mercoledì 30 dicembre 2009

Ho Chi Minh City, fenomenologia dei motorini


Un giro per le vie dell'ex Saigon. La scoperta di un mondo che corre, che non conosce il silenzio. Salvo nell'anima.

Saigon, cioè Ho Chi Minh City. Un nome che rievoca fantasmi nemmeno troppo lontani, che richiama fasti coloniali e il crollo verticale delle illusioni della pax americana. Dal 1975 sono passati ormai troppi anni per poter rievocare traumi e nostalgie dello scorso millennio. Resta solo da guardarla al presente, questa metropoli avviata verso i dieci milioni di abitanti, senza preconcetti. E allora si trova una città che ha ancora molto di occidentale, ma che nel contempo non è ancora (o non è più) un avamposto della accidentalità, colonialismo ribattezzato come liberalismo economico. Ma il business c’è, e ben evidente: basta che non si faccia politica, basta che non si vogliano implicazioni religiose agli affari intrapresi, ed ecco che tutto è possibile, e nessuna impresa rimane nel novero dell’impossibile.

Francamente detto, non è che Saigon-Ho Chi Minh City sia una bella città. Tutt’altro. Si fatica non poco a trovarne l’anima, a sviscerarne la vocazione cosmopolita, a coglierne la sua fondamentale tolleranza. Perché la città è runorosa come poche, non sa nemmeno cosa sia il silenzio, oi semplicemente cosa sia una pausa nel rumore che a volte diventa intollerabile. Sì, puoi ammirare i residui coloniali: la posta, la cattedrale neogotica, gli hotel sul lungofiume, qualche bella demeure à la française; certo, puoi apprezzare invece il lato neocomunista, in dubbioso neoclassico, nel palazzo presidenziale e nel museo dei residuati bellici. Ma così facendo non conoscerai Saigon-Ho Chi Minh City. Per farlo devi farti coraggio e passare tre-quattro ore assiso nel posto del passeggero in uno dei tre milioni di motorini che da qualche tempo hanno rimpiazzato le biciclette, e non sono ancora stati sostituiti dalle auto (se lo si facesse, la città dall’oggi al domani si bloccherebbe completamente!).

Insomma, si può capire Saigon-Ho Chi Minh City studiando la fenomenologia del motorino vietnamita e della mente dei suoi centauri. Motorini sui quali si può salire da una a cinque persone: intere famiglie li usano come mezzi di locomozione collettivi. Sui motorini, poi, si può trasportare di tutto: nulla è impossibile: cataste di legno, fascine di bambù, decine d’oche starnazzanti, frigoriferi e lavatrici, comò e divani, cani e gatti, alberi, biciclette, cavi per l’alta tensione, computer, materassi…

Bisogna poi studiare attentamente la guida, operazione che richiede non poco tempo e scrupolosità nel cogliere i dettagli. Perché dapprincipio si viene colti da un totale smarrimento, non riuscendo a ritrovare i nostri standard del codice della strada. Così le auto camminano a sinistra e le moto a destra, ma da sinistra si può entrare tranquillamente senza rispettare il flusso idraulico, direi così, del fiume di motorini anche di una grande via di comunicazione. Il pertugio lo si trova sempre. E si può addirittura attraversare a piedi la più caotica arteria, uscendone vivi e vegeti, per giunta. Pure le biciclette hanno i loro diritti e i loro doveri, e così le auto che non possono passare col rosso, pena trenta giorni di sequestro del mezzo, mentre i motorini possono farlo a certe condizioni, che però non ho capito.

E così via: anche nel caos ci sono delle regole da rispettare. Ancora, nello studio della fenomenologia dei motorini di Saigon-Ho Chi Minh City si dovrebbe analizzare le forme, la cilindrata e gli optional dei mezzi meccanici, il loro incredibile potenziale d’inquinamento, la tipologia e i colori delle mascherine che uomini e donne usano non tanto per proteggersi bene o male dal diossido di carbonio, quanto per evitare di prendere il sole, in quanto l’abbronzatura è detestata dai vietnamiti (e soprattutto dalle vietnamiti), che vogliono sempre avere la pelle chiara.

È quindi solo sui motorini che la città comincia a muoversi, a prendere i colori delle infinite insegne, ad aggrovigliarsi e annodarsi negli incredili cavi elettrici sospesi a mezz’aria, a diventare giovane come giovani sono la stragrande maggioranza dei centauri, a trovare sempre nuovi scorci di meccanica originalità, a penetrare ancora a cavalcioni dei motorini nei mille e mille mercatini di frutta e verdura, a scegliere un orologio di marca in cento e cento banchetti improvvisati sul ciglio delle vie per un dollaro o poco più, a sentirsi la testa scoppiare per le enormi quantità di diossido di carbonio ingurgitate, a desiderare solamente di riguadagnare il porto di salvezza della propria abitazione, a sognare il silenzio. Che a Saigon-Ho Chi Minh City esiste solo nell’immaginazione, o nell’anima.

martedì 29 dicembre 2009

Cu Chi, il villaggio sotterraneo dei vietcong


Visita alla cittadella underground del "triangolo di ferro", alle porte di Ho Chi Minh City. Per capire la forza della resistenza vietnamita e convincersi ancor più dell'inutilità della guerra.

È in qualche modo un pellegrinaggio, quello che mi trovo a vivere in questa piccola località a nord-ovest di Ho Chi Minh City, al vertice superiore del famoso “triangolo di ferro” della resistenza vietminh contro i francesi e poi vietcong contro gli statunitensi e i suoi alleati. Nella zona si era concentrata la più forte opposizione all’invasione, e la vicinanza della capitale incuteva non pochi timori alle armate delle Us Force, che temevano quel polmone di opposizione – il “triangolo di ferro” – come una grave minaccia per il regime al potere a Saigon.

Per questo motivo diedero alle loro forze aeree il comando di bombardare tutto con la massima libertà e intensità: free fire zone. Anzi, quando nei loro giri restavano con del potenziale bellico inutilizzato, i piloti erano invitati a scaricare tutto in quel triangolo imprendibile. Con tutto quello che ne sarebbe potuto conseguire in vittime e danni civili. Tentarono anche l’assalto via terra, più volte, ma subirono solo cocenti sconfitte. Perché i vietcong apparivano all’improvviso, tendevano le loro imboscate e poi svanivano nel nulla, si volatilizzavano. Il fatto è che nella foresta i resistenti avevano creato una vera e propria cittadella sotterranea, ricca di entrate nascoste e di trappole per gli assalitori.

Centinaia e centinaia di soldati statunitensi ci lasciarono le penne in modo spesso tragico o addirittura macabro, quando morivano infilzati cadendo dentro le fosse scavate contro di loro dai vietcong e riempite di enormi chiodi affilatissimi. O, ancora, i marines caddero a decine perché dilaniati dalle mine che i giovanissimi soldati al servizio di Ho Chi Minh piazzavano proprio a ridosso dei soldati alleati quando questi osavano penetrare nella foresta. Poi la guerra finì come tutti sanno…

Oggi visito questi luoghi, avendo nella memoria i primi articoli che avevo letto con interesse nella mia infanzia, avevo sei anni, e che trattavano della infinita guerra vietnamita. Ricordo perfettamente, ancora oggi, delle foto di giornale che ritraevano soldati americani dilaniati, o vietcong fatti prigionieri. Per me la guerra era quella, la guerra del Vietnam, e nessun’altra. La Seconda guerra mondiale rimaneva prigioniera nei racconti di mio padre, la Prima in quelli di mio nonno. Ma quella del Vietnam era veramente la “mia” guerra, quella a causa della quale dovetti per la prima volta in vita mia confrontarmi con l’idea della possibilità di ammazzare i nemici, di nutrire odio per qualcuno al punto da sparargli contro. E mi trovai nella condizione di dover prendere posizione per gli uni o per gli altri. Non fu facile.

L’emozione quindi non è da poco quest’oggi, preparata dai quaranta chilometri di distanza tra il mio hotel a Ho Chi Minh City e Cu Chi: quaranta chilometri in cui si passa dalla caotica circolazione della metropoli (poco meno di dieci milioni di abitanti, ormai, ma tre milioni di motorini!) alla massima tranquillità delle campagne e delle risaie. Consumiamo un pasto deliziosamente ricco di verdure, le ottime verdure della regione, su un imbarcadero ormeggiato sulle rive del fiume Sai Gon che trasporta velocemente isolotti lussureggianti di vegetazione intricatissima. Poi si penetra nella foresta, guidati dai guardiani vestiti un po’ retro, come i vietcong dell’epoca.

Un filmetto dei primi anni Settanta ripercorre le tappe dell’epopea di Cu Chi, con linguaggio certamente legato all’epoca, all’idea di liberazione dal nemico, all’aver assistito al ritiro degli invasori statunitensi. Fosse montato oggi, probabilmente avrebbe altri linguaggi e altre immagini, ma la testimonianza è di quelle che non possono lasciare indifferenti.

Insomma, qui a Cu Chi era stata costruita una città sotterranea, con mille entrate diverse e mille trabocchetti, in modo da poter resistere e attaccare il nemico rendendosi invisibili in pochi istanti. Sotto terra c’era l’ospedale da campo e la fureria, la mensa e l’alloggio, la santabarbara e la sartoria. Di tutto, ordinato e militarmente efficiente. Tra un locale e l’altro, per collegarli erano stati scavati dei cunicoli assai angusti, sia per poter meglio resistere ad eventuali bombardamenti dal cielo, sia perché la taglia media dei vietnamiti era certamente inferiore a quella dei soldati statunitensi, per giunta sempre appesantiti e resi goffi da equipaggiamenti da Rambo.

Ed è percorrendo questi cunicoli, fisicamente parlando, che ci si rende conto di cosa significasse vivere per giorni, settimane o mesi nella città sotterranea: caldo, fatica, umidità, mancanza di luce e d’aria. Prima otto metri, poi trenta, quindi cinquanta: i cunicoli paiono infiniti, la schiena duole, la testa chiede ossigeno. I gradini di terra che conducono all’aria aperta, sotto il cielo segmentato da straordinari ciuffi di bambù, mi viene da dire che bisognava che provassi queste emozioni, per conservare nel cuore un paio di certezze: la guerra è sempre e comunque da evitare, soprattutto quelle d’invasione di territori altrui, perché le conseguenze sono sempre, dico sempre, peggiori di quelle che ci sarebbero state senza conflitto; ma bisogna anche riconoscere che l’ingegnosità dell’uomo nelle condizioni estreme di ristrettezza d’ogni genere è capace di compiere miracoli. E di passare per la “porta stretta”, o il “cunicolo stretto”.

sabato 26 dicembre 2009

Benteay Srei, dove Malraux cedette


Tra i tanti templi di Angkor, uno dei capolavori assoluti dell'arte di tutti i tempi, è un piccolo centro votivo ad una ventina di chilometri dal Wat principale.

Eh sì, uscendo dal sito di Benteay Srei non posso non capire almeno un po’ l’efferato delitto messo in atto dall’allora ministro della Cultura francese, niente meno che André Malraux in persona: da uno di arte e cultura qual era, cedette alle straordinarie bellezze ammirate nel tempio a una ventina di chilometri da Angkor, in Cambogia ovviamente, e fece staccare dal loro alloggio originario quattro pannelli di pietra a bassorilievo e se li portò in Francia, nel 1923. Fu scoperto e, pentitosi, restituì il maltolto, accompagnato dalle sue scuse più sentite. Lo capisco, perché dopo aver trascorso (direi spese bene!) qualche ora a Benteay Srei, la struggente nostalgia del luogo ti invoglia a portartene con te un pezzetto. Non dico un bassorilievo originale, ma almeno una copia di qualcosa.

Non è un caso che il suo nome significhi “la cittadella delle donne”, oppure “della bellezza”, il che più o meno s’equivale soprattutto in queste terre indocinesi. La sua memoria era forte tra la gente, ma fino al 1914 sfuggì alle ricerche di tanti archeologi, probabilmente riuscendo così a non soccombere alle spoliazioni sistematiche di tanti altri templi della regione. E pensare che tale bellezza non era, come tradizione vorrebbe da queste parti, opera di un monarca. A volerla fu un solerte amministratore del re, tale Yajnavaraha, mentre correva il regno di Rajendravarman, nella seconda metà del X secolo volle edificare uno scrigno, un gioiello, una dolce compagnia in cui rinchiudersi a meditare, a pregare, a gioire della vita una volta lasciati da parte gli affari e gli intrighi della corte. Me lo immagino, questo cultore dell’arte, di mezza età, sazio di beni e di onori, di doni della vita, voler intraprendere l’impresa finale: l’edificazione di un minuscolo tempio – si fa per dire, dentro il muro di cinta ci sono circa 25 mila metri quadrati di terreno; nulla, comunque, in confronto con le piazze d’armi dell’Angkor Wat o dell’Angkor Thom –, che restasse nella storia, che vivesse di luce propria, quasi sdegnoso di confondersi con i grandi spazi e i grandi tempi dei suoi fratelli maggiori, che permettesse all’anima degli uomini che hanno una grande passione per l’umanità creatrice di dire: «Ho visto il luogo dove vorrei passare dalla vita alla morte».

Immagino qualcosa come un Socrate khmer aggirarsi in queste brevi gallerie, in questi locali votivi, nelle biblioteche, nelle sale di ristoro e dialogare, parlare con gli allievi della vita e della morte, dei sogni e dei disinanti, delle alterne vicissitudini del potere e della relazione con l’imperituro. Dialogare, dialogare ancora, senza sosta, sotto lo sguardo e la protezione della bellezza. Perché ogni divinità, rappresentata, ogni fregio, ogni torre, ogni dettaglio qui pare invitare alla condivisione delle scoperte fatte nel proprio foro interiore. Perché lo scopo della bellezza è proprio quello di gioire assieme di qualcosa. E la gioia richiama naturalmente la bellezza.

Mi attardo a Benteay Srei. Per calmare l’impulso di possesso (fotografico) che mi spingerebbe a cogliere ogni dettaglio, ogni dettaglio ricostruito dal mio occhio, percorro il cammino che accompagna all’interno il muro di cinta – rosso poroso forte fragile –, per ammirare da lontano lo scrigno di Benteay Srei. Ogni angolatura, anche da una certa distanza, riserva sorpresa e incanto per gli allineamenti, le aperture, le sovrapposizioni. Mi stupisco d’improvviso, cogliendo nella mia memoria un motivo delle infinite decorazioni di bassorilievi appena visti, riprodotta nella visione d’insieme. Il tutto e il nulla, l’infinitamente grande e l’infimamente piccolo. È il colpo finale, l’innamoramento.

Poi ritorno sui miei passi una volta terminato il disegno del perimetro del muro di cinta del tempio. E con nuova serenità, con una pacificazione sconosciuta, ripercorro l’itinerario interno della cittadella. Ritrovo gli stessi fregi, le stesse sculture, gli identici bassorilievi e mi parlano solo dei khmer e della loro anima. La vigilia assieme a un prete parigino – pover’uomo – alla messa della veglia natalizia conversavamo della tragedia dei khmer rossi. Aveva sentenziato, rivolto al sottoscritto che aveva vissuto l’impatto con il memoriale del genocidio come una condivisione dell’abisso della depravazione umana, che «da noi non può succedere, dopo venti secoli di civiltà greco-giudeo-cristiana». Trasudava superiorità da ogni poro, guardava ai cambogiani come a gente da colonizzare, evangelicamente s’intende. E col nazismo, come la mettiamo? Anche l’Europa aveva la sua Cappella Sistina, che non ha evitato il genocidio. I khmer hanno avuto Pol Pot pur avendo Angkor e Benteay Srei. Ne va del mistero della umana transumanza su questa terra.

Veglia natalizia alla parrocchia di Siem Reap


Natale cambogiano, a Siem Reap, alle porte della grande città dei templi di Angkor. La festa della famiglia cristiana sempre più è globalizzata.

C’è una grande confusione nel compound della chiesa cattolica, con luminarie che brillano ovunque, un coro e un’orchestrina che cantano inni natalizi, con un’intonazione assai originale, uomini e donne che si danno un gran daffare per preparare il brindisi di fine messa. La gente che s’avvicina alla grande sala di legno costruita su palafitte non è certo uniforme: ce sono i nativi cambogiani (circa 300 persone vi fanno parte a Siem Reap, 700 nella regione), gli immigrati vietnamiti (non pochi), gli occidentali residenti (qualcuno) e i turisti occasionali (anche qui non pochi). Ci sono pure famiglie occidentali che hanno adottato bambini cambogiani, e che perciò vengono qui per far rivedere la loro terra, e forse anche qualche parente, agli adottati che vivono in Francia, in Italia, in Spagna. Non mancano ovviamente i poveri che fanno l’elemosina e qualche mutilato delle mine, che imparo a vedere un po’ ovunque qui in Cambogia. Una bella fetta del popolo di Dio, composita e aperta. Mi dicono anche che nell’uditorio ci sono non pochi buddhisti…

Natale insolito nella parrocchia di San Giovanni, a Siem Reap, che esiste solo dal 2001 ed è gestita dai padri gesuiti. Attualmente ce n’è uno solo, father Heri, un indonesiano, ma fino a qualche mese fa erano in tre.

La messa scorre tra gracchiamenti dei microfoni (l’amplificatore è ancora a valvole) e improvvise panne d’elettricità, mentre dall’esterno proviene un costante rumore di bimbi che corrono e giocano. Ma anche nell’uditorio i piccoli non sono pochi, anche perché l’omelia in massima parte viene sostituita da una rappresentazione dei misteri sacri natalizi ad opera dei bambini della parrocchia. Commovente nella sua ingenuità, rigorosa nella sua rappresentazione storica, colorata nei suoi costumi, rumorosa nel suo svolgersi. Gesù è nato anche qui, in questo Natale 2009, e la gente sembra proprio rinnovata negli sguardi e nei gesti. Forse un Natale così cosmopolita e ricco di suggerimenti globalizzati non mi era mai capitato di viverlo. Ma ci dovremo abituare a un cristianesimo in massima parte extraeuropeo.

giovedì 24 dicembre 2009

Chong Kneas, la città galleggiante


Continua il viaggio in Indocina. Prima di abbordare Angkor, una visita inattesa ad una città sulle acque. Dove c’è una chiesa cattolica…

Non volevo andarci, avrei desiderato immergermi subito nell’antico mondo khmer, il mondo della pietra khmer, cominciando il pellegrinaggio ai grandi templi di Angkor. Ma gli amici di Siem Reap (che vuol dire “i thailandesi sconfitti”) hanno insistito perché accettassi di visitare la città delle case galleggianti, Chong Kneas, sulle rive del grande lago Tonlé Sap. Non molto convinto, ho accettato, per amicizia. E, come sempre, facendo un favore alla fine ci ho guadagnato, la piccola storia (piccola?) si ripete. Sì, il luogo ormai attira qualche migliaio di viaggiatori all’anno, appena sufficienti per portare qualche dollaro nel paesotto flottante. Vi si giunge in barca, ovviamente, attraverso un canale poco profondo, percorso solo dalle tipiche imbarcazioni della regione, che hanno lo scafo com’è logico piatto, e fornite di strani timoni che servono anche da scandaglio per verificare la profondità delle acque. D’estate, in effetti, quando le acque che arrivano dal Mekong diminuiscono, il paese deve cambiare posto, e allontanarsi verso il lago, per evitare di… rimanere in secca! L’acqua pare fango, tant’è scura, marrone, senza la benché minima trasparenza. Sembra il Tevere di vent’anni fa.

Il porto di partenza conta soprattutto abitazioni su palafitte, tipiche dell’architettura rurale cambogiana, ma a mano a mano che si avanza queste tendono ad essere rimpiazzate dalle case galleggianti. Di cosa vive questa gente? Di pesca, ovviamente, di un po’ d’agricoltura che si riesce a portare avanti sugli isolotti quando non vengono sommersi dalle acque, e di quel po’ di turismo che arriva quaggiù.

Giungiamo alla foce del canale, dove le case galleggianti si allineano con un certo ordine le une alle altre. Usciamo nel lago aperto, per guardare il paesotto dal largo. S’avvicina una barchetta con a bordo una donna e due frugoletti dagli occhi a mandorla. Evidentemente i suoi figli, anche se la donna pare sfiancata dalla vecchiaia precoce. Per un dollaro l’equipaggio della piroga, o qualcosa di simile, vende lattine di birra e di bibite analcoliche. La bimba salta sulla nostra barca – «all’arrembaggio!», sembra gridare con la sua bocca sdentata – e mi offre la sua mercanzia, mentre la madre si profonde in saluti ed elogi. Compro una Coca cola, e la bimba se ne va trionfante, leggera come una piuma, adulta come una donna cambogiana.

La vegetazione è satura di verde, grassa d’acqua, fitta di opulenza clorofilliana. Le case galleggianti godono della cromatica bellezza dello scenario. M’avvicino a una di esse, incuriosito per il fatto che sbirciando all’interno vedo solo gente stesa sulle amache a riposare, in una confusione apocalittica. Il fatto è che nelle barche c’è un solo locale. La cucina? Un fornelletto in mezzo alla barca. La camera da letto? Le amache, certamente. Il bagno? Lo specchio d’acqua, è ovvio. Mi salgono alla mente termini quali promiscuità, miseria, disorganizzazione, irresponsabilità. Ma allontano queste tentazioni da intellettuale occidentale. Me ne vergogno un po’, allorché l’uomo dell’amaca – anch’egli dall’età indefinibile: 30? 40? 50? – mi spiega che sta riposando perché s’è alzato alle quattro del mattino per andare a pescare al lago, e che quindi quella sosta se l’era meritata. A quanto riusciamo a capire deve avere quattro figli da tirare avanti da solo, perché la moglie è morta, «se n’è andata in fondo al lago – ci dice –. Ma un’altra donna mi è stata promessa dal sindaco», o qualcosa del genere. La vita è dura a Chong Kneas, ci confessa, anche se il turismo porta qualche soldo alla comunità: «Ma i ricchi sono sempre più ricchi, anche qui, e noi poveri dobbiamo sempre dar fondo a tutte le nostre energie».

Improvviso trambusto, mentre l’uomo si sta dando da fare – ci ho messo un po’ di tempo a capirlo, stupido che non sono – per cuocermi qualche pescetto che, ovviamente, è stato pescato, ha vissuto ed è morto in quest’acqua marrone e densa di terra e fango. Mi toccherà mangiarli? Arrivano dunque i quattro marmocchi, anzi no sono sette o otto chi lo sa, guidando una sottile imbarcazione, quasi una canoa, che fa acqua da tutte le parti, se metà dell’equipaggio è impegnata, come fosse un gioco divertente, a svuotare lo scafo a ritmo serrato con secchielli multicolori. La scuola – anch’essa galleggiante, l’avevo vista, tutta fiera, parata a festa d’azzurro e di bianco – per oggi è finita, tutti a casa! Ed è così in un’indescrivibile baraonda che mangiamo pescetti arrosto che non sono male, in fondo, forse perché conditi con una salsa oleosa che fa saltar le budella e mangiati con un’erba aromatica che sa di prezzemolo, di salvia e di noce moscata tutt’assieme.

Non è che la conversazione sia particolarmente ricca, ma il pover’uomo ce la mette tutta per tirar fuori dalla sua cultura dei peraltro interessanti dettagli sulla presenza dei coccodrilli (che sono sempre più rari, ma sono diventati più cattivi), dei pesci-gatto (che crescono in poche settimane come dei gatti, appunto), degli artigiani che riparano le barche (non si trova più il legno stagionato dai tempi della guerra), della fatica di cambiare posto tre o quattro volte all’anno (per via delle piene e delle magre), delle gru e delle cicogne (che nidificano persino sulle barche), della grande solidarietà che c’è tra i pescatori («quando mia moglie è morta si sono presi i bambini per qualche mese»)…

La più originale affermazione di Phomg – questa mi sembra la trascrizione del suo nome, ma non ci giurerei – è però di carattere religioso. Avendo infatti scorto nel suo classico altarino buddhista, che occupa un angolo della casa-barca, una raffigurazione più classica che ci sia del Sacro cuore di Gesù, gliene chiedo il motivo. «Me l’hanno dato i padri cattolici che vengono di fronte». E mi indica una casa galleggiante più decorosa delle altre, azzurra e bianca come la scuola elementare, sormontata da un grande crocifisso giallo.

Eh sì, i gesuiti sono arrivati anche quaggiù. Un impegno certamente gravoso. Non abitano qui, questo no, perché vengo a sapere che la loro casa è a Battambang, ad una sessantina di chilometri da qui, ma ogni domenica vengono a celebrare la messa. Anche qui, in questo sperduto estuario d’Indocina. Maestri d’inculturazione, certamente lo sono, ancora oggi: nella cappella una statua della Madonna da lontano pare un Buddha nella posizione del loto, e gli incensi e i fiori sono gli stessi che si trovano nei templi buddhisti. Ma c’è ordine, quello che invece manca quasi sempre nelle grandi sale del culto del Boddhisatwa. Sincretismo? LA questione è e sarà sempre aperta. E le risposte saranno sempre uguali: sì, no, forse, dipende. Ma una frase dettami da Phomg congedandosi da noi non mi lascia più tranquillo: «Noi abbiamo i riti della nostra tradizione, ma Gesù mi è vicino, è nella mia barca». Da commuoversi, Teilhard sobbalzerebbe nella tomba, così come Matteo Ricci, Mircea Eliade,. Raimon Panikkar, Giovanni Paolo II, Chiara Lubich…

mercoledì 23 dicembre 2009

Pol Pot e i tre milioni di crani


Sono in Cambogia per qualche giorno. Oggi sono stato a visitare i due mausolei al genocidio khmer di Phnom Penh. Un’esperienza indimenticabile, violenta. E non può essere altrimenti. (Mi si perdoni qualche termine “forte”).

Anche questa volta ho toccato l’abominio, l’ho solo sfiorato e sono stato preso nella rete. La rete dello sdegno. Come se i tre milioni di cambogiani fossero di un altro mondo, come se io non fossi capace di commettere atti tanto efferati, addirittura impensabili. E invece no, anch’io sono in potenza un altro Pol Pot. Anch’io, avessi un altro itinerario di vita, potrei trasformarmi in un carnefice. Anch’io, pur guardando negli occhi la mia vittima, potrei sparargli a bruciapelo proprio in mezzo a quei due occhi. Scaccio così la rete dello sdegno – che demonizza l’altro, che allontana il prossimo, che distoglie dalla verità – per ammettere la mia umanità. E mi accingo così a visitare due haut lieu del regime dei khmer rossi: la prigione di Toul Sleng, a Phnom Penh, e Choeung Ek, il cmpo d concentramento ad una dozzina di chilometri dal centro della capitale. Due mausolei del genocidio. Duro, duro.

Toul Sleng: sotto l’insegna dell’entrata sette-otto mutilati del genocidio chiedono l’elemosina. Li ho mutilati io. Mi faccio sfilare dinanzi cento e cento foto di vittime, le mie vittime, e di carnefici, i miei compagni di disperazione e di perversioni. Li guardo tutti negli occhi di carta, hanno sguardi spenti, senza più odio, gli occhi dei condannati a morte, gli uni e gli altri, che per caso si sono trovati gli uni dalla parte di Lon Nol e gli altri dall’altra, quella di Pol Pot, in fondo senza saperne nemmeno il perché. Perché così ha voluto il fato, gli dèi, l’energia cosmica che tutti ci avvolge.
E i muri sventrati, folli aperture senza logica e senza misericordia, gli strumenti di tortura, sofisticati, made in China in Laos in Vietnam.. E quelle foto dure, senza speranza e senza passato, sguari sospesi nel nulla di un presente che sfregia la sola convivenza umana possibile, quella che viene dalla coscienza che la morte ci accomuna. Ma perché mai accelerarla, se è destinata prima o poi ad arrivare beffarda?
Mi raccontano le storie di chi è sopravvissuto in questa prigione, sette persone in tutto. Io, carnefice, avrei ora il diritto (e il coraggio) di guardarli negli occhi? Non lo so proprio. Acquisto un libretto che riporta la storia di Vann Nath: One year in the Khmer Rouge’s S-21. Non riesco a commentare, resta solo da tacere e rispettare. Salgo i gradini del palazzo in cui erano rinchiuse le donne e i bambini. Mi sento odioso, sporco, soperto di vergogna e colpevolezza. Celle di due metri quadri, di mattoni di legno di cartone. Condannate a morte, le belle e fragili donne cambogiane, nella ricerca d’un’impossibile assoluzione, d’una immaginaria redenzione collettiva del loro popolo. O fors’anche semplicemente eprsonale, ma redenzione. Dove trovarla? Nel Buddha, nel re in esilio, negli americani? Nulla, solo i muri di laterizi sbeccati e informi.

Ossa crani tibie. A mucchi, anche qui. La “degna sepoltura” non era considerata nel novero delle possibilità. L’anonimato delle ossa del cranio private degli occhi, anzi degli interi bulbi oculari. L’immagine mi ossessiona, rivedo la mano degli aguzzini-bestie cavarli dalle orbite di quegli uomini e di quelle donne colla sola colpa di essersi trovati dalla parte sbagliata al momento sbagliato. Le mie mani, LE MIE MANI! Macchiate di sangue e di liquido oculare, materia vischiosa che rimane incollata alle dita, indelebilmente…

M’allontano, turbato, lo confesso. L’operazione intrapresa la ritenevo catartica, ma in realtà mi pare solamente diabolica, infernale. Debbo bere il calice fino all’ultima goccia. Fermo così un tuc tuc, i tricicli a motore che sfrecciano nella città inquinandola da mane a sera, e mi faccio portare al campo di concentramento di Choeung Ek, lì dove i cittadini non ammazzati alla prigione di Toul Sleng venivano condotti per farla finita in modo “economico”. Le pallottole erano infatti diventata merce rara, un bene prezioso (che eufemismi!), non valeva la pena di sprecarle per achever un uomo o una donna (il verbo francese ha una valenza semantica straordinaria: achever, cioè chiudere, conchiudere, esaurire, brutalizzare… tutto insieme!). Le donne le bastonavano sulla testa fino a tramortirle, e poi le seppellivano vive. I bambini… la mostruosità… I bambini venivano afferrati per le gambe facendo sbattere il loro capo su un tronco, questo tronco, proprio questo qui che sto toccando, la corteccia ormai è ricresciuta. Ciuffi di abiti emergono dal suolo, ancor oggi. Gli uomini? Venivano ammazzati come capitava, risparmiando pallottole, please. 43 fosse su 129 censite non sono state ancora aperte. Perché non terminare il lavoro? A che scopo? Con quali progressi?

M’avvicino al memoriale del genocidio, una slanciata pagoda bianca gialla verde. E, all’interno, una “colonna oscena”, non infame, di teschi. Venti metri in altezza. Per avvicinarsi alle vetrine che limitano la colonna tocca passare per strettissimi pertugi attorno alla colonna, quasi costretti a sfregare il proprio corpo di carne contro l’immondo precipitato di teschi umani. Mi sottopongo al rito, con gli occhi fissi su quei teschi.

Ognuno di quei teschi è il mio. Ognuno di quei teschi è quello dell’uomo del Calvario. La catarsi è compiuta, perché sono ormai solidale con le vittime della violenza dei khmer rossi, ma anche coi carnefici seguaci di Pol Pot.

domenica 20 dicembre 2009



Chiara Luce e il suo universale sorriso

Benedetto XVI ha firmato, e ben presto la giovane Badano sarà beata. Nove anni fa scrissi una sua biografia, "Io ho tutto" che presto uscirà in una nuova versione aggiornata per i tipi di Città Nuova. Ne pubblico l'estratto degli ultimi istanti della sua vita.

Chiara Luce si aggrava, sopraggiungono crisi respiratorie e segni di soffocamento. Confida alla mamma una mattina: «Ieri sera ero felice perché ho potuto offrire ancora qualcosa». E in un altro momento: «Pensi che sia un falso allarme? Partirò?». Le risponde Maria Teresa: «Per partire ci vuole il tempo di Dio. Ma stai tranquilla: hai la valigia pronta, piena di atti d’amore». E Chiara Luce: «Pensi che mi verrà incontro la nonna?». La mamma: «Prima ci sarà Maria, che t’accoglierà a braccia aperte». E la giovane Badano: «Zitta, non dirmi niente che mi togli la sorpresa».

Due notti prima di morire chiede alla madre di leggerle una delle meditazioni di Chiara Lubich, le uniche pagine oltre al vangelo che ancora la soddisfino, placando la sua sete d’infinito. Maria Teresa comincia, ma Chiara Luce l’interrompe: «Con più entusiasmo, per favore». E poi pronuncia una frase, semplice e forte, memore della “visita” ricevuta qualche settimana prima: «Quando arriva il diavolo lo mando via, perché sono più forte, perché io ho Gesù».

La vigilia vuol salutare gli amici che in quel momento sono in casa. Non ha un filo di forze residue, ma riesce comunque a riservare un sorriso a ognuno, o un semplice cenno con la mano. Giuliano è tra questi: «Bisogna avere il coraggio di mettere da parte ambizioni e progetti che distruggono il vero significato della vita, che è credere nell’amore di Dio e basta», riesce a dirgli. Arriva un mazzo di roselline dalle gen: «Che belle, proprio adatte per un matrimonio», commenta.

Sin dalla mattina le viene da ripetere una frase ripresa da Chiara Lubich: «Vieni Signore Gesù», perché desidera ricevere l’Eucaristia. E inatteso arriva un sacerdote, che le dà la comunione. È felicissima.

La notte si annuncia, se possibile, ancora più difficile del solito. I medici si danno da fare nella sua stanzetta, ma Chiara Luce chiede di restare sola con i suoi. Accanto a lei il padre e la madre. Fuori dalla porta, gen e amici. C’è pace, quasi naturalezza. Le sue ultime parole sono per la mamma: «Ciao. Sii felice, perché io lo sono». A papà, che le chiede se quella frase valga anche per lui, stringe semplicemente la mano. È domenica 7 ottobre 1990, sono le quattro del mattino. È arrivata, Chiara Luce.

Scrive Chiara Lubich in un telegramma a Ruggero e Maria Teresa: «Ringraziamo Dio per questo suo luminoso capolavoro».

Poi l’ultimo dono: le sue cornee vengono espiantate. Ora due giovani vedono grazie a lei.

sabato 19 dicembre 2009

Arbeit Macht Frei

Asportata da ignoti la scritta più celebre di tutta un'epoca, quella del terrore nazista. L'ignominia d'un gesto, la povertà intellettuale di chi l'ha commesso. Visita al campo di sterminio, 1991-2001.

È la seconda volta che scendo nel teatro dell’abominio, ad Auschwitz-Oswiecim, nel simbolo dell’incomprensibile brutalità umana. Allora c’era un sole torrido, e il forno crematorio era più plausibile. Oggi fa un gran freddo, le nuvole spargono umidità che penetra nelle ossa, gelando le membra. La gente moriva in queste casematte più di gelo e stenti che di camere a gas. I sentimenti dell’orrore sono desti, s’intuisce il baratro della Shoah. Gruppi di ebrei si avvicinano ai tetri block con lo sguardo attraversato da un’atroce inquietudine.

All’entrata, il Carmelo della discordia. Gli ebrei sostengono che ad Auschwitz Dio abbia taciuto; i cristiani invece affermano la nuova morte di Gesù nel campo di Oswiecim. E la disputa lascia di stucco, altri muri senza amore.

Percorro i viali e i block numerati, scorro le mille e mille foto segnaletiche dei martiri d’Auschwitz. I mucchi di occhiali di capelli di valigie di scarpe di stampelle di pitali sembrano scivolare come una valanga inarrestabile sulla nostra coscienza di europei. Troppo spesso sporca. Qua e là, si trova ancora qualche traccia della obsoleta propaganda sovietica. Ma appare così retorica e antiquata, oltre che falsa, da sembrare vecchia di millenni. Eppure solo dieci anni fa era ancora in voga.

Una donna ebrea giace stremata su un muretto di mattoni rossi, come tutto il resto: sul petto fiera pavesa una stella di Davide cesellata nell’oro. Lo sguardo altero dice un popolo ferito ma saldo, Dio è con noi.

Passando in rassegna gli orrori perpetrati da uomini su altri uomini, lo sguardo rischia il disgusto e l’ubriacatura. Davanti a un forno crematorio, firma della condanna a morte d’innumerevoli innocenti, mi ricordo di una frase di vertigine: se Gesù sulla croce ha gridato l’abbandono del Padre, qui Gesù ha ripetuto quel momento di strazio.

Nel baratro nero, scendo le anguste scale che conducono alla fioca luce dell’angusta cella nel braccio della morte che fu di Maximilian Kolbe. È la luce dell’amore, che da la vita per l’altro. Forse bisognerebbe eleggere anche lui a protettore dell’Europa.

Oswiecim è un villaggio banale di una regione nera, mineraria: qualche migliaio di persone, per quattro milioni di morti, vittime della chimica perversa, diabolicamente nazista o semplicemente folle. Piccolo villaggio diventato universale.

venerdì 18 dicembre 2009

Mons. Warduni e i cristiani d'Iraq continuamente minacciati


Non cessano gli attacchi alle chiese cristiane in Iraq, in particolare a Mosul, nel Nord del Paese. Riporto un'intervista fatta con mons. Salomone Warduni, ausiliare caldeo di Baghdad, del 2008, valida ancor oggi, al cento per cento.

Lo incontro nel Collegio urbaniano, dove aveva studiato da seminarista. Sulla terrazza aerea che dà su piazza San Pietro - una delle più belle al mondo -, l'arcivescovo di Baghdad quasi si commuove. L'avevo conosciuto nella sua città, nel 2003, subito dopo la fine dell'invasione statunitense. Oggi lo trovo segnato da dolore e fatica, meno ottimista. Ma, immancabilmente, conclude le sue risposte facendo riferimento alla speranza. Nel linguaggio semplice del pastore, senza astio alcuno, racconta il dramma d'un popolo e la tragedia dei cristiani. In un momento in cui purtroppo si parla poco d'Iraq, per la situazione militare di stallo o per rimozione psicologica; allorché si ignora il tentativo di privatizzazione del petrolio che paradossalmente continua a scarseggiare; mentre i kamikaze, anche minorati mentali, continuano a farsi esplodere e i politici locali non riescono a gestire le influenze dei potenti vicini e lontani... Città nuova vuole invece mettere il dito nella piaga, perché non si può abbandonare proprio ora un popolo sofferente come quello che vive sulle rive del Tigri e dell'Eufrate.

Mons. Warduni, come descrivere oggi la situazione dell'Iraq?
«Non è certo buona, va di peggio in peggio. Da cinque anni non abbiamo fatto progressi verso la pace e la sicurezza. Anche dal lato delle infrastrutture le cose vanno male: l'elettricità manca anche dieci-venti ore al giorno, il gasolio non si trova, nonostante l'Iraq galleggi sul petrolio. E il costo della vita aumenta ogni giorno. Ma la questione più grave è quella dei rapimenti, delle autobombe, dei kamikaze. Il rapimento umilia le persone: tante volte si esigono enormi somme di riscatto, senza la certezza della liberazione. Noi ci aspettavamo progresso, pace, libertà, democrazia: non abbiamo nulla di tutto ciò. L'unica speranza è quella che riponiamo nel Signore, perché è soltanto lui che può illuminare la mente dei dirigenti per cercare le vie per uscire dal caos, per dare il coraggio ai cittadini iracheni di rimanere in patria. Perché quando non si è sicuri di tornar vivi a casa si cerca casa altrove».

Com'è vista dalla popolazione la presenza delle truppe statunitensi?
«Certamente non positivamente, la gente cerca con cura di evitare contatti con i soldati occupanti. Bisognerebbe invece migliorare le infrastrutture, dare aiuti pratici, migliorare gli standard di sicurezza. Ma si fa altro».

Il terrorismo viene solo da fuori?
«Veniva dall'estero: da tempo è un problema internazionale. Ma è anche una questione interna. Quando vengono catturati dei gruppi di terroristi, le loro identità sono sempre straniere e irachene, insieme».

Cosa dire delle infinite tensioni tra sunniti e sciiti?
«Esistono, eccome, per interessi di potere. Le relazioni sono indiscutibilmente tese, ma preghiamo soltanto perché il Signore dia la forza a tutti di poter dialogare e mettere fine ai problemi della gente con una discussione veramente aperta, e poter così provvedere al bene comune. I più minacciati sono sempre e comunque i bambini... In questa situazione caotica, i piccoli crescono nella paura, spesso afflitti da malformazioni, da malattie incurabili e di origine sospetta, aggravate dalla forte scarsità di medici, perché tanti di loro sono scappati perché minacciati o maltrattati, uccisi o rapiti. Le scuole funzionano, malgrado tutto, ma il pericolo è costante. Avevamo tanti asili, ora sono pochi».

Fiducia in Dio, quindi, ma non negli uomini?
«Finora abbiamo riposto la fiducia in Dio soltanto, perché non abbiamo visto uno sforzo decisivo per la pace in Iraq. Serve lo spirito cristiano dell'amore scambievole: bisogna volere il bene altrui come il proprio, amare l'altro come sé stesso. Questo manca proprio».

La comunità cristiana continua ad assottigliarsi...
«La comunità cristiana è, né più né meno come tutto il popolo iracheno, a disagio. Si sopravvive quasi per miracolo. Ma, visto l'esiguo numero dei cristiani, la comunità patisce di più le difficoltà, specialmente in occasione dei rapimenti di sacerdoti e vescovi. Quindi il numero dei cristiani continua a diminuire, anche se non sappiamo i numeri precisi dell'esodo. Molti si rifugiano al nord, ma la maggioranza cerca rifugio in altri Paesi. Fino ad alcuni mesi fa l'emigrazione era anche forzata dalle minacce di chi voleva cacciarci: Dovete lasciare la casa, dovete diventare musulmani, dovete pagare un riscatto, dovete darci le vostre figlie.... Una tragedia. Ora questa pressione è diminuita, ma l'esodo continua. Se la situazione non si risolve, c'è il reale pericolo che l'Iraq si svuoti dei cristiani«.

Alle celebrazioni liturgiche c'è partecipazione?
«Sì, la gente viene a messa, soprattutto nelle feste. Certo, dobbiamo prendere delle precauzioni: niente più cerimonie notturne, niente più manifestazioni religiose all'esterno delle chiese. Tutto continua normalmente, tutte le funzioni religiose... Certo, un po' siamo una Chiesa nelle catacombe, ma non cediamo alla paura».

Anche da voi, come in altri Paesi musulmani, esiste il problema delle sette di origine protestante?
«È un problema grave quello delle formazioni religiose che si dicono protestanti, quelle sette che cercano di attirare gente con aiuti materiali, anche con coadiutori iracheni. Ciò irrita non poco i musulmani, soprattutto perché vengono dagli Usa».
Cosa ha provato quando ha saputo dell'uccisione di mons. Rahho?
Ho provato un grande dolore, una grandissima tristezza. Lo conoscevo benissimo, era un fratello. Nel 1954 eravamo entrati insieme in seminario, e per sei anni avevamo studiato assieme, fin quando sono venuto a studiare a Roma. Nel 2001 siamo stati fatti vescovi insieme. Sono stato incaricato di seguire le trattative per la sua liberazione. Una vera pena. Aveva problemi cardiaci gravi, e non gli sono state somministrate le medicine giuste, per cui è deceduto di morte naturale, anche se certamente la morte è stata indotta dalla mancanza di cure. So per certo che non voleva che si pagasse per la sua liberazione. Anch'io lo dico continuamente: nel caso in cui mi rapissero non bisogna pagare. Ma se poi non si tratta, tutti protestano. Purtroppo questa volta le cose sono finite male, malissimo, e abbiamo rischiato di non avere indietro neppure il suo cadavere. Ma ora, d'altra parte, c'è la consolazione di avere lassù un'altra anima pura, un protettore dal Cielo che prega per noi, perché veramente era un uomo che aveva dato tutto al Signore. Amava dire: Coi musulmani siamo fratelli. Lo ripeto anch'io».

Come si svolge la sua giornata?
«Ricevo continuamente gente che ha bisogno di aiuto - per operazioni chirurgiche, per pagare l'affitto, per studiare - e celebro la messa pubblica ogni giorno. Esco spesso, per incontrare gente che ne ha bisogno, senza accompagnamento, perché è molto più pericoloso girare con la scorta che senza. Sei più individuabile, infatti».

Ha mai ricevuto minacce?
«Dirette no, ma tutti noi preti e vescovi siamo minacciati. C'è sempre il pericolo di essere uccisi o rapiti, o di saltare per aria. Anch'io ho avuto delle esperienze terribili: una volta la mia auto è stata colpita da raffiche di mitra e mi sono salvato per miracolo. La macchina è rimasta crivellata di colpi, ma il Signore mi ha salvato. Altre due o tre volte ci sono state esplosioni nei pressi della mia chiesa, ma ringrazio Dio di essermela cavata. Comunque ho grande fiducia e speranza nel Signore e cerco di servire la mia nazione, il mio popolo».

Esistono ancora contatti tra cristiani e musulmani in Iraq?
«Certamente, non si sono mai interrotti. Alcuni di loro vengono ancora da noi, ogni giorno, solamente per rassicurarci della necessità di andare avanti nella riconciliazione nazionale. Capiscono e capiamo che solo in questo modo possiamo andare avanti».

Cosa possono fare i cristiani del mondo intero per quelli iracheni?
Prima di tutto sensibilizzare chi ha potere perché la pace venga veramente promossa nell'Iraq, perché con retta coscienza lavorino per la riconciliazione. E che tutto ciò venga fatto presto, molto presto. Naturalmente, poi, debbono sensibilizzare al dialogo tra le nazioni e tra i popoli, tra le etnie anche. Naturalmente possono pregare. E se qualche aiuto pratico può essere inviato, che sia fatto attraverso i canali giusti. Bisogna poi smettere di pensare che i cristiani siano favorevoli agli occupanti: è sbagliato pensare così».

Benedetto XVI e l'Iraq...
«Ogni suo intervento è benvenuto e ci incoraggia come nessun altro. Gli siamo molto riconoscenti quando chiede pace, sicurezza e rispetto dei diritti umani per l'Iraq».

Speranza?
«Non muore mai. Viviamo con la speranza e della speranza. Non è facile immaginare soluzioni a breve termine, ma Dio può tutto, e quindi continuiamo a sperare. Cerco di vivere in me stesso la fraternità; la sento che emerge e cerco di trasmetterla fuori di me, perché si riesca a non essere più fanatici, senza fare distinzioni tra cristiani e musulmani. Bisogna amare tutti, dare a tutti, aiutare tutti. Tanti musulmani vengono a chiedere la grazia della riconciliazione nelle nostre chiese. A Maria».

giovedì 17 dicembre 2009

Isfahan, i tessuti neri e le maioliche azzurre (1)


Mentre l'Iran continua nei suoi esperimenti missilistici e nelle sue "fertilizzazioni" dell'uranio, la città di Isfahan viene ripetutamente citata per i suoi siti nucleari. Visita in una delle città più belle del mondo, nel 2000, prima parte.

Non dimenticherò facilmente il fresco azzurro, il giallo abbagliante, il penetrante bianco delle maioliche che rivestono le moschee di Isfahān. Non dimenticherò i ponti slanciati e leggeri che scavalcano lo Zāyandé, il largo fiume che attraversa la città, solcato da piccole imbarcazioni dal fondo piatto. Non dimenticherò l’aridità austera e desolante del panorama che circonda l’abitato, così diversa dalla giovialità dei suoi abitanti, distesi e sorridenti come pochi altri in Iran, anche se sono noti nel paese per la loro spilorceria.

Un vecchio adagio persiano dice: «Isfahān è la metà del mondo». Ed è vero, perchè la città è così ricca di monumenti e curiosità che viene voglia di correre da una parte all’altra dell’abitato per riuscire a tenere dentro di sé tanta bellezza. Fu lo scià Abbās I, alla fine del XVI secolo, a ridare smalto a una città che aveva perso la totalità della sua importanza a causa dell’invasione dei mongoli. La sua dinastia, quella safavide, regnò più di due secoli, e dotò la città di splendidi luoghi di culto e di vita comune. Una città che è un salotto, ci hanno lasciato; una città dove si è a casa, dove le famiglie non hanno che da uscire per strada per ritrovare la propria identità.

Cosa sia la famiglia iraniana, che ruolo abbia nella società, lo intuisco in effetti nella stupenda e immensa piazza rettangolare (seicento metri su duecento) dedicata all’imam Khomeini, come si conviene nella repubblica islamica: un’enorme spazio – una volta era il campo da polo dello scià Abbās I, si vedono ancora i pali delle porte – su cui si affacciano due tra i più straordinari monumenti dell’arte islamica, Masjed-é-Shah e Masjed-é-Sheikh Lotfollah: luoghi di preghiera e di meditazione, che fanno pensare come il sostrato delle grandi religioni abbia qualcosa di unico e di universale, perché il raccoglimento che mi avvolge visitato le due moschee è qualcosa di ineffabile.

I visitatori si dilettano a visitare le moschee, a fotografare le eleganti e un po’ inquietanti silhouette nere delle donne in chador, a fare spesa nelle botteghe di artigianato dell’immenso bazar che ha la sua gola profonda, nella quale vieni inghiottito se ti avvicini troppo, su un lato piccolo della piazza. Poi, scesa la sera, sciamano nei ristoranti a mangiare pollo e riso allo zafferano. La piazza Khoimeini si trasforma; a frotte giungono i giovani e le famiglie indigene. Si siedono nell’immenso prato, tirano fuori le cibarie e giocano, scherzano, conversano, creando uno straordinario clima, intimo e conviviale. Le donne si occupano dei bambini, ma l’uomo non è assente. Quadretto idillico? No, sembra normalità.

mercoledì 16 dicembre 2009

Inquinatissima Karachi


Mentre a Copenaghen si fatica a trovare un accordo per la salvaguardia del pianeta, ripenso alle grandi metropoli mondiali, in cui si vive costantemente sotto una cappa di inquinamento pericolosa e nauseante. Karachi è una di queste città. Reportage, 2005.

In Occidente viene sconsigliato di passare da Karachi, per via dei fondamentalisti musulmani, che ogni tanto piazzano qualche bomba davanti alle chiese cristiane, ma anche nelle loro faide intestine tra sunniti (75 per cento) e sciiti (25 per cento), e che hanno tra l’altro rapito e fatto fuori il giornalista Daniel Pearl, ebreo e curioso, forse troppo, reso celebre per l’inchiesta romanzata, o per il romanzo d’inchiesta, di BHL sulla sua scomparsa.

Eppure, debbo essere sincero, l’impatto con la città è molto meno traumatico di quanto m’aspettassi, sia perché già abituato ai convulsi sommovimenti metropolitani delle città del subcontinente indiano (Mumbai è molto più violenta nel presentarsi allo straniero, coi suoi 7 milioni di baraccati o senzatetto), sia perché l’estetica musulmana qui è molto limitata rispetto alle città arabe (qui le moschee non si vedono, avendo tutte affittato il fronte sulla strada a negozi d’ogni genere).

Il traffico è ovviamente estremamente convulso, attraversato da quegli imperatori della strada che sono gli autisti dei coloratissimi pullman di linea, decorati in maniera assolutamente incredibile, tutti simili eppure tutti diversissimi, con le più originali decorazioni lacustri, marittime o montanare, in ogni caso naturalistiche.

Gli uomini colpiscono per le loro barbe e i loro capelli molto spesso colorati di rosso, mentre le donne appaiono in stragrande maggioranza velate, ma in modo molto diverso, molto spesso quasi per negligenza, anche se non mancano qua e là inquietanti burqua neri. Le bancarelle, quasi sempre dei carretti trasportanti a trazione umana, vendono ogni sorta di mercanzia, conquistando ora dopo ora qualche suolo stradale supplementare, riducendo nel contempo lo spazio a disposizione della circolazione, automobilistica, animale o umana che sia.

Colpiscono l’occhio del fotografo l’assenza di stranieri e turisti; le abitazioni esternamente poco curate, se non addirittura cadenti, attraversate e segmentate da cavi elettrici a volte incredibilmente aggrovigliati; il velo vischioso e olezzante dell’inquinamento da diossido di carbonio, alimentato in particolare dagli autobus policromi e dai risciò altrettanto policromi e ancora più arditi nella guida; l’incredibile inquinamento acustico, provocato dal linguaggio della guida e dal vocabolario dei singoli piloti; i cartelloni stradali spropositati nelle dimensioni, anche se più casti nella loro sguaiatezza; la presenza di nugoli di biciclette e motorette, allineate in parcheggi spontanei ai due bordi della carreggiata; il reciproco scavalcarsi delle architetture d’origini britannica e locale, spesso con risultati mostruosi, altre più gradevoli…

giovedì 10 dicembre 2009

La città del Nobel a Obama


Il Premio Nobel per la pace viene oggi consegnato al presidente Usa. Un riconoscimento che viene dato ad un leader che esprime un forte sostegno ad ogni dialogo interculturale e interreligioso, ma che ha appena deciso di accrescere l'impegno bellico in Afghanistan... Visita allla "città della pace", ad Oslo (2006).

Oslo non è una grande metropoli e non è una città d’arte. Non è la sede di grandi industrie e non conta una squadra di calcio vincente. Eppure, appena entrato nella capitale norvegese, mi accorgo che la città ha un fascino particolare. Capirne le ragioni mi richiede però un certo tempo, quello necessario per mettermi all’ascolto del suo respiro. Sì, Oslo respira; non solo per il vento che l’accarezza senza sosta, o quasi, portando con sé il freddo del Mare del Nord, ma pure il tepore della Corrente del Golfo che rende i suoi inverni meno rigidi di quanto si possa immaginare. E non respira solo per le foreste di pini e abeti slanciati e fitti che la circondano ovunque il mare non riesce ad arrivare. Nemmeno per l’immenso tasso di sportività che fa di Oslo la città al mondo con più praticanti di attività ginniche, o in ogni caso ludiche. Oslo non respira nemmeno per il suo porto commerciale e turistico che la apre al mondo senza possibilità di ritornare ai secoli della chiusura identitaria. Oslo respira perché i suoi polmoni sono di acqua e di legno, così come lo è la sua cultura.

L’acqua dei vichinghi, l’acqua solcata dalle sue imbarcazioni slanciate e robuste, flessibili e flessuose, e per giunta di irraggiungibile eleganza. Tanti hanno voluto dimostrare l’intraprendenza e il coraggio degli antenati vichinghi, certo dimenticando i lati meno nobili e più violenti, forse addirittura brutali, di una popolazione che ha scorrazzato per mari (soprattutto) e per monti (quando necessario), lasciando una scia di incendi ovunque e immancabili distruzioni alle sue spalle. I vichinghi avevano quella qualità poi ereditata dai norvegesi tutti che si chiama costanza. Temprati dal rigore degli inverni e dall’asprezza delle loro montagne, che li spinsero a trovare sbocchi nelle acque del mare e dei fiordi, i vichinghi seppero intuire che i confini del mondo non si accampavano sul profilo delle montagne che sovrastavano le loro case o sull’orizzonte del mare turbolento che pareva scoraggiare ogni iniziativa. I confini del mondo si trovavano là dove il popolo voleva piazzarli. E così occuparono, o piuttosto “visitarono”, luoghi lontanissimi eppure sempre più vicini. Il museo dedicato alle loro navi, il Vikingskipshuset situato nell’arioso quartiere di Bygdoy, ha pochissimi pezzi pregiati, ma conquista per la sua giustezza, per la qualità di quanto esposto, o semplicemente perché fa sognare. E tanto. Ammirando, ad esempio, la straordinaria nave di Gokstad – 24 metri e 16 file di fasciame, costruita nel IX secolo –, viene da dirsi che non vale la pena di rinchiudersi nei propri confini, nazionali, personali o corporativi che siano, perché col viaggio si conquista, ma anche si impara molto. E così stupisce l’ostinazione dei norvegesi a non voler entrare in Europa, anche se sarebbero stati accolti a braccia aperte.

L’acqua e il legno. Poco distante dal museo delle navi vichinghe, ecco sorgere uno dei musei più originali mai visti al mondo – Stoccolma ha qualcosa di simile, lo Skansen –. Qui infatti, al Norskfolkmuseum, sono state trasferite – smontate e rimontate senza alcuna deroga ad una totale salvaguardia dei manufatti – centocinquanta costruzioni di legno, espressione delle diverse culture locali che da sempre hanno contraddistinto e contraddistinguono tuttora il convivere sociale norvegese. Ci sono abitazioni e chiese, scuole e porcilaie, fienili e rifugi, in una visione al contempo sincronica e diacronica della storia, che permette di percorrere migliaia di miglia e decine di secoli in qualche centinaio di metri e in un’ora scarsa di tempo. C’è Setesdaltunet e c’è Hallingdalstunet… Al museo si rspira il profumo dei legni più antichi e stagionati e pregiati, si aprono le porte del proprio cuore e della propria casa alle diverse culture che popolano la Norvegia, o il territorio che oggi si suole chiamare Norvegia, rispettando la diversità e accettando quello che unifica. Anche questo è il respiro di Oslo, un respiro che risale fino all’epoca del pacifico popolo stanziale dei sami, la gente del Nord, che viveva di pastorizia e pesca, la cui lingua ancor oggi viene parlata da ventimila persone, regolate da un vero parlamento con sede a Karasjok, nella Norvegia settentrionale.

Per tutte queste ragioni Oslo è innanzitutto la capitale della cultura della pace. Lo si capisce non solo per i natali dato ad Alfred Nobel, inventore della dinamite convertitosi al pacifismo convinto, ma anche per la mole dell’Akershusslott, il castello slanciato che, dal 1299, anno d’inizio della sua costruzione da parte del re Håkon V, ha difeso la città di Oslo dai tanti tentativi di attacco dal mare. Ma finalmente, dinanzi al porto e al Rådhuset – l’edificio più celebre di Oslo, costruzione modernista di mattoni scuri –, ecco in un discreto edificio del XIX secolo, la vecchia stazione Vestbanen, il Nobel Prize Center, in cui si vuole non solo presentare la vita e l’opera dei diversi vincitori del Premio Nobel per la pace – ogni anno attribuito in novembre, dopo un’attentissima selezione, nella sala Rådhus del Rådhuset –, ma soprattutto il senso di una istituzione unica al mondo, al confine tra impegno per la pace e cultura della pace. I visitatori norvegesi ne sono il più chiaro esempio.

mercoledì 9 dicembre 2009

Dove va la Grecia?


Incidenti di piazza, declassamento della solvibilità del debito dello Stato, crisi di valori, difficoltà per la Chiesa ortodossa. Il Paese pare vivere una situazione di sospensione, come le Meteore. Reportage di una visita, nel 1998.

È stato uno scherzo ben preparato dal Creatore, oppure una sua collera, di quelle che non si dimenticano tanto facilmente? Osservando queste stranissime conformazioni rocciose, nel centro della Grecia, all’estremità nord-occidentale della Tessaglia, non si può non chiedersi perché siano spuntate da una piana per il resto abbastanza anonima, desolata e piatta. I geologi spiegano che una volta qui correva un grande fiume che sfociava su un lungo braccio di mare - l’attuale Tessaglia -, e che, asciugandosi a poco a poco, aveva lasciato a secco queste rocce grigie e levigate, alte e altere, come dita levate al cielo. Ma la visione che riempie gli occhi non può che far dimenticare la scienza delle pietre, per cercare una spiegazione più spirituale all’esistenza di questo luogo unico al mondo.

E la ragione la si trova solo più in alto, salendo a fatica grazie ad arditissime scale sulle piattaforme che occupano la sommità di alcune di queste forme rocciose cilindriche, ospitando monasteri ortodossi ancora occupati da monaci tutti neri e barbuti. Sembra in effetti che l’uomo abbia approfittato di questi scherzi della natura per issarsi in alto verso il Creatore, anzi più in alto ancora, isolandosi dalla grande valle di lacrime del mondo in luoghi dove lo sguardo, girando tutt’attorno, non può vedere altro che cielo.

Si conosce il ruolo fondamentale del monachesimo nell’Ortodossia: custode della fedeltà al Cristo e alla sua chiesa, segno profetico della necessaria unione con Dio, costante riferimento per la trasmissione dell’arte e della cultura. I monasteri delle Meteore hanno svolto e svolgono tali funzioni. Già prima dell’anno mille questi pinnacoli rocciosi erano stati scelti per i loro eremitaggi da alcuni monaci, che qui avevano trovato le condizioni ideali per isolarsi dal mondo. Ma avevano bisogno della celebrazione eucaristica; decisero così di riunirsi in monasteri che fiorirono nei punti più isolati di queste rocce. Poi le invasioni, la crisi. Fino a quando, nel 1334, venne a stabilirsi qui il beato Atanasio il Meteorita, che pretendeva di erigere quassù un monastero sul modello del Monte Athos. Ci riuscì, richiamando col suo esempio centinaia di candidati monaci. Si dice che, al culmine della diffusione, fossero addirittura un migliaio. Poi il nuovo, lento declino, e la ripresa di questi ultimi decenni, in cui sei monasteri sono stati completamente restaurati e sono ora occupati da comunità monacali.

Per salirvi non si viene più issati con le corde di canapa e lino, perché sono stati attrezzati dei ripidi camminamenti che permettono un’ascesa faticosa ma sicura ai numerosissimi turisti attirati dalla bellezza dei luoghi. Visitare nella fresca alba estiva un monastero come quello di Ipapanti, isolato su una cengia di una parete a piombo su campi di olivi pluricentenari, è un’esperienza mistica e estetica nel contempo (non magica, come potrebbe sembrare), che non può lasciare indifferenti. E si capisce come per vivere tra queste cime bisognava e bisogna ancora coltivare un vero senso della vita.

In un altro monastero, dedicato alla Santa Trinità, Aghia Tria, l’accoglienza rispettosa ma calorosa di un monaco che parla inglese - in un ampio atrio arredato con iscrizioni greche tratte dall’inno alla carità di San Paolo -, mi da il senso del valore di questi monasteri ben più delle stupende icone che rivestono le pareti delle chiese: essere un’icona vivente dell’amore di quel Cristo che quassù non voleva certo fuggire il mondo, ma portare il mondo più in alto.

lunedì 7 dicembre 2009

Romania tra due presidenti


Il Paese s'è svegliato stamani con due presidenti. Un PIL passato in due anni da +8 a -8. Visita al cuore religioso della Nazione: Curtea de Arges, Bistrita e Horezu (2006).

Ci volevano un paio di monasteri alle pendici dei Carpazi per prepararsi alla gemma dell’ortodossia rumena nella Valacchia, la regione tra Bucarest e Tirgu Jiu. Una regione che pare abitata dalla luce sotto le cose.

Curtea de Argeş ha il fascino della religiosità popolare, quella che nelle feste comandate popola ogni anfratto disponibile nel recinto del monastero. Bacia icone e mani vescovili, si traccia il segno della croce una, dieci, cento volte, chinando la testa e poi il busto e s’inginocchia e si prosterna. La fede degli ortodossi a Curtea de Argeş passa per il corpo e per tutte le sue possibili espressioni di devozione.

Bistrita ha invece il fascino della femminilità fasciata di nero delle ottanta monache che la abitano e la custodiscono con grazia e inflessibilità. Infilato nel fondo di una valle chiusa, tra cementifici e cave a cielo aperto che deturpano il paesaggio, sembra resistere alla bruttura della follia umana – le orride industrie sono un regalo di Ceaucescu, che così combatteva a modo suo, a colpi di bruttura, l’oppio dei popoli – con una nota di discreta armonia bianca e rossa. L’iconostasi e le icone che sorreggono (proprio così) la chiesa e la sua fede non sono tra le più antiche, ma colpiscono il visitatore per la loro espressività maestosa. Fuori stazionano mendicanti e bambini di strada, la naturale propaggine dei monasteri di queste parti che, accanto alla preghiera, non hanno mai dimenticato la carità.

Poi Horezu. Non solo perché l’Unesco ha iscritto il monastero nell’elenco dei siti patrimonio dell’umanità. Non solo perché, dopo la miseria e la bruttura di contrade dopo contrade, lo spirito ha bisogno di ritemprarsi. Nemmeno perché dopo quattro ore di pellegrinaggio in pullman si ha diritto a una ricompensa. Horezu merita una visita perché qui lo spirito cerca di sopravvivere tra il tradimento occidentale del cristianesimo relativizzato e quello orientale dell’Islam assolutizzato. Intendiamoci, entrambi questi tradimenti sono lontanissimi dallo spirito delle quarantanove monache che lo mantengono in vita, forse nemmeno consapevoli di tanta missione, appena consapevoli e fiere di appartenere alla loro Chiesa, Chiesa di Romania, Chiesa nazionale, Chiesa che si direbbe angusta.

Ma la grandezza del cristianesimo sta anche nel particolare che diventa universale. Horezu è il centro del mondo, Horezu è la barriera all’abominio, Horezu è la perla del vangelo. Per la quale queste monache vestite di nero hanno lasciato tutto, o talvolta niente. Sono vecchie e giovani, serie e sorridenti, e si divertono a giocare a nascondino con la mia macchina fotografica, celandosi alla mia vista dietro la teoria di colonne che cingono su due livelli la chiesa centrale, culminando in quel capolavoro che è il portico di Dionisie. Affreschi e icone sembrano invadere ogni spazio interno ed esterno disponibile, conferendo allo spazio la dimensione dell’arte e della luce. Quella che rende la vita più intima e meritevole di essere vissuta.

venerdì 4 dicembre 2009

Perugia: Amanda, Raffaele e i "media guardoni"

Stasera, Venerdì 4 dicembre, nel giorno della sentenza del processo più seguito dell'anno, all'Università di Perugia di Perugia (Facoltà di Lettere e Filosofia, p.za Morlacchi 11- palazzo Manzoni, Sala delle Adunanze, ore 17) partecipo a un dibattito con Anna Mossuto (direttrice del "Corriere dell’Umbria") su un tema legatissimo anche alla vicenda di Meredith: "Il giornalista in lotta tra realtà e fiction". Qualche nota d'una mia visita nel capoluogo umbro, dal titolo "Fenomenologia dell’occupante di gradini pubblici"

Crepuscolo a Perugia, quando i perugini deambulano con pigrizia negli interstizi della loro città, cercando improvvisi e improbabili momenti atti a scuoterli dalla noia e dall’abitudine. Scuoterli? Non è così: i perugini amano infatti e la pigrizia e la noia e l’abitudine. Quanti gradini, infatti, possiede la città; ma quanti di essi sono a ogni ora del giorno occupati da giovani e meno giovani, da bambini scapestrati e da anziani scapigliati. Mi verrebbe da diventare anch’io pigro e annoiato, redigendo un’altamente improbabile Fenomenologia dell’occupante di gradini pubblici perugini.
Basta sedersi ai tavolini del Caffè da Cesarino, in piazza IV Novembre, e osservare con attenzione sul lato sud della piazza, ecco la scalinata del Palazzo dei Priori dapprima a ventaglio e poi, d’improvviso, s’impenna sulla destra all’ombra delle fiere bronzee – un grifo e un leone –, alteri e altezzosi, che controllano ed osservano.

Sono giovani quelli che siedono sui gradini levigati; c’è chi telefona e chi guarda la facciata della cattedrale facendo dondolare un sacchetto trasparente che ostenta un paio di libri, Derida ed Heidegger. C’è poi la giovane mamma che cerca di impedire al suo giovanissimo rampollo di scalare il monte Everest senza imbracature di sicurezza (e la scalinata ripida lo è sul serio!). E poi, ecco due quarantenni avvinazzati ce discutono di donne e di calcio che, per passare il tempo, non disdegnano di azzuffarsi un po’, rotolando ai piedi della scalinata, ovviamente senza troppi danni, e col vantaggio di ritrovarsi alla fine orizzontali.

Anche la Fontana Maggiore, a forma dodecagonale, ha un gradino – uno solo – non protetto dalla grata di ferro battuto che, altrimenti, verrebbe sommersa, come a Piccadilly Square. Quell’unica panca marmorea levigatissima è monopolizzata dai turisti, sia per immortalarsi sullo sfondo della cattedrale, sia per sperare di ricevere un po’ della frescura dell’acqua che fruscia e sibilia e scroscia.

Le Logge di Braccio Fortebraccio a tre arcate del XIII secolo, eleganti e slanciate, prima opera rinascimentale della città, sono chiuse anch’esse da una balaustra levigata come uno specchio, che risuona dell’abbaiare dei cani e del turpiloquio dei loro padroni, giovani barbuti e rastizzati, dei marginali senza fissa dimora. Non fanno paura nemmeno i loro sonori alterchi: sono tollerati e anche foraggiati di qualche euro, hanno preso il posto dei vecchi barboni, ormai presi in carico dall’assistenza pubblica.

La leggera pendenza della piazza, che rende di altezza variabile l’unico gradino disponibile della fontana, pare studiata dal genio dell’architettura medievale per mettere in assoluto rilievo l’ultima scalinata della piazza, quella più normale e regolare, quella “canonica” della cattedrale incompiuta dedicata a San Lorenzo, di origini romaniche e di destini gotici, occupata anch’essa, a sole tramontato, da un pefetto spaccato sociologico della gioventù perugina, indigena e forestiera, di tutti i colori – per l’università preposta all’insegnamento dell’italiano ai figli d’altre terre e d’altre contrade –. È una tavolozza antropologica, questa scalinata, che invita a riflettere sul’umana necessità del riposo e del “perdere tempo”, quasi per rassicurarsi che questa misteriosa scatola cosmica che scorre al battito dei secondi non è una trappola mortale.

A ricordarcelo, non serve correre come fa la gente laggiù, negli uffici e nei negozi che sin affacciano su Corso Vannucci, lo “struscio” perugino, ma osservare con attenzione queste scalinate stupefacenti. Semplicemente. A Perugia si scopre che il mondo non corre in modo assurdo, ma razionale.

giovedì 3 dicembre 2009

Schedare la gente dei ghat di Varanasi?


Solo un Paese paradossale come l'India poteva cercare di dare una identità digitale a 1 miliardo e 200 milioni di abitanti. Riuscirà nell'impresa, "schedando" anche chi vive sui ghat, i gradoni che scendono verso il Gange, "la madre di tutti i fiumi", a Varanasi-Benares? Visita, gennaio 2003.

Buio pesto, solo qualche fioca luce di tanto in tanto rischiara l’atmosfera lattiginosa, interrotta da rumori a me sconosciuti che qua e là si solidificano:

una scimmia che avanza a zigzag,

un cane piangente sulla sua perduta serenità,

un vecchio in tenuta assolutamente adamitica che abbozza qualche movimento che vorrebbe essere ginnastica,

una donna che spazza qualche gradino, mi accorgerò che non ce n’è uno uguale all’altro nei quattro chilometri dei ghat, dallo sterco lasciato dalle mucche sacre e dai fiori votivi sparsi dai pellegrini,

un gruppo di uomini accovacciati per terra che fanno scaldare la cuccuma del tè pretendendo nel contempo di riuscire a scacciare quell’umidità che penetra fino al midollo delle ossa tendendo le mani verso un mucchietto di bragia,

il regolare sbattere di tessuti sulle pietre ad opera dei muscolosi lavandai,

il volteggiare di qualche uccello indefinito ma minaccioso,

il rumore attutito di un uomo che accatasta la legna per i burning ghat della giornata, cioè le pire che di giorno cremano i corpi dei defunti,

un pellegrino che si materializza dal nulla ad appena un paio di metri di distanza, ma è quasi totalmente immateriale,

persino il sommesso vociare dell’amore casto…

E così inizio, grazie alla notte che se ne va, a capire la sacralità di queste rive, da sempre luogo di culto e di meditazione, di devozione e di ascesi: le stesse medesime gesta da migliaia d’anni, di che rabbrividire, per noi occidentali sempre più avvezzi al distruttivo usa e getta. Ma sono anche luoghi del contrario di tali pratiche: luoghi di materialismo e di rumoreggiamento, di spensieratezza e di godimento. L’induismo, anche in questo viaggio, non potrà che sconcertarmi e affascinarmi. Ne sono certo.

mercoledì 2 dicembre 2009

Bruxelles, vocazione europea


Il Trattato di Lisbona è in vigore. Per onorare questo nuovo passo in avanti nell'ineluttabile integrazione europea, facciamo due passi per la "capitale europea", Bruxelles-Brussels.

Non è quella che si può definire una bella città, Bruxelles, occupata com’è dall’industria e dalle istituzioni internazionali, da quelle europee in particolare, ma anche dalla Nato. La gente scorre indaffarata, parlando tutte le lingue del Vecchio continente, ma anche idiomi d’altro mondo. Non ha bisogno di bellezza antica, ma quella di vetro e metello e cemento dell’architettura cosiddetta contemporanea.

Eppure un angolo, un piccolissimo angolo di pulchritudo civitatis resiste nella Grande piazza, cuore culturale e turistico della città. Victor Hugo la chiamò "la piazza gigantesca", mentre Jean Cocteau la definì "un ricco teatro". Nel 1695 i francesi la distrussero, e si dovette attendere il XIX secolo perché fosse restaurata appieno, e riprendesse lo splendore d’un tempo. Accanto al palazzo del comune, in puro stile gotico, costruito tra il XIII e il XV secolo e fornito di una torre campanaria di rara bellezza, slanciata e ardita nei suoi 96 metri d’altezza, fanno bella mostra di sé i palazzi delle corporazioni: macellai, falegnami, tessitori, armaioli, barcaioli... Mestieri d’un tempo, oggi spesso persi nella notte dell’estinzione, soppiantati quasi tutti nell’uso dei palazzi da bar e ristoranti che offrono moules-frites cozze e patate fritte, ovviamente innaffiate da una delle straordinarie birre della terra belga e delle sue abbazie.

Di fronte al palazzo del comune, si pavesa altero e superbo il palazzo del re, ricostruito nel XIX secolo riproducendo esattamente il progetto originario del 1515, che fungeva da mercato del pane e poi da palazzo ducale.

Questo per quanto riguarda la storia e l’architettura. Ma in questa piazza non conviene entrarci accompagnando la visita con la lettura didascalica o mimetica di una guida turistica: il fascino del luogo finirebbe con l’essere totalmente annichilito dal passare ordinato da un palazzo all’altro, da una corporazione all’altra. Bisogna invece lasciarsi trascinare dalla curiosità e dal fiuto, passando da uno dei quattro lati della piazza all’altro, zigzagando, cogliendo una finestra illuminata che pavesa un soffitto a cassettoni decorato di rosso e d’avorio, e poi un’altra apertura dai vetri antichi e sconnessi che lascia filtrare tappezzerie dei Gobelins, e ancora una medievale cornice dai rinforzi slanciati che si onora di mostrare la sua ricchezza di quadri d’arte fiamminga del XV secolo. E i muri che avvolgono e racchiudono la piazza paiono scomparire per le superfici vetrate che superano di gran lunga in metri quadrati quella della pietra che sorregge gli edifici. E mi accorgo che è proprio quest’insolita ripartizione delle superfici che conferisce alla piazza il sentimento dielevazione spirituale, perché mi ritrovo a guardare verso l’alto, quasi senza osservare dove metto i piedi nel selciato di pavè.

Solo allora, penso, arriva il momento di entrare in una qualsiasi dei palazzi, come fette della grande ciambella dorata che definisce la piazza, e salirne le scale, inevitabilmente in legno, salvo quelle marmoree dei due palazzi principali e dirimpettai, cigolanti ed iregolari, spesso con gradini di altezza diseguale, accompagnate da mancorrenti usati dal tempo, riparati e riattaccati, per accedere ai diversi piani che paiono dall’interno inondati di luce anche se piove e la grisaille vince la tenzone col sole. Perché il vetro è via alla socialità cittadina, è porta alla condivisione. Nulla può rimanere segreto in queste case che s’elevano sottili e nevose verso le toiture aguisées e quasi affilate, a proteggere soffitte buie che, se non fosse per qualche abbaino, diventerebbero cieche disperazioni, dopo tanta luce. Ma la luce che filtra per quei brevi pertugi pare materializzazione del cielo.

martedì 1 dicembre 2009

I castelli di Lukashenko


In visita a Minsk, il premier Berlusconi elogia la popolarità elettorale del discusso presidente bielorusso. Visita ai due castelli che fanno l'orgoglio di un'intera nazione.

Non c’è molto da vedere dalle parti della Belarus’? A lungo considerata una provincia agricola, una terra di conquista per russi, polacchi, prussiani e austro-ungarici, è stata poi saccheggiata da tanti, da troppi perdendo troppe tradizioni e troppe ricchezze da risultare una guerra ormai quasi priva di bellezze e di speranze. Da queste parti, però, la cultura ha avuto ed ha un suo ruolo, come può testimoniare ad esempio il fatto che in uno sperduto paesello dell’Ovest del Paese sia nato uno dei massimi giornalisti del XX secolo, quel Ryszard Kapuściński che tanta gente ha invidiato per la sua incredibile capacità di conoscere il nuovo, il diverso, l’insolito. Con rispetto e, perché no, amore.

Quest’oggi, nell’intervallo di un congresso un po’ barboso e talvolta al contrario assai interessante – le perle, come sempre, vanno selezionate e ripulite dal fango o dalla sabbia –, in un Paese ancora in transizione, perenne transizione tra mondi mai tramontati completamente e altri mondi mai sorti in pieno, mi concedo un po’ di turismo nei luoghi più antichi della storia della Belarus’. In fondo si tratta di due castelli, entrambi di proprietà dei principi di Radiziwill, nel corso del XVI secolo. Cinque secoli, poco meno, nulla per altre civiltà e altre culture che si contano a millenni, ma certamente molto, moltissimo per ogni bielorusso.

Forse non saranno dei capolavori assoluti, come non reggerebbero il paragone con luoghi simili in altri Paesi europei. Ma per la Belarus’ sono luoghi unici, di immenso valore culturale e umano, perché valorizzano tradizioni e ricchezze, aprendo nel contempo il Paese al resto dell’Europa, al turismo, allo scambio. E allora non è certo un caso se mi ritrovo di fronte a due cantieri ormai avanzati, se non quasi conclusi, nel visitare Mir e Njasviž, ad un centinaio di chilometri a sud di Minsk: si vuole finalmente aprire la Belarus’ al mondo, presentando i suoi gioielli in buono stato, finalmente. Anche se la mia guida dice che questi luoghi, senza tetti cadenti e muri rigati dall’umidità, non sono più vestigia del passato glorioso ma del presente altezzoso. Può essere, c’è del vero. Eppure.

Njasviž la visito per prima. Dopo un centinaio di chilometri di campagna: più ci si allontana dalla capitale, più costato con una certa sorpresa che i campi sono ordinati e coltivati ad arte, che le casette dei borghi rurali, pur modesti se non addirittura francamente poveri, sono composti da casucce ben curate, dipinte di giallo, di verde, d’azzurro, circondate da staccionate ben ritte sui pioli e non abbandonate all’incuria. Qua e là si erge qualche deposito d’acqua, qualche chiesetta di legno, raramente di pietra. E le foreste di betulle, di pioppi e di faggi si estendono altere, quasi monotone, quasi pettini i cui denti sono esili ma impettiti alberi tesi verso la luce del sole.
Njasviž fa la sua apparizione con la modestia di un borgo di campagna come tanti, appena ondulato. Finché due cupole bianche appaiono all’orizzonte, e due torri, una bianca e una color del mattone.

Njasviž è la città più vecchia di Belarus’, sembra che le sue origini risalgano al XII secolo, o giù di lì. Le due cupole, una appartenente ad una fortezza urbana, l’altra alla chiesa cattolica polacca e barocca detta Farny, paiono così insolite dopo cento e passa chilometri di piatta campagna, che pare di essere giunti in un centro di grande elevatezza culturale. La chiesa fa la sua bella figura, progettata com’è stata dall’architetto italiano Bernardoni, un maestro all’epoca, diffusore di quella tradizione architettonica e urbanistica rinascimentale e italiana che non aveva uguali in Europa. Ma la torre che sta dinanzi alla chiesa – la “Torre del cancello del castello”, tozza, come un matitone con la punta all’aria, mezza intonacata di bianco, mezza invece rivestita di laterizi rossi, una tradizione regionale – mostra un volto più locale, assolutamente poco mediterraneo e piuttosto mitteleuropeo, qualcosa che forse qui ci sta più a suo agio, senza l’imbarazzo dell’intrusione di stile.

Fu lo stesso architetto che progettò la Fortezza del palazzo dei Radziwill, che si raggiunge a piedi dalla collegiata, percorrendo uno stretto istmo che fende in due le acque di uno dei tanti laghi della regione. La costruzione fa capolino tra gli alberi di alto fusto poco alla volta, con grazia e con una certa superbia che si cela e si mostra nel contempo. Il restauro, per certi versi invasivo, sta cercando da una parte di ristrutturare la bellissima corte circondata da edifici a sette, otto livelli, torri e cupole, involate d’architetto e misticità da monachesimi, e dall’altra di riproporre le mura in laterizio rosso che sono state ricoperte da una spessa coltre di terra e detriti, quasi una diga innaturale a protezione del castello. Il fossato è stato quasi riempito dai secoli, e anch’esso si cerca di riattivarlo nella sua funzione originaria.

Gli operai stanno riattivando i locali, ripassando l’intonaco, salvando le parti più antiche. Certo, non sembrano provetti restauratori, e danni certamente ne hanno fatti e ne faranno, ma poco male, qualcosa di degno sta emergendo dalla notte dei secoli della dittatura, dell’invasione, dell’abominio naziasta e stalinista.

Lasciamo Njasviž alle sue risorgenti bellezze, protette da uno specchio d’acqua incredibilmente popolato di animali volatili e acquatici, in un tripudio di suoni e di rumori che si compongono in sinfonia pastorale. Ci dirigiamo, percorrendo a forte velocità una lunga fettuccia d’asfalto che non pare conoscere deroghe plausibili alla rettilineità – le strade bielorusse sono spesso migliori di quelle italiane! –, verso il secondo castello della regione, quello di Mir, considerato il capolavoro assoluto dell’arte dei manieri di Belarus’. Le guglie delle torri del castello bucano d’improvviso il cielo oltre il leggero declivio che la strada fende veloce, come quelle della cattedrale di Chartres, come le pagode di Kyoto. Improvvise e sorprendenti, affascinanti nello sfidare l’orizzontalità tendenziale del terreno.

Qui i lavori sono quasi terminati, si stanno sistemando i cancelli e gli spazi attorno al castello, per poter accogliere quelle frotte di turisti che tutti sognano da queste parti. Il cortile è un gioiello che racchiude palazzi di grande arditezza e vecchie pietre preservate dalla furia restauratrice. E un giro attorno all’edificio a pianta quadrata – di dimensioni notevoli, circa 400 metri di lato – impressiona il deambulante, non solo per le dimensioni della costruzione, ragguardevoli e massicce, ma soprattutto per la varietà delle pigmentazioni, per la fantasia che gli architetti hanno usato nel rivestire i muri possenti delle torri e degli edifici frapporti ad esse.

Uno sguardo appassionante, quasi gli architetti avessero previsto che il castello potesse diventare una vera e propria palestra di roccia, ricca com’è di scalini e scanalature, angusti camini e cenge ristoratrici. Questo è il castello di Mir, questa probabilmente è una metafora del popolo bielorusso, perennemente alla ricerca di sé stesso e nel contempo orgoglioso e indistruttibile, aperto alla scoperta altrui e nello stesso tempo incapace di lanciarsi in involate di solipsismi creativi.