mercoledì 28 aprile 2010

Grecia: l'isola dell'oro


Al di là dei termini tecnici, il Paese ellenico pare proprio sull'orlo dell'abisso. Viaggio allora sui suoi abissi marittimi, stupendi e forieri di ricchezza turistica . L'isola di Sifnos, cioè l'isola dell'oro che ora difetta ad Atene.

Il paradiso del colore. È Sifnos, una delle Cicladi meno conosciute ma tra le più affascinanti, dove il bianco e l’azzurro si legano per affinità elettive. Mediterrano, il film premiato con l’Oscar, rese celebre l’isola di Santorini. Già erano mete turistiche d’eccezione Naxos e Paros. Pochi invece conoscono Sifnos: nelle sue strade – non più di una trentina di chilometri di asfalto e altrettanti di polvere – le auto targate Germania, Italia o Paesi Bassi sono rarissime. Quasi esclusivamente sono i greci a frequentare le spiagge di questa piccola isola incantevole, compreso l’attuale primo ministro ellenico, va detto.

Scendendo dall’Epiro verso Atene, avevo fatto una sosta obbligata a Delfi. Nel suo nuovissimo museo avevo ammirato alcuni manufatti di oreficeria, conosciuti come “tesoro di Sifnos”. L’isola, infatti, inviava al più celebre oracolo dell’antichità greca un decimo della produzione di oro estratte dalle miniere dell’isola, una sfera del diametro che talvolta raggiungeva il metro. E con quell’oro si pagavano i migliori artisti ed artigiani dell’epoca (si era nel sesto-quinto secolo prima di Cristo) per scolpire opere di ispirazione bellica o monili votivi.

Ma il colore dell’oro oggi non si trova più a Sifnos, un nome italianizzato talvolta in Sifni. Le miniere sono ormai da secoli esaurite, e solo da pochi decenni una popolazione più stabile ha riportato una vita attiva nell’isola. Per secoli poche famiglie vi hanno trascorso l’anno intero, conducendo una vita assai grama. Ancor oggi, vagando nel nord dell’isola che non conosce l’asfalto, si scorgono vecchi contadini (mi verrebbe da definirli antichi) che macinano il grano aiutandosi con la forza di un asino. E le vestigia dell’antico splendore si riducono ormai a due o tre necropoli issate sui cocuzzoli dell’interno.

Quel che caratterizza l’isola – oltre naturalmente alle incantevoli cale, simili però a quelle delle altre Cicladi – sono invece le chiese e i monasteri ortodossi che punteggiano l’intera superficie dell’isola. Dicono siano 365, per una fede radicata nella popolazione che, al di là delle inevitabili superstizioni, è ancora sincera. Sono costruzioni in gran parte private, di un candore straordinario, talvolta ornate da cupole azzurre e da altri minimi fregi colorati. In ogni caso sono situate nei posti più incantevoli dell’isola: sopra una insenatura, su uno scoglio, sul cucuzzolo di una montagna nuda, in un avvallamento tinto di verde ulivo. All’interno, le più o meno antiche iconostasi testimoniano il prestigio e la fede della famiglia proprietaria.

A Sifnos d’estate si nuota baciati dal sole e cullati dalle onde leggere, ci si nutre seduti ai banchi delle piccole taverne che offrono sfiziosi piatti freschi e marini, si riposa a ogni ora. Ma a Sifnos d’estate ci si può avventurare per le strade e i sentieri polverosi solo all’alba e al tramonto. È in quelle ore che meglio si apprezza la straordinaria bellezza dei luoghi e l’immaginazione della sua gente, che si è espressa nei secoli di questo millennio solo nelle infinite variazioni delle sue chiese. Non ce n’è una uguale all’altra, pur nella loro modestia o nell’apparente somiglianza. Una metafora del popolo cristiano, in fondo.

In un’ascesa mattutina – intorno alle sei – raggiungo Aghia Tria, a picco sul capoluogo dell’isola. Per raggiungerla la famiglia proprietaria della cappella ha realizzato un’interminabile scalinata di pietra e terra, che conta la bellezza di 729 gradini: non uno è uguale all’altro, non uno risparmia al viandante il sudore dell’ascesa. Raggiungo la sommità dopo quasi mezz’ora di cammino, arrivando alla sorpresa di una vista mozzafiato sull’azzurro incantato del golfo. Un solo gradino, in discesa a volo d’uccello, basterebbe per raggiungerlo.

lunedì 26 aprile 2010

Anversa, l’elogio della sana follia


"Il Belgio rischia la separazione", titola un grande quotidiano francese dopo la consumazione dell'ennesima crisi di governo. Sarà vero? Certo è che la convivenza tra fiamminghi e valloni risulta sempre più complicata. Visita ad Anversa, cuore della regione fiamminga (2005).

Piazze in puro stile fiammingo concatenate, quasi abbracciate; quadri di Rubens che mi penetrano dalle pupille fino alle viscere, frammenti di colori che diventano pura luce; la follia di Erasmo a prova di secoli; l’ammirevole cattedrale, la Kathedraal, un ettaro di slanci gotici, ricchi e leggeri, la sua torre slanciata e ardita, che ospita la bellezza di 47 campane; un mare di biciclette che scivolano leggere facendo lo slalom tra le folate del vento del nord e l’occhiolino rivolto ai ciclisti d’ogni età dal sole coi suoi raggi timidi e birichini; la birra De Coninck, sempre più spumeggiante e densa, una sorsata che d’estate dà frescura e d’inverno calore, per il miracolo del malto e del luppolo; il castelletto dello Steen, sul canale dello Schelde, si pavoneggia austero ma poco rigoroso, con un veridico bassorilievo di Priapo in bella vista; il canale che pare un fiume e pare un mare, minaccioso come un oceano in burrasca e accogliente come un porto protetto dai venti; l’isola pedonale che t’accompagna per le ruelle sgombre d’auto (ma non di biciclette) del centro gotico e fiammingo, riservandoti sorprese ad ogni svolta, con lo sguardo che va e viene sulle belle facciate delle case che paiono finestre sorrette da esilissimi muri, giusto il necessario per impedire al vetro di cadere a terra; il selciato di pavé scomposti ma non troppo, sul quale i tacchi poggiano con sicurezza, producendo un rumore che rimbalza sulle facciate ritornando rumori moltiplicati per due; le luci colorate che suggeriscono più che gridare, con un tocco di civiltà che la società del consumo dimentica troppo facilmente; i marmi lavorati dall’uomo e levigati dal vento, scalini posti perpendicolarmente al suolo, in un’ascesa orizzontale che prefigura la pragmaticità commerciante, l’idealismo filosofico, la “sana follia” che spinge l’uomo ad industriarsi quaggiù nell’incertezza dell’esistenza di un lassù; le abitazioni che hanno e fanno la cresta, superbe e nel contempo familiari, tirando fuori dal cilindro gotico la bellezza e l’orgoglio. Questa è cultura.

martedì 20 aprile 2010

Malta la si capisce ad Haġar Qim


Benedetto XVI ha visitato Malta in un clima reso difficile dallo scandalo degli abusi sessuali sui minori. Non ha potuto vedere le più antiche vestigia della civiltà maltese, che ancor oggi spiegano un piccolo-grande popolo. Visita del 2000.

Viaggio turbolento, l’isola di Malta è battuta dal vento a ottanta chilometri all’ora, come tanto spesso accade. Ma un bel sole mi accoglie, pur essendo a gennaio. È un crocevia nel Mediterraneo, l’arcipelago di Malta. Le scoperte archeologiche neolitiche dimostrano come già seimila anni fa prosperasse su queste isole una civiltà sviluppata, dedita soprattutto alla navigazione. Nel corso dei secoli, poi, la dominazione o l’influenza delle diverse civiltà mediterranee si sono fatte sentire, dai fenici ai greci, ai cartaginesi, ai romani, agli arabi e ai normanni. Dopo varie traversie, per due secoli e mezzo Malta ebbe la singolare reggenza dell’Ordine dei cavalieri di San Giovanni, più noti come Cavalieri di Malta. Napoleone in seguito conquistò le isole, finché l’arcipelago fu annesso dagli inglesi, nel 1814. L’ultimo scaglione dell’esercito britannico ha lasciato infine l’arcipelago solo nel 1979, dopo che esso aveva ottenuto l’indipendenza nel 1964.

Attirato dalla straordinaria antichità della civiltà maltese, mi avventuro alla ricerca di qualche sito archeologico maggiore, perché non si può dire di avere conosciuto questo paese perso nel Mediterraneo senza aver visitato almeno uno dei suoi più antichi siti. Comincio da Haġar Qim, nel sud dell’isola di Malta, a un paio di chilometri dal mare, in una posizione che dire panoramica è come dire nulla. Qui è stata scoperta la statuetta più nota del periodo Tarxien, che data tra il 3000 e il 2500 a.C.: una scultura senza testa ma dai lineamenti stranamente naturalistici per l’epoca, che rappresenta una donna dalle forme generose, chiamata non a caso la “Venere di Malta”. Qui è stato pure scoperto un altare quadriforme in pietra calcarea; in ogni lato, alla base, è scolpito un vaso con una pianta che cresce, affiancati da due pilastri sporgenti. E tutte le superfici appaiono decorate con semplici trapanature. La “Venere di Malta” e l’altare quadriforme, che si ammirano al museo di Rabat, lasciano col fiato sospeso, se si capisce da quanto tempo siano stati modellati. E non possono essere stati scolpiti da gente senza una solida cultura!

È un lungo camminamento che porta poi ad Haġar Qim, un lastricato battuto dal sole e dal vento, che trasmette al visitatore il senso dell’arcano, della natura che da sempre regola la vita dell’uomo, anche in questo angolo del Mediterraneo. Più le pietre del sito si avvicinano, affastellate in modo più o meno credibile, più o meno plausibile, più ho l’impressione di capire come l’uomo di cinquemila anni fa non fosse uno zotico primitivo, quanto una persona che, pur senza aver conosciuto il Cristo, né l’ebraismo, era sicuramente profondamente religioso, attirato dalle cose di lassù, che per lei era sicuramente sistemato a sud, oltre il mare, nel sole.
Ma ancor più impressionante è il camminamento lungo quasi un chilometro, interamente sistemato a lunghi gradini di pietra, che da Haġar Qim porta a Mnajdra. Impressionante, perché durante tutto il sentiero mantengo dinanzi ai miei passi il complesso templare, sullo sfondo del mare blu come un cielo, e del cielo blu come un mare, interrotto solo dal profilo cilindrico dell’isoletta di Filfla. Vedo un mucchio di pietre più o meno ordinate, ma in realtà colgo l’antropologica esigenza di comunione con la natura e con le forze che la regolano, in una prospettiva assolutamente armoniosa, olistica direi. Anche qui si respira Dio.

mercoledì 14 aprile 2010

Confusione in Kirghizistan


Mentre il presidente Bakiev si è ritirato nella sua Jalal-Abad, il quadrunvirato al potere a Bishkek esige le sue dimissioni. I rischi di guerra civile persistono. Diario d'un passaggio, estate 2009.

Di nuovo verso sud, seguendo laghi artificiali imponenti, come quello di Toktogul, il più grande tra quelli realizzati a partire dagli anni Sessanta, e che continua ancora ad essere migliorato, ampliato e controllato. Solo la diga di Kara-kol, squallido villaggio costruito in funzione della grande centrale idroelettrica, trattiene 19 milioni di metri cubi d’acqua portati dal fiume Naryn e dai suoi affluenti. Si capisce come la ricchezza principale del Kirghizistan sia proprio l’acqua, sia per l’irrigazione e il consumo domestico, sia per l’energia elettrica che produce coi suoi numerosi bacini artificiali, sia perché l’acqua è un bene geostrategico sempre più importante nella regione.

E si capisce come lo scorso anno sia scoppiato uno scandalo internazionale: il Kirghizistan s’è in effetti trovato privo di energia elettrica nel bel mezzo dell’estate, cosa mai successa negli ultimi decenni, perché le turbine delle centrali idroelettriche legate al bacino di Toktogul, e di quelli a valle, non “pescavano” più acqua, visto che il livello della superficie era calato inspiegabilmente d’una trentina di metri. Mistero mai risolto, ma la voce che circola è circostanziata: uno dei figli del presidente, responsabile della gestione delle acque in Kirghizistan, avrebbe ordinato l’apertura delle chiuse della diga di Kara-kol per far affluire più acqua nei fiumi che arrivano in Kazakistan e Uzbekistan. Guarda caso, dopo tanti anni i due vicini non hanno patito di cronica penuria idrica estiva, se non in misura infinitamente inferiore agli anni precedenti. In cambio il rampollo Bakiev avrebbe ricevuto per le sue spesucce personali, ovviamente impunito, la bellezza di poco meno d’un centinaio di milioni di dollari: l’ennesimo esempio della reale persistenza in Kirghizistan di un sostanziale sistema feudale, che fa capo ovviamente al presidente e alla sua famiglia, al suo clan.

Per il resto la strada è certo meno interessante di quella della prima parte del viaggio, che ha permesso lo scavalcamento della catena montuosa dello Tien Shan. Tuttavia, soprattutto attorno al bacino di Toktogul, si estendono per decine e decine di chilometri delle colline di creta dai profili ondulati e continuamente cangianti, colline ricoperte d’una peluria erbosa dalle tonalità fascinose, dall’azzurrino al verdino, dal giallo paglierino al rosa se non al rosso più intenso. È un incanto osservare il variare della scena, come se si arricciasse un favoloso tessuto di velluto dalle infinite sfumature.

Finché giungiamo, evitando la tradizionale incursione della strada maestra in Uzbekistan – non pochi sono i contenziosi al riguardo tra i due Paesi – rapidamente a Osh, la seconda città del Kirghizistan, mezzo milione di abitanti o poco più. Ora i cinesi hanno costruito una bella strada tra Jalal-Abad, la città dell’attuale presidente Bakiev, che arriva ad Osh passando per l’antica città di Özgön. Nulla di straordinario è accaduto nemmeno da queste parti, salvo il ricordo di tre notti di violenti scontri, nel 1990, tra uzbechi e kirghisi, oltre alla presenza di quattro gioielli dell’architettura di tradizione karakhanide: un minareto tronco, la cui cima probabilmente crollò in occasione di un disastroso terremoto del XVII secolo, e tre mausolei indipendenti ma collegati che giacciono poco distanti dal minareto, in una incantevole posizione aperta sulla valle sottostante.

lunedì 12 aprile 2010

Sary Chelec, il "sogno" dei chirghisi


Mentre il Paese centroasiatico ancora non ha ritrovato la sua calma totale, e la guerra civile non è stata ancora scongiurata completamente, pubblico un reportage scritto in uno dei luoghi più belli del Kirghizistan (agosto 2009).

Ho letto qualcosa sulla remota località della montagna chirghisa che mi accingo a raggiungere, quasi un’oasi di paradiso in una terra per certi versi inospitale. Un lago alpino, romantico e placido, incassato in una regione ricca di flora e fauna, come nessun altro posto in Kirghizistan. Anche nella capitale Bishkek al solo pronunciare il nome di “Sary Chelek” la gente s’apre in un bel sorriso e m’ invidia perché ho la possibilità di recarmi in quell’angolo beato del Paese, per giunta con la fortuna di essere accompagnato da una giovanissima donna originaria di un villaggio della valle, Kyzyltuu. È proprio da lì che comincia la mia avventura.

Nella modesta ma decorosa casa di proprietà di Meymanaly, padre della mia guida Meerim, bevendo tè verde e mangiando i piatti tipici di questa terra – il beshbarmak (le cinque dita, significa), sorta di zuppa di carne di montone e di pasta maltagliata, e l’osh, dell’ottimo riso fritto con carote e cipolle e mescolato con spezzatino di montone, il tutto spolverato con erba cipollina – ho letto nei suoi occhi, pur scurissimi, la profondità del suo amore, simile a quello di tutti i chirghisi, per un angolo del Paese di cui non solo possono andare fieri, ma che può ancora far loro sperare che da qualche parte il rispetto per la natura e per la vita umana in genere esista ancora. Il signor Meymanaly, consigliere dipartimentale, mi esalta qualità e ricchezze della regione di Sary Chelek: «Ci sono altri sette laghi nel parco nazionale, più di cento specie d’alberi, 35 mammiferi recensiti, un migliaio di vegetali e quasi altrettante specie animali. Un paradiso in terra». La notte, trascorsa dentro il parco nazionale, in una piccola guest house, ad Arkyt, gestita con sagacia e semplicità da un chirghiso e dalla sua numerosa famiglia piena di vitalità e di gioia contagiose, mi conferma le ragioni di un tale amore.

Alle sette del mattino si parte, dopo aver mangiato due uova sode e bevuto tè verde, serviti dalla dolcissima figlia del padrone, vestita di rosso scarlatto dalla testa ai piedi. L’aria è fresca, la gente è già nelle strade – pardon, nell’unica strada dei villaggi –, per prendere l’acqua dal torrente, per lavarsi, per spingere i vitelli al pascolo, per andare da qualche parte a cavallo. I bambini abbondano, tutti belli e sporchi, felici per la loro piena e libera infanzia in compagnia di batteri e microbi! C’è naturalezza nell’aria, e le mie attenzioni fotografiche ricevono un’accoglienza divertita e poi compiaciuta, addirittura solenne. C’è bella gente.

Il lago non è vicino: dall’ultimo cancello del parco, per far aprire il quale bisogna pagare, da stranieri, un cospicuo diritto di passaggio, si allungano altri dodici chilometri di strada sterrata, ben peggiore di quella che abbiamo percorso negli ultimi trenta. Ci s’inerpica per una valle che si stringe sempre più, senza tuttavia mai diventare un canyon, con una fresca apertura su panorami mozzafiato e una vegetazione ricchissima, che qui, a parole, viene protetta in modo rigoroso (corruzione permettendo), così come la fauna. Sulla strada incrociamo lepri, volpi e anche un capriolo. I campi sono abbandonati a sé stessi, ovviamente; solo alcuni sono dati in concessione e vengono falciati dai contadini locali con piccole falci antidiluviane. Ma i terreni lasciati al solo dominio della natura sono fioriti come non mai, di tutti i colori dell’iride. Le marchroutcha, i pulmini pubblici antidiluviani, non ce la fanno, la gente deve scendere e percorrere a piedi i tratti più ripidi e dissestati della strada. Ma le donne col foulard e gli uomini col cappello bianco decorato di fili d’oro non si lamentano. Avanzano.

Finalmente, scavalcando un passo, appare un piccolo lago; non è ancora la nostra meta, ma la sua tranquilla bellezza trasmette un’insolita serenità. Un’insolita pace. Si sale ancora seguendo un torrente assai impetuoso finché, anche se annunciati dalla sporcizia tipica della gente chirghisa – mucchi di bottiglie vuote e di bucce di anguria e melone –, finalmente appaiono i riflessi del lago che si risveglia ai primi raggi del sole. E l’incanto è allora immancabile. E ci si abbandona alla purezza dell’acqua, alle erte che salgono dallo specchio punteggiate di pini, abeti e noccioli, agli uccelli che sorvolano le brevi insenature, ai canneti che penetrano nel lago come onde verdi sulle onde turchesi, alle montagne innevate che a nord scendono dalla catena dello Chatkal Range.
E poco vale se più tardi mi accorgo che anche qui qualcuno ha costruito una sorta di dacia per i notabili del governo, con tanto di sauna e patio e molo. E se un’accogliente famiglia – che mi offre una colazione alla vodka – qui ha costruito una sorta di ristorante-ostello. E se il signor Meymanaly in persona ha voluto costruire una piccola moschea in mezzo al bosco…

venerdì 9 aprile 2010

Kirghizistan sotto sopra


Quest'estate ho fatto un viaggio nel Paese centrasiatico ora sconvolto da incidenti e disordini vari, con un cambio al potere traumatico. E' una regione povera di risorse ma geostrategicamente fondamentale negli equilibri della regione. Ecco quanto scrissi al mio arrivo.

All’aeroporto l’impatto è di quelli che colpiscono. Non tanto per gli aerei civili che sono stazionati nell’aerostazione, di compagnie quasi tutte sconosciute e decisamente di modelli obsoleti, quanto per cinque Hercules che stazionano nella pista, tutti grigi, tutti dell’Us Air Forse (in totale sono otto quelli qui di base, mi spiegheranno), e sullo sfondo ecco un altro bestione del cielo, un Antonov russo, colorato di bianco e d’azzurro, splendente. Anche questa è una guerra di immagini nell’infinita competizione tra russi e statunitensi. Dinanzi a Hercules e Antonov, tre o quattro aerei da trasporto d’evidente patente cinese, che scaricano merce. Ecco, forse, il riassunto della situazione politica kirghisa: la vicenda economica interna è quella che è, ancorata a modelli del passato e a feudi indistruttibili, mentre il governo cerca di tenersi buoni tutti, soprattutto le due grandi potenze mondiali tradizionali, forti della loro presenza culturale e soprattutto militare nell’Asia centrale. I cinesi, invece, non pretendono posizioni d’onore o di forza, ma solo di poter svolgere con libertà e senza troppi controlli la loro opera commerciale. Tra poco ci risveglieremo tutti cinesi!

Bishkek mi si annuncia forse non a caso della sorte. Una città aperta a tutti, certamente al commercio cinese ma non solo, con forti influenze russe, sia nell’architettura che nella tradizione geopolitica, e una potente attrattiva per la way of life americana, quella dei McDonald’s e dei polli fritti Ktc. L’Europa? C’è poco, anzi pochissimo, in qualche segnalazione di spettacolo, nei telefonini finlandesi e tedeschi (che però, a colpo sicuro, sono cloni provenienti dalla Cina) e sicuramente nelle buone intenzioni e nella cortesia degli ambasciatori.

È cresciuta lungo la grande arteria che taglia il Nord del Paese da Est a Ovest, Bishkek. La Chui è così il vialone dei palazzi del potere e di quelli del commercio, della cultura e della sicurezza. Un’eredità del tempo sovietico, che ha edificato a suo piacimento le capitali del suo impero senza tener conto più di tanto delle culture locali e delle tradizioni etniche. C’è la “Casa bianca” del potere – la gente non sa in realtà se sia la presidenza della repubblica o la sede del parlamento, e non fa nemmeno tanta distinzione tra le due, giusto per dare un’idea della coscienza poltica che vige in Kirghizistan e della realtà della gestione del potere – e c’è il Museo storico nazionale, il vanto primo di tutto un Paese, un grosso parallelepipedo di marmo e vetro che non promette nulla di buono.

Occupa un lato dell’immensa piazza Ala Too, dove sventola la bella bandiera nazionale kirghisa (che si fregia della stilizzazione della sommità interna di una jurta), costantemente custodita da due impettiti soldati in una gabbia di vetro (condizionata). Di fronte al museo, un improbabilissimo edificio di marmo e pietra, con due cupole del colore del bronzo che sin da lontano appaiono per quello che sono, cupole di latta. E in mezzo fontane spente (vengono accese solo verso il tramonto), nei cui bacini i monelli e le monelle della città (ma ho visto anche i loro genitori bagnarsi) si trastullano con massimo diletto. Sullo sfondo, costantemente presenti, anche se velate, le altissime montagne innevate dello Tien Shan, più particolarmente dell’Ala Too kirghiso


mercoledì 7 aprile 2010

Caucaso mai pacificato


Due giorni fa altri attentati mortali in Inguscezia, dopo le stragi delle ragazze-kamikaze nella metropolitana di Mosca. La regione cis-caucasica rimane un grande punto interrogativo. Estratti da un'intervista col prof. Sergei Markedonov, grande caucasista russo, che ho pubblicato sul mio libro "Sull'ampio confine. Storie di cristiani nel Caucaso" (Città Nuova 2010).

In uno dei miei passaggi a Mosca, ho appuntamento col prof. Sergei Markedonov, responsabile di Relazioni interetniche all’Istituto per le analisi politiche e militari di Mosca. Non lesina le parole, in un carissimo e rumoroso bar della capitale russa: una valanga di citazioni, fatti, opinioni e ipotesi. Il mio interlocutore – sulla cinquantina atletica – non ha timore di criticare il «regime di Putin», di stigmatizzare i comportamenti corrotti e corruttori di tanti presidenti locali, di definire come «pura verità» gli articoli di aspra denuncia della compianta Politkovskaja. È di ritorno dal Nagorno-Karabakh.

Nel fluire dei suoi discorsi emergono chiare linee di pensiero: «Non si può parlare del Caucaso in questo momento – esordisce – senza parlare delle masse di immigrati degli ultimi quindici anni. Ci sono ancora Stati sospesi nel vuoto, non riconosciuti da nessuno, con le frontiere in perenne discussione. I russi hanno scelto lo status quo nella regione, sperando che da esso possa nascere qualche soluzione più o meno definitiva. Ma sotto cenere e macerie le bragia sono accese, e basta un nonnulla perché l’incendio divampi».

Secondo Markedonov, la teoria di Huntington sullo scontro di civiltà riceverebbe una sonora smentita nel Caucaso, dove non solo le differenze etniche sono enormi, ma anche quelle religiose: sufismo e salafismo, ad esempio, hanno ben poco in comune. E la violenza nella regione non avrebbe solo matrici islamiche, perché talvolta sarebbero certi cristiani a commettere atti di violenza esagerata. «Prenda la strage di Beslan – mi spiega –: i musulmani ceceni e ingusci hanno colpito una città in prevalenza composta da musulmani, sapendo che nell’intera Ossezia del Nord sono solo il 10 per cento della popolazione. E tanti musulmani ceceni odiano i musulmani ingusci, mentre i cristiani ingusci parteggiano per i loro connazionali musulmani contro i cristiani ossetini! E il Daghestan delle 35 etnie? Sono al 90 per cento musulmani, con un 8 per cento di armeni e un 2 per cento di russi cristiano-ortodossi; ma tra musulmani le lotte tribali ed etniche sono all’ordine del giorno».

La frammentazione aumenta oppure avvengono delle ricomposizioni, magari anche solo per interesse? «Direi che non siamo ancora in presenza di una ricomposizione – mi risponde –. L’Islam cerca di fare da collante, ma con scarsi risultati. Un elemento che sembra tuttavia avvicinare un po’ tutte le etnie è la sete di giustizia. Potrà apparirle un elemento leggero, ma le assicuro che la gente non ne può più di funerali. Per i giovani, invece, il collante sta nei soldi da guadagnare ora e subito. Ma non si accorgono che, per poter stabilizzare la ricchezza al di là dei successi effimeri, c’è bisogno di stabilità politica. Giustizia e soldi sembrano così essere i nuovi elementi unificanti per la gente delle città e delle campagne; ma lo sono di meno per quella della montagna cecena e inguscia, che in maggioranza vorrebbe una repubblica islamica, seppur all’interno della Federazione russa. Una pia illusione, perché la costituzione russa non permetterà mai una tale stranezza istituzionale».

Qualche studioso, forse con una dose non piccola di idealismo, ipotizza la creazione di un unico “mercato comune caucasico”, che vada dall’Azerbaijan e dall’Armenia fino ai territori di Stavropol e Krasnodar… «Non dovrebbe esserci alternativa a questa prospettiva – acconsente il caucasista –. Ma sono pessimista sulla possibilità di raggiungere tale obiettivo. L’emergenza umanitaria è ancora il problema principale, così come il rispetto dei diritti umani. Non si può parlare di status di una regione se la gente non ha di che mangiare e non è sicura. Per raggiungere questi due obiettivi serviranno decenni, in cui si dovrà compiere un enorme sforzo per portare il sistema educativo a diffondere tra bambini e giovani le idee di rispetto dell’altro, di tolleranza reciproca. Due settimane fa in Inguscezia è stata uccisa una maestra cristiana russa, da 35 anni nella regione, assieme a due suoi studenti, perché non era né musulmana né inguscia. E al suo funerale una bomba ha provocato otto feriti».

Il regime di Putin e Medvedev come vede la situazione in Caucaso? «Dopo aver per anni dichiarato che la situazione era disastrosa e che l’Islam fondamentalista sfidava l’Occidente intero in quella regione – propaganda pura –, ora l’amministrazione Putin sostiene al contrario che tutto è sotto controllo. Certamente Kadyrov, il presidente-bandito ceceno, con le sue milizie ha messo a tacere tanti gruppi violenti. Ma lui e Putin sono dipendenti l’uno dall’altro: questi afferma che ha fatto tutto lui e che in Cecenia è lui a comandare; ma il primo è cosciente quanto Putin sappia che senza di lui la Cecenia rischia di piombare di nuovo nel caos. Per cui pretende privilegi crescenti. E non si sa dove finirà». E il popolo russo che cosa pensa della Cecenia? «I russi – conclude il prof. Markedonov – non amano i caucasici e li tollerano sempre meno. A Mosca, in particolare, il razzismo cresce ogni giorno di più: ogni settimana almeno un caucasico viene ammazzato da bande di giovani ubriachi, razzisti e nazisti».