venerdì 30 marzo 2012

Caracol, dove i maya capivano il Cielo

Viaggio in America Centrale/5 - In uno dei maggiori siti maya della regione, al confine tra Belize e Guatemala, pensieri sparsi.

Scrivo sul mio taccuino: «Un momento di riposo sulla sommità del palazzo Caana, la costruzione più elevata tra tutte quelle che sono state riesumate a Caracol. Sospeso nella giungla, assolutamente sospeso nel tempo e nello spazio. Ho lasciato tutte le contingenze umane, almeno così mi sembra, sovrastando pietre, uomini e natura. Cerco Drattutto. Ma quassù si scorgono territori dove per chilometri e chilometri non c’è anima viva, solo il vento che soffia, il sole che schiaccia, il verde della vegetazione che pacifica. Da quassù penso al Creatore che continua a creare e che lascia morire, anche le civiltà più sviluppate, anche la bellezza creatrice dell’uomo, anche imperi che varcano valli e montagne. Nulla e tutto, Dio mi chiama, ora e sempre, come ora e sempre ha chiamato ogni uomo e ogni donna a vivere appieno la propria vita, qui e ora. Solo. Silenzio. Scimmie urlatrici. Tombe. Lucertole multicolori. Eserciti di formiche. Nuvole bizzarre. Boscaglia. Manti di fiori rossi, gialli, blu. Tu. Dio. Mio Dio. Anche qui. Solo qui. Perché tu sei il mio Dio. E io sono il tuo Dio. Blasfemia? No, Vangelo. Cristo m’ha fatto Dio. Dio in Dio, luce da luce. Partecipazione misteriosa alla comunione del cosmo. Resta solo la comunione con Dio. E con il Dio degli uomini, che incontrerò scesi i 97 gradini della magnificenza di Caana. Non di Canaa, ma non siamo poi così lontani dal mistero evangelico.

Il resto è ricordo indelebile.

martedì 27 marzo 2012

Flores, la contraddizione dei colori

Viaggio in Centroamerica/4 - Alle porte della meraviglia maya di Tikal, una cittadina che è come una noce nello specchio del lago Petén Itza'.

Flores di mattina. La calma tropicale più totale. Le acque del lago – non molto limpide, a dire il vero – s’increspano appena, così da apparire una pelle rugosa, quasi vellutata. Fa già caldo, c’è pochissima gente in giro e quella che c’è pare persa nei suoi pensieri, o nelle sue miserie. Qualche barchetta solca le acque del lago, mira a qualche meta oltre lo specchio d’acqua. Le architetture di Flores sono alquanto improbabili; non appaiono infatti coloniali, salvo la chiesa e qualche altro edificio della piazza centrale, e non sono neppure architetture dettate dai professionisti. Sono forme popolari, coloratissime, irrazionalmente colorate ed edificate. Ma in questa follia estetica si colgono forme e citazioni delle antiche civiltà maya che qui, nel Petén-Yucatán avevano il loro centro spirituale e amministrativo.

E Flores quando la calma del giorno scema, quando i moli di legno s’affollano di ragazzini felici e bagnanti coi loro fantasmagorici tuffi, quando si cercano gli ultimi clienti per un giro in barca sul lago, quando si tirano fuori le moto per farsi vedere, quando la polizia scorrazza con i suoi pick-up brandendo armi minacciose, quando le ragazze tirano fuori i vestitini corti, quando le bionde turiste norvegesi, svedesi o danesi osano scoprire la pelle immacolata. Quando i colori esplodono.

E allora mi accorgo che esplodono perché da queste parti s’associano i colori in modo assolutamente non convenzionale, si direbbe anarchico, o kitsch. Ma il risultato è fantasmagorico come i tuffi dei monelli indigeni. Che ne dite? Verde pisello, verde abete, arancio e viola? Oppure azzurro turchese, arancio pallido bianco e verde smeraldo? O ancora, rosa, viola e azzurro carta da zucchero? Verde smeraldo, azzurro e beige? Giallo canarino, grigio scuro, rosa e marrone? Giallo sole e rosso mattone, e verde pisello? Rosa, arancio e verde acqua? Blu di Prussia, salmone e giallo canarino? La scala del Pantone si relativizza, mentre una filiforme cinquantenne indigena s’accende un sigarillo osservando le luci del tramonto: rosso sangue, rosso carminio, rosso scarlatto, arancio, giallo, verde, azzurro, terra di Siena, salmone, cobalto… I floresiani, o come si chiamano non lo so, non hanno fatto altro che imitare l’Eterno Pittore di Tramonti. Cosa volete che abbiano fatto di male? Hanno imitato Iddio stesso, che il Guatemala lo ama non poco. Ne ho la certezza matematica dopo aver visitato Flores.

sabato 24 marzo 2012

Lago Atitlán, vulcani e bellezza

Viaggio in America Centrale/3. A Panajachel, osservando il fuoco, l'aria, la terra, l'acqua. Gli elementi primordiali. Lasciata alle nostre spalle la incantevole bellezza di Antigua Guatemala, ci avviamo verso il lago Atitlán, ad un centinaio di chilometri di curve dalla antica capitale guatemalteca. Giungiamo a Chicastenango, venti chilometri di commerci all’americana lungo la strada – c’è un gommista ogni 50 metri, brutto augurio! – avanzando a 20 chilometri all’ora, o ancor meno. Architetture dozzinali, chiese di sette evangeli cali che trasudano spiritualismo di bassa lega e affari simoniaci, puzza di freni aleggiante su uomini e cose, polvere ovunque. Ma anche colori sgargianti, autobus che paiono luna park ambulanti, alberi ombrelliformi ricoperti di una specie di polvere floreale azzurra, blu, rosa, arancio, elegantissimi fini filiformi che svettano sopra la vegetazione lussureggiante.

Si riparte, curvoni e pendenze da brivido, sorpassi che metterebbero paura ad un agente della criminale, diossido di carbonio come aerosol quotidiano, gli indicatori di direzione qui fanno sciopero continuo. Il paesaggio s’inaridisce o s’ingrassa da una valle all’altra dell’Altopiano, fino al passo di Chopol, strategica posizione duramente contesa da esercito e guerriglieri nella guerra civile degli anni Ottanta. Ora in cima al passo una trattoria dozzinale vende caldo de galina, una delizia mi dicono, brodino di gallina.

Giriamo verso Godinez, e dall’asfalto si passa all’opinione d’asfalto, cioè a una serie di buche intervallate da qualche improvviso residuo di bitume. Dieci chilometri che mettono a dura prova stomaci e freni: «Precaución!», intimano frequenti cartelli gialli. Grazie, ce n’eravamo già accorti. Di tanto in tanto una casa di pietra: cadono massi da dieci tonnellate fin sulla strada: «Precaución!». Poi, finalmente, appare, seppur lontano, il lago Atitlán, e le silhouette dei tre vulcani: San Pedro (3020 metri), Atitlán (3537 metri) e Tolimán (3158). Pare di stare in un film.

Ancora una dozzina di curve mozzafiato – ma qui almeno l’asfalto è potabile –, e poi eccoci scesi a livello del lago, arrivando finalmente ad un confuso abitato, reso ancor più caotico da una quantità impressionante di agenti che paiono complicare all’inverosimile ciò che già è complicato. Bene o male riusciamo ad arrivare al lungolago, che in realtà non esiste: c’è solo una fila di ristoranti aperti, lignei, ricoperti da foglie di palma secche, che si aprono in terrazze sospeso sull’acqua. Ne scelgo uno, a caso ovviamente, per riposare le stanche membra al tavolo che pare una piattaforma sospesa sull’acqua per accogliere il messaggio degli dèi dei vulcani, o per meglio dire delle forze recondite e misteriose che fuoriescono dal ventre della terra.

Mi servono un pescetto che pare un’orata di lago, un po’ bruciacchiata ma comunque piacevole al palato, mentre una buona birra locale completa l’idillio manducatorio. Ma il cibo è certamente un dettaglio nella comunione con la natura che si stabilisce da questa postazione privilegiata. Altri, come l’esploratore inglese John L. Stephens, XIX secolo, hanno descritto il luogo come straordinariamente attraente, uno dei siti più incantevoli della Terra. Senza arrivare a tali vette, posso comunque testimoniare che qui s’intreccia uno straordinario abbraccio con le forze della natura, forze possenti e belle, misteriosamente inconoscibili, tra Bene e Male, inquietamente protesi verso “cieli nuovi e terre nuove”.

Poco da dire d’altro su Panajachel, borgo disordinato e ormai turistico, ma in qualche modo preservato dalla deriva inquietante consumista dalla presenza di visitatori solo di passaggio, quasi mai decisi a trascorrere più di qualche ora in questo posto. Luogo che vive di quello che “non è” Panajachel, quasi di un turismo kenotico, di un’esistenza che s’oblia per lasciar vivere acqua (il lago Atitlán), terra (l’entroterra collinare), aria (l’atmosfera impareggiabile del luogo) e fuoco (i vulcani, naturalmente).

giovedì 22 marzo 2012

Antigua Guatemala, all’ombra dei tre vulcani


Viaggio in America Centrale/2 - La perla del Guatemala è incastonata nella geografia e nella storia della regione.
La capitale del Guatemala si chiama Guatemala, come lo Stato centroamericano, nonostante noi stranieri ci ostiniamo a chiamarla Ciudad de Guatemala, proprio per distinguerla dal nome dell’intero Paese. Per i guatemaltechi, invece, la loro capitale deve chiamarsi semplicemente Guatemala, tanto che la vecchia capitale si chiamava anch’essa Guatemala. Oggi, per distinguerla dalla Nuova Guatemala, cioè da Ciudad de Guatemala, la si chiama Antigua Guatemala, o più brevemente Antigua.

Tutto ciò per introdurci a quella che unanimemente viene considerata la più bella città del Guatemala, tanto che l’Unesco nel 1979 l’ha iscritta in toto nel suo albo dei luoghi “patrimonio dell’umanità”: Antigua è un’esperienza esistenziale. Certo, avevo letto non poco della città, della sua posizione geografica straordinaria, inserita com’è in un pianoro custodito dalle silhouette di tre vulcani, Agua, Fuego e Acatenango, che in realtà da sempre sono la croce e la delizia della città, più volte distrutta e ricostruita. Avevo letto anche della sua storia: gli spagnoli l’avevano eletta capitale solo in un terzo tempo, dopo Iximché, scelta per dominare sulla tribù maya dei kaqchiquel, che però si ribellarono, e dopo che i conquistadore decisero di spostarsi ad Volcán Agua, alle pendici del vulcano, che però fu spazzata via da una colata immensa di acqua e lava – un lago si era infatti creato nel cratere dopo la precedente eruzione –, nel 1541. Allora fu deciso di costruire l’attuale Antigua, che allora si chiamava semplicemente Guatemala, appunto, nel 1543. Nel XVII e XVIII secolo la città fu effettivamente il centro della dominazione coloniale spagnola in America Centrale, arrivando a contare 38 chiese! Ma l’ennesimo terremoto, devastante quella volta, del 29 luglio 1773, costrinse i dominatori a fondare un’altra capitale, l’attuale Ciudad de Guatemala. Antigua prese allora il nome attuale e fu abbandonata dalla maggior parte dei cittadini. Ma non da tutti, e questa fu la sua fortuna, perché i pochi rimasti cominciarono a ritirare su qualche muro, a riprendere i commerci, a ridare colore alla città. Fino al nuovo terremoto del 1976, anch’esso devastante. Da cui la città si è risollevata solo grazie all’iscrizione all’albo Unesco, il che ha attirato non pochi capitali per restaurare la città.

Avevo letto della sua periglosa geografia e della sua solemne storia, ma non mi immaginavo i sentimenti atemporali e aspaziali che mi hanno avvolto nella visita, pur breve, alla città. Sono state le inferriate ad attirare la mia attenzione, sin dai primi passi appena sceso dal bus: inferriate che si mostrano ovunque, nessuna uguale all’altra, ognuna con un suo cachet, con le sue civetterie, i suoi difetti e le sue visibilità. Ogni finestra degli edifici, tutti assai bassi, al massimo due livelli, per via della sismicità della regione, ha la sua inferriata, e così ogni abbaino, ogni minimo anfratto che si espone all’esterno. Certo, una lotta alla criminalità, una protezione contro l’insicurezza, ma non solo: nelle inferriate il genio colonial si è sbizzarrito con al sua fantasia codificata e pur sempre originale, creando un ambiente segmentato, ma pur sempre assolutamente unitario. E dalle inferriate sono passato alle facciate delle case, e poi delle chiese, quindi delle aiuole delle piazze, e i marciapiedi delle strade, la disposizione degli alberi negli slarghi, l’orientamento delle calli e delle avenide – è illusorio pensare che la struttura urbana spagnola, regolarissima, qui abbia trovato il suo luogo d’adozione: la perpendicolarità qui è un’opinione per una questione di minimi dettagli d’orientamento –, i cortili, magnifici spazi verdi ed esuberanti, le decorazioni dei tetti…

Dettagli che si riflettono anche nelle prospettive aperte da ogni calle e da ogni avenida, che immancabilmente rimandano alle sagome coniche, ma anche qui con “perfette imperfezioni”, dei tre vulcani. Accade come a Roma, dove il cupolone è onnipresente, ma sempre diverso a seconda delle prospettive da cui lo si guarda: in particolare il vulcano Agua si pavoneggia mostrando sempre un volto inconsueto e inatteso della sua personalità mutante e irascibile. Che dire della chiesa di San Francesco sormontata da un vulcano gigionesco? O le rovine della Catedral, attraverso i cui archi aperti al cielo s’indovina un vulcano misterioso? E, dietro le donne che lavano i panni nel pubblico lavatoio – giallo o quanto giallo! –, dinanzi alle altre rovine, quelle della Recolleción s’indovina un vulcano che ama incutere rasserenante calma. Mi perdo e non mi perdo ad Antigua Guatemala. Mi perdo e mi ritrovo sempre e comunque, perché i vulcani m’orientano, come il mare a Genova, come le montagne himalayane a Katmandu. Mi perdo nei pensieri e nelle evidenze estetiche, e mi ritrovo nella memoria della città che fu, che vive nei muri e nelle inferriate nonostante la trasformazione della città in grande scena turistica. Qui la Conquista ha dominato e schiacciato, finché la Natura ha costretto all’umiltà i conquistadore. Cosicché la città è diventata patrimonio di tutti i guatemaltechi, non solo i ladinos, ma anche i maya, ma anche i meticci. Patrimonio dell’umanità. Non dell’Unesco, ma della gente guatemalteca.

mercoledì 21 marzo 2012

Ciudad del Guatemala, la capitale dei contrasti

Viaggio in America Centrale/1 - Nel cuore del Paese che ospita straordinarie testimonianze delle civiltà mesoamericane. Ma i terremoti hanno fatto danni.

Comincia bene la visita a Ciudad del Guatemala, che per i locali si chiama semplicemente Guatemala: una panne d’auto di cui il nostro corpulento autista di nome Julio non riesce a farsene una ragione. Perché la sua giapponese Mazda, potente e corpulenta come lui, non dovrebbe essere sottoposta a simili contingenze. Poco male, si entra in merito, si entra in Guatemala dove, mi dicono, le panne d’auto sono all’ordine del giorno.

Abbiamo appena avuto il tempo di osservare da qualche viadotto ardito la conformazione di questa città di quattro milioni di abitanti: costruita su colline piatte sulle sommità, ma precipitanti d’improvviso in valli anguste, quasi degli abissi improvvisi, dei mancamenti orografici, le municipalità hanno riservato le zone relativamente piane al business e alle residenze danarose, mentre aggrappati ai dirupi si sono sviluppati i quartieri della povertà, mimetici al rilievo e alla miseria umana. Calli strette e ripide, assenza di commerci, sporcizia e degrado. Come sempre, come ovunque nel mondo, o quasi. Dall’alto il vastissimo abitato ieri pomeriggio all’atterraggio impressionava per la conformazione regolare dei quartieri più ricchi e per il disordine di quelli più poveri, mentre quest’oggi dal basso impressiona per la pendenza impossibile delle pareti dei dirupi – non oso nemmeno immaginare gli effetti devastanti di inondazioni e terremoti, qui frequentissimi – ma anche per l’organizzazione degli abitati aggrappati a queste colline scoscese.

Il Parque Central è il cuore vecchio della città, organizzata in modo assai originale, con calli e avenide numerate, con numerose eccezioni, però. In realtà i terremoti succedutisi nei secoli nella zona – anche ieri c’è stato un fortissimo terremoto in Messico, che tuttavia sembra non aver fatto vittime – non hanno permesso la permanenza di una città armonica di stile coloniale, come è invece accaduto in altre città mesoamericane, e così anche il cuore del Parque Central alterna palazzi decorosi – come il Palacio Nacional de la Cultura, tendente al verde e la Catedral Metropolitana –, ad altri palazzi francamente da dimenticare.

Il Museo diocesano attiguo alla Catedral espone testimonianze toccanti della fede di questo popolo, sempre legata al sangue, metaforicamente ma anche realmente, come testimoniano le lettere autografe scritte col proprio sangue da una suora in odore di santità, Madre Maria Teresa Aycinena Piñol. Da visitare.

Dietro la Catedral, invece, il mercato artigianale e quello ortofrutticolo accompagnano il visitatore con la loro carica si colori, di voci – sempre contenute, a dire il vero –, di odori e sapori, ma soprattutto del sorriso immancabile di coloro, soprattutto donne, che cercano di avvicinarti per venderti la loro mercanzia.

C’è una certa insicurezza per le strade, ci si guarda sempre attorno, si evita di esporre troppo a lungo le macchine fotografiche, si cambia itinerario rapidamente, non si staziona troppo a lungo: è nota la presenza di personaggi dediti di professione al borseggio, come d’altronde in quasi tutte le grandi capitali del continente americano, da Nord a Sud. Ma l’atmosfera è comunque rilassata, attenta alla persona più che alle cose.

giovedì 15 marzo 2012

Lugano: il lago, la montagna, l’habitat


Una città, un cantone, un luogo che sale e che scende. Esistenziale.

Una conferenza nel Canton Ticino, nel nord del cantone, nel “Sopraceneri”, cioè oltre il Monte Ceneri, un modesto rilievo che però pare una diga, un muro insuperabile, un enorme ostacolo culturale. Varcarlo, è quasi passare in un altro mondo, superare le colonne d’Ercole, aprire le porte all’incognitus. Siamo globalizzati, ma nel contempo localizzati in modo inatteso, talvolta compulsivo, come nei Nimby, not in my back yard, mai nel mio giardinetto.

Perdo il treno di ritorno a Lugano, mi tocca aspettare un’ora, un secolo e un istante, issato sulla terrazza ventosa del bar dinanzi alla stazione, un luogo fatato e misterioso: i rintocchi di un vicino campanile risuonano sull’abitato sottostante, come un memento homo pacificato, mentre il lago increspato dal vento impetuoso si tinge di blu profondo come il mare, o piuttosto il lago; una barca sfida il freddo e i marosi, pardon, i lagosi, come se dovesse varcare uno stretto di dimensioni paurose. Ma il sole bacia l’abitato che sale lungo le pendici dei monti ancora imbruniti dall’inverno, ma pronti anch’essi a varcare la soglia dell’incognitus primaverile. Lugano appare una vasta scalinata d’immobili disposti come cubi striati sui declivi che scendono all’acqua come temendola per il freddo dell’abbraccio liquido, ma cercandola per la sua orizzontalità senza possibili discussioni.

La luce della sera che s’annuncia, delle ombre lunghe che, rapide, si distendono sulle ciclopiche scalinate della città, raccontano una vita al tepore del lago finché il lago non muta d’umore, diventando cupezza e tenebrità. Sulle montagne più elevate la neve ha perso la sua battaglia per la sopravvivenza, accettando come da tradizione la kenosis del proprio essere perché viva, la natura misteriosa fatta di anfratti e vapori, di picchi e di fragilità rocciose, di tutto e di niente. Ma la neve concede per qualche giorno ancora la sua intrinseca luminiosità in vista della parusia annunciata della primavera, della saga verde putativa.

Le cupolette verdi dei campanili della città attirano gli ultimi raggi come fossero gelose della notte incombente che ruberà loro ogni bellezza, se non quella dell’artificiale luminosità. Le scale di cemento, immense e minuscole a seconda delle ottiche applicate allo sguardo, catturano le ultime luminosità, mentre l’obliqua scalinata dei contrafforti spogli e bruni oltre il lago vede i suoi gradini che scendono al lago allungarsi a dismisura, fino a cedere la loro identità all’uniformità grigia. Come una metafora della mia e tua e nostra esistenza, destinate a risuscitare dalla morte.

martedì 6 marzo 2012

Enna, incastonata lassù sulla montagna


Breve pensiero su un gioiello baricentrico alla Sicilia.

Enna, cioè Ennaan per i sicani, Henna per i greci, Hennae per i romani, Qasr Yanna per gli arabi, Castrogiovanni dall'età normanna al 1927, in siciliano Castrugiuvanni. 27.918 abitanti per un capoluogo di casuale, perché Mussolini la preferì alla Piazza Armerina dei fratelli Sturzo. È oggi nota per essere il capoluogo di provincia più alto d'Italia, a 931 metri sul mare. La città è inoltre celebre come urbs inexpugnabilis, come i romani la definirono per la sua imprendibilità, oppure come “ombelico di Sicilia”, grazie alla sua centralità geografica rispetto all'isola, o ancora “belvedere di Sicilia”, per le superbe vedute panoramiche. Mi ripeto tutto ciò passeggiando per le vie in salita della città, visitando una cattedrale che coniuga stili diversissimi, eppure capace di affascinare per il garbo e la maestria delle sue decorazioni. Mi ripeto tutto ciò gustando uno straordinario cannolo alla ricotta in un bar che dà sulla valle. Mi dico tutto ciò, e vedo che è vero.