali caratteristiche. Così un Natale privato del Bambinello è la migliore occasione per far soldi a palate. Così qui a Copenaghen, dove i più attenti al significato della festa paiono… i musulmani!
C’è un parco, a Copenaghen, appena a ridosso del Comune e della piazza del Rådhus che pare il trionfo della festa natalizia firmata non più dagli evangelisti ma dalle marche più in voga. Si Chiama “Tivoli”. In uan dozzina di ettari offre tutte le luci che la città è capace di scovare nei suoi magazzini. Pagato il biglietto d’ingresso, salatissimo, nel freddo pungente della sera, con la complicità delle tenebre, ci si immerge in un mare di luce artificiale, analogica o digitale che sia, che ricopre con le sue onde a frequenze diverse le baracche dei negozietti, i ristoranti di lusso, le bettole che vendono vin brulé, le montagne russe, quei famigerati marchingegni che ti sbatacchiano su e giù come sacchi di patate e che tanto piacciono ai bambini, le deliziose stelle artigianali di legno e di vetro, pagode e simil-moschee, locali chiamati Hercegovina o Topkapi… ma non trovo nemmeno una croce, una mangiatoia, un qualche segno cristiano, forse solo qualche cometa e alberi di Natale a profusione, ma che di cristiano hanno poco. E così, d’improvviso, la fantasmagorica festa della luce pare piombare nella tenebra del tradimento reiterato, Giuda pare arrivato a Betlemme. Tutto è fantastico, ogni dettaglio fa sognare, ogni scatto fotografico immortala un angolo di paradiso laico terrestre, ma Gesù non esiste più. Anzi no, è una vecchietta rom di origini bulgare che mi mette tra le mani un’immaginetta gualcita della grotta del Salvatore, chiedendomi un soldo. Gliene do una manciata, Natale è ancora Natale! Risorgerà!

martedì 19 novembre 2013

Spišská Kapitula. I due poteri



Slovacchia profonda. Un castello e una cattedrale come metafora del rapporto Stato-Chiesa. Visita dell'agosto 1993

La Slovacchia, paese di recente costituzione dopo la separazione dalla Cechia, avvenuta il primo gennaio del 1993, è in realtà un luogo dove la storia si è fatta, si è costruita con una forza pari alle difficoltà: la guerra con gli ungheresi, il passaggio costante di migranti, l’impero austro-ungarico e quello russo, l’Unione Sovietica… Accompagnando un gruppo di giovani francesi, mi ritrovo a far un po’ di turismo alla ricerca di gioielli gotici, o giù di là. Ne trovo uno in particolare a Levoça, ma anche nei dintorni. La sorpresa più grande, però, me la riserva un luogo magico, che in pochi chilometri sintetizza l’umana lotta per il potere, che in Europa sostanzialmente si è riassunto nel conflitto tra Stato e Chiesa, attrazione fatale e lotta senza quartiere: Spišská Hrad e Spišská Kapitula, cioè il castello e la cattedrale. Quest’ultima, una vera e propria cittadella, comprende la cattedrale di San Martino, un ex monastero e un'unica strada, circondati da mura. Dalla porta inferiore si ha una magnifica veduta del Hrad, il castello di Spiš, che sorge sulla collina di fronte. Dal XII secolo ha acquisito importanza con una collegiata e un capitolo. Nel 1776 il luogo divenne diocesi e dal 1815 è centro teologico. La cattedrale data al XIII secolo. È un luogo che appare quasi indifeso rispetto alla possanza del sovrastante castello, con el torri campanarie che paiono da lontano giochi di bambola. Dall’alto, perché dal basso, al conrario, danno l’idea di una sfida al potere temporale, basta mettersi dalla giusta prospettiva ed ecco che le croci paiono lance rivolte al cielo e al castello. Il potere… è sempre una questione di prospettiva: da un lato appare possente e invincibile, dall’altro manifesta sempre la sua debolezza.

mercoledì 13 novembre 2013

Lucca, la città perfetta perché imperfetta



Una delle città toscane meglio conservate, percorsa da un afflato di medievale bellezza.

Una conferenza mi porta in quel di Lucca, una delle tante meraviglie d’Italia che non sono ancora riuscito a visitare e conoscere alla bella età di 56 anni. Non c’è nulla di cui scandalizzarsi, qui nella Penisola (e nelle isole!) la quantità di bellezze naturali e artistiche è di una mole tale che tutti siamo giustificati delle nostre mancanze… È una giornata di pioggia, da Firenze un amico in carrozzella vuole farmi conoscere la sua città. E comincia ovviamente dal pranzo, in un ristorante del centro, Gli orti. Ambiente un po’ retro, diciamo anni Cinquanta, quelli della ristorazione gentile e premurosa. Pappardelle al coniglio, guancia di vitello e torta alle punte di erbe riuscirebbero a riconciliare il mondo con sé stesso. Ma non c’è tempo da perdere, il mio amico si sistema sulla sua carrozzella e via, la città ci appartiene, persino il sole fa capolino. È dall’attigua basilica di san Giovanni che s’inizia: eleganza, apertura, luce. E un battistero dalla cupola straordinaria.
Due passi sulle vie lastricate della città ed ecco il Duomo di San Martino, un vero capolavoro iniziato a costruire nel 1060, su una preesistente chiesa. E nel cuore del luogo di culto sta un sarcofago di straordinaria bellezza, quello di Ilaria del Carretto, scolpito da Jacopo della Quesrcia tra il 1406 e il 1408. Raffigura la nobildonna lucchese come una ragazza in posa dormiente, riccamente abbigliata e giacente su un catafalco decorato con putti reggifestone. Ai piedi della ragazza giace un cagnolino, simbolo della fedeltà coniugale. È quest’ultimo che non può non attirare l’attenzione, come conferma la superficie del marmo lisa dalle tante mani che nei secoli ci si sono appoggiate.
Ecco due torri straordinarie: quella dell’Orologio del 1390 e quella della famiglia Giunigi, che sulla terrazza sommitale inalbera (è proprio il caso di scriverlo) tre alberi, uno più affascinante dell’altro, quasi a diventare simbolo di un’intera città che ha saputo preservarsi integra, come gli alberi sulla terrazza: salirne le scale scure ma sicure e sbucare nella verzura è esperienza di forza e di bellezza. Mentre nel vicino Anfiteatro romano, cosiddetto perché di romano non c’è piùà nulla salvo il perimetro della piazza, si respira il Medioevo popolare ed elegante di queste parti.
Tocca tornare, la conferenza non mi aspetta: San Frediano, San Michele, palazzi vari, piazze una dopo l’altra… Ma il sigillo finale alla visita non può essere che un giro sulle mura integre della città, un esempio unico o quasi, chilometri di cinta assolutamente intatti. La città, appena al di sotto del livello delle mura, appare nel suo vero essere: una serie di gioielli racchiusi e direi protetti in uno scrigno forte e gentile, come deve essere nel rispetto della dama fatata di una città come Lucca.

martedì 5 novembre 2013

Garbatella, il quartiere più pazzo della capitale



Una passeggiata in una zona romana che nutre una vivibilità insospettabile.

Era uno dei borghi più popolari della capitale, e anche dei più malfamati, attorno alla seconda guerra mondiale. Un quartiere con una sua storia particolare, che ne ha determinato la conformazione, la pianta urbanistica e le architetture: Dopo la prima guerra mondiale, Roma visse un impetuoso sviluppo edilizio. Il settore sud della capitale, nelle intenzioni degli urbanisti umbertini, doveva essere connesso al lido di Ostia tramite un canale navigabile parallelo al Tevere, che non fu però mai scavato. Tale canale avrebbe dovuto fornire Roma di un porto commerciale molto vicino al centro della città, al confine tra Garbatella e Testaccio; nella zona a ridosso del canale avrebbero dovuto sorgere una serie di lotti abitativi destinati ad ospitare i futuri lavoratori portuali. Fu con questa idea che Vittorio Emanuele III posò la prima pietra a piazza Benedetto Brin, il 18 febbraio del 1920. La vocazione inizialmente marinara del futuro rione XXIII può essere desunta anche dalla toponomastica della parte più antica, ispirata essenzialmente a personaggi legati al mondo navale. Il progetto fu intrapreso in un'area allora semi disabitata e coperta da vigne e pascoli per pecore.
Ci ho abitato una decina d’anni, ma non l’ho vissuta intensamente, la Garbatella, lavoravo altrove, da mane a sera. Oggi, per un appuntamento mal compreso, mi trovo con un’ora di tempo, in una mattina fresca e serena. A zonzo me ne vado per le vie della Garbatella…. E la riscopro nella sua follia e nelle sue perversioni, ma anche nelle sue bellezze intuitive. Vie storte e vie dritte, contorte o quasi a spirale. Coi giardinetti delle villette e dei condomini quasi sempre poco curati, mentre fan mostra di sé i pini marittimi e le palme sopravvissute al punteruolo rosso, la macchia mediterranea picchettata dalle cartacce che la gente non ha imparato ancora a gettare nei cestini. E le architetture, archi e frontoni, balconi decorati e vasi di fiori spelacchiati curati dalla vecchietta in vestaglia che s’affaccia fumando avidamente una sigaretta e tossendo come un’ossessa, gli intonaci al 90 per cento non ridipinti da decenni e deturpati dai mostri delle paraboliche e dei condizionatori, i cortili tra due, tre, quattro caseggiati di tre o quattro piani decorati con stucchi lisci e arditi, i negozietti cadenti come il Bar della Garbatella dove sto scrivendo queste note con la compagnia di Nerone, un pappagallo grigio e chiacchierone che sta in gabbia, mentre poco alla volta la corte dei miracoli arriva alla spicciolata a bersi un cappuccino commentando la sonora sconfitta della Lazio contro il Milan. Chi reggendosi alle stampelle, chi appoggiandosi ai muri, chi abbandonandosi ancora addormentato sulle sedie rosse di plastica del bar. E poi la chiesa di san Francesco Saverio e il Teatro Palladio e l’eleganza di Piazza Edoardo Masdea… Tutto folle, tutto gradevole, tutto poco razionale. Come Roma.