lunedì 31 gennaio 2011

La cittadella del Cairo


Da dove si domina la città, da dove l'esercito s'è mosso, da dove si spera in un cambiamento. Visita del 2005.

Per cercare di capire, salgo alla Cittadella, tra scolaresche in visita ai luoghi più significativi della città e devoti fedeli che salgono alla moschea di Mohammed Alì per testimoniare che Dio è uno, anche se la città è molteplice. I turisti? Ci sono nonostante le bombe piazzate contro di loro, ma paiono diminuire, schiacciati o piuttosto dispersi e sparpagliati dalla maestosità dei luoghi. Ecco il Cairo dall’alto, avvolto nella cappa di smog maleodorante delle scorie e delle mefitiche esalazioni un parco macchine tra i più malandati al mondo. In primo piano le due bellissime moschee del sultano Hassan e quella di ar-Rifai, dove sono conservate le spoglie dell’ultimo scià di Persia, Reza Palhevi. Ecco il Cairo immobile ma mobile, perché persino sui tetti costellati delle nuove steli rotonde al dio catodico la vita brulica, anche le terrazze paiono ospitare il ballo senza ritmo e senza senso apparente della civiltà del caos. Mi sembra di capire da quassù che la democrazia compatibile con queste terre e queste popolazioni non è e non sarà quella dei Montesquier e dei Moro e dei Toqueville, ma forse una forma più autoritaria, con più forza e determinazione, illuminata certo, e rispettosa dei diritti dell’uomo, ma forse con meno leggi; o piuttosto con leggi più semplici delle nostre. Forse addirittura con le leggi coraniche interpretate con clemenza e misericordia, shari’a rivisitata. Chissà.

Perché, mi dico, il caos c’è, a dimensioni impressionanti e poco governabili dalle risorse degli uomini di potere. Ma, nel contempo, da tale caos si riesce sempre ad uscirne, e nemmeno tanto contrariati. E nemmeno tanto distrutti. E nemmeno tanto sconvolti. Convivere nel caos, in ogni caso, crea degli insospettabili anticorpi capaci di riordinare la psiche e l’anima. Forse toccherebbe a un biologo studiare tale fenomeno, più che a un sociologo.

lunedì 24 gennaio 2011

Sidi Bou Saïd, dove viveva Ben Ali


Un palazzo presidenziale da favola era stato costruito dal deposto presidente Ben Ali nei pressi della cittadina tunisina. Visita del 2005.

Sidi Bou Saïd. Ovvero quando un villaggio, pur avendo una chiara destinazione turistica, nello stesso tempo esprime la vocazione di un popolo e di un Paese.

Sidi Bou Saïd, pochi chilometri a nord di Cartagine, sta sul mare e sta sul cielo. La terra? La cela nel suo ventre, per quanto può. C’è l’azzurro del mare, c’è quello del cielo e quello delle porte, delle finestre, delle balaustre, degli infissi, delle panchine, dei lampioni, delle pattumiere, delle tettoie, dei frontespizi, delle bancarelle… Talvolta persino delle tegole e dei marciapiedi. C’è l’azzurro, soprattutto, dei balconi ricoperti di legno che proteggevano – e proteggono – le donne arabe e tunisine dagli sguardi indiscreti. Azzurro mimetico, ora del cielo, ora del mare, dipende dall’ora e dall’inclinazione solare.

Non è per caso che il paese attiri artisti tunisini – e non solo – su questa collina che degrada verso il Golfo di Cartagine. Paul Klee, un nome per tutti, colui che all’azzurro di queste lande seppe associare ogni altro colore, quasi che dal bianco – l’assenza di colori –, che solo sottolinea, esalta e illumina l’azzurro, volesse esplodere le implicite tonalità racchiuse nel suo nulla che è tutto. Ed è con sorpresa che d’improvviso l’azzurro si moltiplica e si frammenta in mille azzurri, l’uno diverso dall’altro, sfumati o intensi, possibili o impossibili, sfacciati o raccolti.

Il paese culmina nel minareto del piccolo mausoleo dedicato proprio a Sidi Bou Saïd. Ma ai suoi piedi sta placido il Café des Nattes, luogo di ritrovo degli artisti di ieri e di oggi, dove si sorbisce il celebre tè alla menta coi pinoli che galleggiano beffardi e sorridenti nei piccoli bicchieri di vetro. Una pausa sulle sue terrazze dalle balaustre lignee ovviamente azzurre, scrivendo qualche nota sui tavolini altrettanto azzurri sospesi tra cielo e mare, è una di quelle esperienze di pace nell’esaltazione dei sensi oltremodo difficile da dimenticare.

Vi si giunge dalla riva del mare con una lunga salita lastricata che talvolta, qua e là, senza logica apparente, sembra mutare in scalinata leggera e soave, accompagnata a destra e a manca dal candore trapuntato d’azzurro delle abitazioni curate, appena macchiate da qualche bouganviller o dal ciuffo verde d’un albero di limone o d’arancio. Forse non è una scalinata, ma la mimesi delle increspature del mare, o della peluria di nubi che velano appena il cielo.

Sidi Bou Saïd, l’Islam verde fatto azzurro dal sole d’oro. Cioè cielo assolutamente privo di violenza. La moderazione della mancanza di moderazione. È quel che si gode come un’evidenza nell’ultima propaggine del paese occupata da un delizioso bar a terrazze, il Café Sidi Chabanne, a picco sul golfo e sulle stupende ville della cittadina costiera. Delizioso il bar, deliziosi i tavolini bianchi e azzurri, delizioso il sole di novembre. Smodata la bellezza del luogo, con le sue terrazze che paiono gradoni verso l’infinito dell’azzurro. Islamico? Divino.

Poi la discesa verso il porto, una lunga scalinata di pietra vittima della solita incuria della gente del sud. Basterebbe poco per mantenerla pulita, direi quasi incantevole. Ma è nella discesa che scopro infine la terra, anch’essa esasperata: rossa, sfacciatamente rossa, e verde, delicatamente verde come le agavi che la ricoprono. Sidi Bou Saïd nascondeva la terra rossa.

lunedì 17 gennaio 2011

Cartagine, dove ora regna il caos


La delicatissima situazione politica tunisina ha avuto come uno dei suoi principali centri di scontro la vecchia città di Cartagine, accanto al palazzo del deposto presidente, Ben Ali. Visita del 2005.

Ne ho viste tante di pietre antiche in giro per il mondo. Non tutte realmente interessanti, non tutte all’altezza della memoria evocata. Temo che anche Cartagine sia stata vittima della maledizione del saccheggio e del cemento. Temo che l’incuria abbia avuto la meglio sulla giustezza dell’antico, sulla sua grandiosa modestia. E chissà se la mia sensibilità saprà cogliere quel che non morirà mai.

Rimugino questi interrogativi sul tassì che sfreccia nella sottile striscia di terra che recide la laguna salata di Tunisi. Il tassista corre come un ossesso a bordo della sua Vw da 400 mila chilometri, che mi chiedo ancora come non si si disgreghi in mezzo alla carreggiata, tanti sono i cigolii e i rumori sospetti che la scuotono.

Cartagine, la vecchia Carthago, s’annuncia con le guglie e le cupole della cattedrale cattolica dedicata a Saint-Louis, un esempio da non seguire di architettura che nello stesso tempo vuole essere coloniale, gotica e romanica. Vi lascio immaginare… Il museo si allunga assolto e ozioso ai suoi piedi, ricco di reperti fenici, punici, greci e romani. I mosaici che racchiude e custodisce non sono da poco, rimandano ad antichi momenti di gloria. Il vasellame fenicio sta con la grazia e con la sfrontatezza dei millenni accumulatisi. Un paio di scheletri che dicono punici si mostrano composti, quasi al punto da infondere tenerezza. Tutto qui. Uscendo dal museo, lo spazio di un’istantanea apre prospettive marine e archeologiche: colonne e capitelli e frontoni e mare. Nient’altro. Il cemento e il business vengono celati dall’altura.

È tutto giusto. E allora rivedo Agostino che ammonisce ed incoraggia i cristiani minacciati dalle tante eresie del tempo. Rivedo Annibale che ammonisce e incoraggia le sue truppe pronte alla campagna più pazza che si potesse immaginare. Rivedo Adriano, l’imperatore, che ammonisce e incoraggia i suoi ammiratori usando della sua eloquenza e della sua profonda visione delle cose.

L’anfiteatro – tremila spettatori – è deturpato dalle strutture metalliche che lo rendono un’arena estiva ancora in uso. Per giunta, su di esso incombe un minareto dozzinale. A Efeso è più completo, a Taormina più pittoresco, a Pompei più antico… Ma qui, anche qui, riesco ad immaginarmi in compagnia di Adriano, Annibale, Agostino. E l’incanto rinasce, e il presente s’oblia in un passato certamente più glorioso.

Qualche villa romana, qualche colonna mozza, s’indovina una superficie che una volta era un circo massimo. Poco d’altro. E una scalinata che, dicono, facesse ascendere al tempio di Apollo di romana memoria. La scalinata è ora ridotta a poco più di una scoscesa erta erbosa. Poco importa, Cartagine è ormai nella mia memoria, e ci rimane.

martedì 11 gennaio 2011

Forìo, il mare e qualcos’altro


Una passeggiata in una delle cittadine più deliziose dell'isola di Ischia, nel passaggio d'anno tra il 2010 e il 2011.

Il disordine urbanistico proprio del napoletano – direi una vocazione più che una condanna –, anche sull’isola d’Ischia agisce a pieno regime. Anzi, dicono che da queste aprti l’80 per cento dell’abitato sia in un modo o nell’altro abusivo. Cifre incredibili, che che raccontano un “essere al mondo” più che un tentativo di evasione di massa, più un dasein che un’imbrogliatina corruttiva. Bisogna pur vivere. Eppure in questo caos (relativo, perché in realtà sull'isola si vive benissimo) emergono gioielli borbonici e barocchi che impreziosiscono l’abitato e gli abitanti. Saltello dall’uno all’altro – Palazzo Covatta, Palazzo Biondi, Casa Regine, Palazzotto di Via Torrione – non come un tarantolato ma come un pellegrino che s’accosta alla nobiltà d’animo, come un nomade della transeunte bellezza umana.

Mi fermo solo al limitar dell’abitato, sul promontorio occupato – si direbbe per preservare l’incantevole posizione – da una preziosa chiesetta, assolutamente marina, direi ricca della quintessenza mediterranea. Santa Maria del Soccorso ha una sua storia non di poco conto, e un’infinita serie di leggende: antico convento agostiniano del XIV secolo, dicono che sia stato costruito perché, durante una delle mareggiate più violente che la costa napoletana avesse mai conosciuto, forse nel XIII secolo, emerse un crocifisso che s’adagiò sugli scogli del promontorio senza volerne più sapere di essere riassorbito dalla risacca, o dal fortunale, o dalle onde anomale.

Le maioliche sbeccate e scortate, slavate, brillano pur tuttavia sul bianco di calce dei muri, come scie del dio della luce, che sulla Terra si vede costretto a firmare compromessi cromatici e a circonlocuzioni estetiche per suggerire l’idea di luce, che poi è la bellezza stessa. Nulla brillerebbe se l’azzurro intenso del Cielo, direi terreno, non definisse i confini del dominio umano rispetto a quello divino, o forse solo umano-più-umano. Circondando di passi e d’affetto la chiesa – una basilica in stile incognito e misterioso, «della facciata principale non esistono altri esempi», scriveva il Salvati, “biografo ufficiale” dell’isola – m’accorgo dell’acqua che pavimenta l’orizzonte e che lastica la terra. Increspata di tramontana, vellutata di sole, luccicante di schiuma, l’altra metà del mondo – la parte cangiante – s’atteggia a nettare degli dèi, o piuttosto ad amniotica accoglienza, o ancora a tappeto dei pensieri leggeri e concisi. Forìo è il suom mare, e qualcos’altro.