martedì 28 luglio 2009

Diario di viaggio in Finlandia/7

2 giugno 2008. Helsinki, la città nel grigio.



Caffè-ristorante Kappeli, di nuovo, sulla celebre Esplanadi, costruito dall’architetto Dalström nel 1867. È una vera istituzione per Helsinki e per i suoi abitanti. Non tanto per la sua gradevole architettura, giocata tra legno e ferro, un po’ liberty, con qualche piccola sbavatura romantica, caratterizzata da amplissime vetrate. Nemmeno solo per la sua posizione dinanzi al porto di Kauppatori e alla statua della Fanciulla del mare, quanto per l’atmosfera leggermente rétro che si respira seduti sui divani e sulle sedie foderati di velluto bordeau un po’ andante, con le lucette art nouveau sempre accese, le statue bronzee piazzate al posto giusto per ingentilire le sale, le librerie sempre a disposizione dei clienti negli angoli più protetti, il tempo che qui è più generoso che altrove. In una giornata uggiosa – normalità a Helsinki, dovevo pur provarla in questa primavera millésime 2008 veramente splendente – non c’è luogo migliore per lasciar morire un soggiorno inondato dal sole e dai baci metaforici degli uccelli e delle donne finlandesi (attenzione a non sbagliare, i primi «pungono», le seconde «mordono», come dice un vecchio proverbio sami).



Ancora un giro al mercatino dinanzi al porto di Kauppatori, tra i banchetti che vendono fragole e lamponi, e tra deliziose venditrici di altrettanto deliziose ceramiche contemporanee; mentre commercianti non certo finlandesi s’appropriano, una dopo l’altra, delle vendite di souvenir “made in China”, tutto il mondo è paese. Le friggitorie oggi debbono combattere strenuamente coi gabbiani dall’insolenza assoluta. Nella vecchia hall del mercato, invece, si vende carne di renna seccata e salmone affumicato a freddo o a caldo, piatti nazionali e orgoglio di un popolo che ha saputo issarsi ai vertici – o quasi – del reddito pro capite dell’Unione europea. La Finlandia, ovviamente, non è solo renna e salmone, laghi e cottage. È anche Nokia e Raikkonen, umanità e tecnologia che si fondono. Il che, di questi tempi, non è poco.



Tutto si paga, è ovvio, anche a Helsinki. Ma qui, forse un po’ di più, per via del costo della vita, della natura del popolo, ma anche del trionfo del capitalismo maturato poco alla volta, per reazione al minaccioso comunismo sovietico. Che era così vicino così lontano. Forse c’entra pure un materialismo assai pronunciato. Ho conosciuto, giusto per fare un esempio, una donna sulla cinquantina, al cento per cento finlandese. Vive in una città-satellite della capitale, in un’abitazione medioborghese. Ha organizzato tutta la sua vita attorno a ferrei riti laici e atei: dal passeggino mattutino e serale assieme alla sua cagnolina bellina bellina, al lavaggio dell’auto non appena qualche spolverata di polline la ricopre; dal giardinaggio settimanale, con dovizia di spese e invenzioni banali, al bisogno di avere il frigorifero sempre pieno, anche se poi tre quarti del cibo finiscono gettati agli animali o nella spazzatura; dalle partite a golf, due volte al mese costa troppo, alla colazione domenicale sul bar del molo, che faccia bello o tiri vento; persino la programmazione di un viaggio esotico all’anno, deciso con almeno ventiquattro mesi di anticipo…






Una vita drammaticamente vuota, senza il minimo spazio non dico per Dio, ma per lo spirito. O per l’altro. Niente funzioni religiose – salvo qualche festa folkloristica con vaghe reminiscenze religiose, o forse piuttosto sciamaniche –, niente letture, salvo quelle dei giornali gratuiti scandalistici o di novità tecnologiche, niente musica decente, niente Sibelius, niente teatri-mostre-conferenze, nemmeno una sbronzatina che ogni tanto possa emancipare dall’ossessiva routine quotidiana. Sembra impossibile una tal vita. Eppure questa è l’esistenza della maggioranza dei finlandesi, come della maggioranza degli europei. Anche degli italiani. Forse aveva ragione Giovanni Paolo II: «L’Europa – diceva – ormai ha bisogno di una nuova evangelizzazione».

Diario di viaggio in Finlandia/6

Primo giugno 2008. Il castello degli architetti, Hvitträsk.


Ci sono di quei momenti in cui vorresti una cosa sola: startene isolato, sparire da quella parte preponderante della faccia della Terra dove si trovano altri umani deambulanti. Ma spesso sono proprio questi momenti di tedio – non riesco a definirli altrimenti – che possono riservare le sorprese più apprezzabili e apprezzate. Così m’accade dopo l’affascinante ma stancante visita al lago di Tuusula, alle case di tanti grandi artisti finlandesi. La nostra guida vuole a tutti i costi portarci a visitare – «dieci minuti, solo una goccia del vostro fiume di tempo», dice proprio così – un luogo appartato nella grande area di Helsinki, il sito chiamato Hvitträsk. Un nome quasi impossibile da pronunciare, ma in questo, almeno, interessante.



La storia del luogo è presto detta: nel 1896, tre giovani architetti – Eliel Saarinen, Herman Gesellius e Armas Lindgren – vengono designati dal governo per progettare il padiglione finlandese all’Expo di Parigi del 1900. Il successo è straordinario, universalmente riconosciuto. È il trionfo dello stile chiamato “nazional-romantico”. In una sorta di eccitazione creativa, umanamente ricchissima, decidono di trasferire il loro atelier dalla capitale in un luogo isolato, che domina il lago Vitträsk, il “lago bianco”, dalle parti di Kirkonummi. I tre decidono di edificare ognuno la propria abitazione, col solo vincolo dei principali materiali di costruzione: tronchi di legno locale e granito. Armas Lindgren progettò l’ala a nord del palazzo principale, collegato quindi a quello di Eliel Saarinen, mentre Herman Gesellius disegnò la Villa nera, di fronte ad esso. IL tutto a formare una corte adornata con tutti i fiori possibili ed immaginabili dal finlandese.
Il sodalizio, che pure aveva portato all’edificazione di qualcosa come settanta palazzi in tutta la Finlandia e anche al di fuori di essa, ben presto si sfascia: Lindgren ritorna dopo due anni a Helsinki, perché ha vinto la più importante cattedra d’architettura di Finlandia, e non vuole rinunciarvi; Gesellius non sta bene di salute, e morirà ben presto; Saarinen si trasferisce con tutta la famiglia negli Usa, tornando sul posto una volta all’anno, per due mesi, d’estate. Troverà anche il tempo di progettare nel 1919 una delle più straordinarie stazioni ferroviarie d’Europa, quella di Helsinki, appunto, quella coi quattro lucernari retti da tedofori impettiti che sono diventati uno dei simboli della capitale finlandese. Tutto granito rosso, s’il vous plaît.



Fin qui la storia, interessante nella sua esemplarità. E nella dimostrazione che la comunità artistica è un esercizio estremamente periglioso, ma con risultati talvolta stupefacenti. Come lo è indiscutibilmente Hvitträsk. Luogo che va abbordato con cautela, iniziando senza dubbio da una visita al “lago bianco” (meravigliosa la sauna progettata dallo stesso Saarinen proprio sul pelo dell’acqua). La natura è stupefacente, i boschi incantevoli: scorgo scoiattoli e camosci, volpi e cerbiatti. Raccolgo un nido per terra, un capolavoro d’architettura, fantasioso come nessuno potrebbe inventare, attraversato da strisce colorate, punteggiato da cerchietti candidi, da piume svolazzanti anche se incastrate al centro dell’incavo, intessuto di erbe secche profumate e dalle forme dettate dalla fantasia del creatore e delle sue creature volanti.
Ed è proprio questo piccolo nido che mi guiderà nella visita alla casa, ora museo, di Saarinen, perché nelle sue strutture e nelle sue decorazioni mi sembrerà di cogliere gli intrecci, i colori e le trame disegnate proprio del “mio” nido. L’edificio è un vero e proprio concentrato di straordinaria fantasia creativa, di attenzione al dettaglio, di naturalistico sforzo d’imitazione, di soluzioni architettoniche ardite, di vivacissime tonalità, di stufe maiolicate di grigio e di rosso, a scacchi, di verde e di azzurro, a losanghe, di viola e di rosso, oh il viola-rosso di Saarinen, lo si sogna anche la notte! E ricami affrescati ovunque e tessuti intrecciati nella stessa abitazione, nei sottoscala, nelle cantine, nelle terrazze, colori vivacissimi e forme che appaiono primitive, selvagge quasi, ma che in realtà sono il risultato del romanticismo architettonico finlandese, romanticamente debitore alla natura e alla sua chiaroveggenza. Al “mio” nido.



Salgo scale di legno che portano dove meno me l’aspetto, strette o larghe, scure o chiare, ora accompagnate da mancorrenti monumentali, ora ingentilite da decorazioni da bambole. Visito salle de bain che paiono salotti, e saloni di rappresentanza che paiono tinelli approntati per i bambini della casa. Le finestre: quadri naturalistici, ovviamente, sembra che siano dipinti di Halonnen, dettagli d’alberi, cieli e acqua che completano l’arredamento con un tocco di sbarazzino movimento, quello che dentro è solo suggerito dalla mobilità delle forme. I mobili paiono delle sculture, ma sono pratici; le librerie riempiono gli anfratti più inverosimili, rendendoli giganteschi. I luoghi più banali avvampano di senso.



Ma c’è finalmente da lasciare questo paradiso di aranci, di rossi, di verdi, di gialli. C’è da tornare a valle. Prima di partire – ultimo slancio d’ammiratore – risalgo di corsa su per le strette scale di servizio (o forse sono quelle principali?) per ritornare ancora una volta in un luogo che mi aveva toccato nel profondo, la modesta terrazza sommitale. M’aveva affascinato nella sua semplicità. Scatto una foto, un sola, l’ultima delle tante della giornata. La sera trasferisco le foto digitali sul computer. Mediocri, quest’oggi, non c’è dubbio. Tranne l’ultima istantanea, quella della terrazza. Il paesaggio lacustre è perfettamente a fuoco, alberi e acqua e cottage, inquadrato nell’apertura della terrazza ricavata nel tetto spiovente, uno squarcio rettangolare, con i vertici superiori smussati e la colonna di sinistra ricoperta di scaglie di abete bruciato dal gelo. Scopro con mia sorpresa che c’è tutta la Finlandia, in questa foto, la sua natura e la fantasia della sua gente.

Diario di viaggio in Finlandia/5

Primo giugno 2008. Tuusula, il lago degli artisti.

Che la cultura si concentri in certi luoghi, e non in altri, ha dello straordinario e del paradossale. Perché lì e non altrove, magari dove le condizioni parrebbero migliori? Perché certi artisti vi si sentono attratti ed altri invece no? Perché certi luoghi “ispirano” ed altri deprimono la creatività? Le risposte, ovviamente, sarebbero molteplici e in ogni caso precarie. Sta di fatto che, attorno a questo oblungo lago di Tuusula, una trentina di chilometri a nord di Helsinki, appena oltre l’aeroporto, si sono concentrati nei decenni numerosi artisti finlandesi, di diverse arti: pittura, letteratura, scultura, musica. Traevano ispirazione dal paesaggio più finlandese che esista, quello lacustre e forestale. Alle porte della capitale – ma all’inizio del secolo scorso Helsinki era distante non poco –, per poter respirare comunque ogni tanto il clima artistico della città, ma cercando nel contempo la vita isolata, tranquilla, al riparo dalle inquietudini politiche e belliche, concentrandosi sulla ricerca del «silenzio assoluto», come diceva Sibelius…

Le dimore di questi artisti non erano incollate le une alle altre, come ad esempio faevano gli artisti in un borgo toscano o andaluso o tunisino, ma distavano anche chilometri l’una dall’altra, per quella naturale riservatezza e quella “distanza antropologica”, quasi un bisogno di solitudine, che contraddistingue da sempre le popolazioni vicine all’artico, soggette a lunghi periodi di silenzio e di temperature gelide. La socializzazione, non a caso, si faceva spesso in quelle saune – mi raccomando, cari storici delle usanze umane, non sbagliatevi nell’attribuire l’origine di questa pratica agli svedesi! – di cui ogni abitazione in Finlandia deve essere fornita: il caldo favorisce l’avvicinamento, non il freddo… Attorno al Tuusulanjärvi, il lago di Tuusula, le case sono tutte costruite in legno, ovviamente, visto che la materia prima proprio non manca in Finlandia. Ancor’oggi, la gente di Helsinki costruisce i propri cottage estivi, che qui chiamano kesämökki, di legno, mentre nelle città ormai tutto è in cemento, acciaio e vetro. Villa Kokkonen, una dimora di principesca armonia, modernissima, opera dell’onnipresente Alvar Aalto, dall’altro lato del lago di Tuusula, pare fuori posto, salvo agli architetti incalliti di novità e sperimentazione. Qui il legno domina perché è materia prima d’arte, indispensabile per l’ispirazione dei personaggi che hanno abitato sui bordi di questo lago – uno degli infiniti laghi finlandesi, più di mezzo milione! –, perché è natura ma può anche essere artefatto e manufatto. Contraffatto, pure.

Qui hanno vissuto personaggi che per i finlandesi sono padri della patria, perché hanno preservato la cultura finnica dalle influenze e dalle dominazioni straniere. A cominciare da Alksis Kivi, poeta e romanziere, fondatore e codificatore della letteratura finnica, che qui trascorse gli ultimi dieci mesi della sua vita, depresso e sconfitto, come solo gli artisti sanno esserlo. Li passò in un minuscolo cottage, composto da due stanze di tre metri per tre, e da una sauna esterna, sauna da bambole. Certo, forse si potrebbe immaginare qualcosa di più degno per un artista del suo calibro; ma, a ben guardare, lo straordinariamente piccolo grazie al poeta è diventato lo straordinariamente grande. La piccola baracca di legno d’abete rosso, immersa in un bosco di abeti, larici e betulle, è assurta a incantevole luogo di elevazione spirituale. Naturale. Kivi, che qui morì nel 1872, fu l’antesignano delle frotte di artisti che poi sarebbero arrivati su queste rive vent’anni più tardi.

Un nome su tutti, Pekka Halonen, pittore che seppe diventare un grande dell’arte finlandese partendo dal nulla, dalla sua cultura contadina familiare di Lapinlahti. Per un periodo abitò in città, ma si sentiva inguaribilmente insoddisfatto, incapace di rappresentare quei tronchi, quei laghi e quella neve che “erano” la sua ispirazione prima. Così, su invito dell’amico artista, Juhani Aho, scrittore – aveva fondato in qualche modo la comunità di Tuusula sul finire del XIX secolo trasferendosi ad abitare nella parte nord del lago, in una elegante dimora bianca e gialla di nome Ahora –, cercò un luogo dove costruire una dimora grande e accogliente, a sua misura, immersa completamente nella natura. Comprò così un piccolo promontorio, una punta verde di cui si era innamorato durante una gita con l’amico Aho, in posizione quasi baricentrica al lago. Progettò la casa in abete rosso (il migliore, che fece venire dalla Finlandia centrale), con un enorme atelier centrale, attorno a cui ruotava la vita di tutta la grande famiglia composta anche dalla moglie, da quattro figlie e da quattro figli. Sul bordo del lago, poi, costruì una sauna incantevole. Dico costruì, perché in realtà lavorò lui stesso con le sue mani e con alcuni parenti abili carpentieri alla costruzione della casa. Ad Halosenniemi si trasferì nel 1902. La casa ora domina l’intero lago, non tanto con la sua mole nascosta dai pini, quanto con il suo spirito inguaribilmente positivo.

Fu più a nord che nel 1904 prese possesso di un terreno il maggior musicista finlandese, l’allora già notissimo Jean Sibelius, assieme alla sua famiglia anch’essa numerosa: la moglie, la dolce e forte Aino – Ainola si chiama in effetti la proprietà –, e le sei figlie (una era morta in precedenza). Fece progettare la villa da un celebre architetto d’allora, Lars Sonck, non lontano dalla proprietà del fratello della moglie, il pittore Eero Järnefelt. Sibelius vi dimorò fino alla morte, avvenuta nel 1957, mentre la moglie qui gli sopravvisse fino al 1969. In un luogo assolato e che gode di una bella vista sul lago, che i coniugi chiamarono “Rapallo”, memori di un lungo soggiorno in Riviera, sono sepolti sotto una lapide quadrata verde che riposta solo i loro nomi: a caratteri cubitali e stampati, Jean; a caratteri piccoli e in corsivo, Aino. È una casa bella, quella dei Sibelius, ricca di ricordi e citazioni, di libri e spartiti, dominata in tutto e per tutto da un piano a mezza coda, sui cui tasti Jean componeva le sue musiche, e una stufa verde pisello che campeggia – sfrontata quasi – al centro del salone-tinello di Ainola, in stile art nouveau. Perfezionista come pochi, sempre alla ricerca del silenzio più totale, il musicista provava di frequente istinti autodistruttivi: si narra che gettò in questa stufa verde la bellezza di otto sinfonie di cui non si diceva soddisfatto! Le note e la cenere, verrebbe allora da intitolare una biografia di Sibelius.

E poi l’elegante dimora del giramondo J.H. Ekko, poeta, scrittore e giornalista che scrisse molto dell’Italia e della Francia, proprio di fronte al minuscolo cottage di Aleksis Kivi; e, ancora, l’albergo azzurro, bianco e grigio di Onnela, dove dimorò a lungo il bohemien Eino Leino; o la bella dimora, a tu per tu col lago incantato, chiamata Suviranta, abitata dal fratello di Aino Sibelius, Eero Järnefelt; oppure la villa Syväranta, dove crebbe e morì la grande compagine femminile che sostenne la Finlandia durante la guerra, Lotta Svärd… E ancora e ancora. Arte chiama arte, verrebbe da dire. Certo, un luogo incantato, quasi fiabesco come le rive boscose del lago di Tuusula, pare avere avuto un “di più”, quasi una benedizione del Cielo e delle divinità che abitavano questi laghi sin dalla fondazione del mondo. Umana, naturale, cristiana bellezza.


L’immigrazione vista dalla Libia

Intervista con mons. Giovanni Martinelli, vicario apostolico a Tripoli. «Lavorare evangelicamente per risolvere i problemi drammatici di questa gente».

Mons. Giovanni Martinelli, francescano, è vescovo cattolico a Tripoli, lui, figlio di immigrati abruzzesi ancora negli anni Trenta. È uomo impegnato con tutto sé stesso nel dialogo con i diversi attori presenti sul terreno. La difficile situazione sociale e religiosa libica non gli fa paura, pur avendo spesso molta più coscienza della complessità della situazione rispetto a chi vive nella riva settentrionale del Mediterraneo. La sua comunità – da anni crescente, si può dire ogni giorno di più – è in pratica composta al 100 per cento da immigrati, in questi ultimi tempi soprattutto provenienti dall’Africa sub-sahariana. Gente che giunge in Libia nella speranza di poter poi proseguire in qualche modo il viaggio verso l’Europa. Ma non mancano numerosi immigrati provenienti da alcuni Paesi asiatici, in particolare le Filippine.

Le sue parole sulla faccenda delle carrette del mare respinte in mare verso sud sono schiette: «Gli immigrati rigettati verso le coste libiche sono dei poveracci, dei miserabili. Bisogna saperlo chiaramente. Tra di loro non ci sono banditi o delinquenti professionali, quelli prendono altre strade più comode per giungere in Europa, che sia chiaro. I libici cercano di accoglierli quando ritornano sulle nostre rive, ma i mezzi sono assolutamente insufficienti per riceverli con un minimo di decenza. Qualcosa si sta muovendo, l’Unhcr sta svolgendo un’attività encomiabile, ma bisogna fare di più, soprattutto a livello internazionale».

Mons. Martinelli vede una doppia valenza nelle relazioni italo-libiche: «Da una parte la cooperazione economica sta andando avanti e in modo anche positivo: in Libia si cominciano a vedere dei cantieri, anche grandi, aperti dalle nostre imprese. D’altra parte questa politica con gli immigrati non è condivisibile, per via del rispetto dei diritti umani verso questa gente che non ha documenti, che fugge situazioni drammatiche, che non ha nulla da perdere. Penso, per tutti, agli eritrei, alle donne eritree in particolare, che cercano di “salvarsi” in Europa. Non possono più tornare nel loro Paese. Sono veramente rifugiati politici, non si dovrebbe rimandare quaggiù».

L’azione della Chiesa cattolica va comunque avanti, non solo nell’assistenza sanitaria e giuridica data ai tanti immigrati clandestini provenienti dal sud, ma anche nell’assistenza ai carcerati: «Almeno una volta al mese, ma di solito più frequentemente, entriamo nelle prigioni libiche per incontrare i cattolici e i cristiani che sono stati incarcerati per i più vari motivi, molto spesso solo per avere commesso reati “di sopravvivenza” e non certo “di cattiveria”. Li raduniamo nel cortile, d’accordo con le autorità carcerarie, e recitiamo qualche liturgia, li ascoltiamo, li confessiamo. È un’azione ben vista anche dalle autorità. Solo per Natale abbiamo distribuito mille coperte nelle prigioni di Tripoli».

L’atteggiamento della popolazione e delle autorità non è a priori contraria alla Chiesa cattolica, tiene a precisare mons. Martinelli: «Bisogna sempre tenere presente che un atteggiamento che dà estremamente fastidio in questi Paesi nordafricani è il proselitismo. Per varie ragioni, che affondano ovviamente nella ferita coloniale non ancora rimarginata, non si tollera che qualcuno pretenda di imporre una fede diversa dall’Islam alla gente. La nostra presenza impegnata con i cristiani è aperta al dialogo e all'amicizia coi libici, che ci rispettano e che sanno bene che non ci sono intenzioni proselitistiche nella nostra azione. C'è invece disinteresse e cooperazione al servizio del Paese».

venerdì 24 luglio 2009

Diario di viaggio in Finlandia/4

31 maggio 2008. Le isole che proteggono la bellezza, ovvero l'arcipelago di Suommenlinna, che chiude il golfo della capitale Helsinki.

Dal porto passeggeri di Helsinki, Kauppatori, dominato dalla mole rossa della cattedrale ortodossa Uspenskin tuomiokirkko, e dalla più lontana silhouette bianca della cattedrale luterana Tuomiokirkko, salpo a bordo di un vaporetto stracarico di gente verso un piccolo paradiso – così m’è stato annunciato e così lo battezzerò anch’io –, all’imbocco della baia di Helsinki. Un quarto d’ora di battello, tra transatlantici e traghetti del Baltico, enormi gru da porto e piccolissime isole, una delle quali ha lo spazio appena sufficiente per ospitare una casetta rossa di legno (nel mio immaginario, quella dovrebbe essere la mia dimora finnica!). S’arriva al molo dell’isola di Stora Öster Svartö (Pikku Mustasaari, in lingua finnica), una delle isole Suommenlinna, cinque isole fortificate, che molto hanno significato nella storia della Finlandia. Costituiscono assieme – tranne la più piccola, sono tutte collegate da ponti arcuati – una delle più importanti e vaste fortezze marittime del mondo, distesa su 73 ettari di terreno. Oggi vi abita nemmeno un migliaio di abitanti, per la maggior parte dediti al turismo, ma anche al restauro delle navi antiche, alla manutenzione delle costruzioni, al giardinaggio…

La costruzione della fortezza iniziò nel 1748, ad opera del re di Svezia che dominava all’epoca da queste parti, e lo fece fino alla guerra del 1808-1809, anni in cui la Russia zarista divenne a sua volta dominatrice della Finlandia intera. Tutto ciò fino alla agognata indipendenza finnica, che arrivò, come si sa, solo con la Prima guerra mondiale, nel 1918. Poi, fino al 1973, le isole sono restate zona militare chiusa al pubblico, quando gli abitanti di Helsinki si sono finalmente riappropriati della sua bellezza. In realtà le isole erano sei, ma i russi vollero chiudere il canale che separava le due isole più meridionali, quelle di Vargön (Susisaari, in finlandese) e di Gustavssvärd (Kustaanmiekka). Il nome originario della fortezza nel suo complesso è stato per secoli quello svedese, Sveaborg, prima che nel periodo russo diventasse Viapori, trasformandosi poi nel finnico Suommenlinna. Nome che suona bene, è un buon viatico alla visita.

La passeggiata sulle isole – belle da morire! – è un’esperienza storica, bellica e mistica nel contempo. Con un tocco di gioiosa simpatia tutta finnica. Quella stessa che colgo nello sguardo dei due sposini che si fanno fotografare sui bastioni dell’isola di Lilla Öster Svartö (in finlandese, Pikku Mustasaari), pratica in uso da queste parti come a Roma si va al Colosseo o al Foro romano! La robe blanche della sposa brilla sullo sfondo delle mura rosse, blu, verdi, nere e ocra. La stessa gioiosa simpatia che si coglie nell’emozione di alcuni ragazzi con un bizzarro cappellino bianco da marinaretto, che indica come stiano festeggiando coi compagni vestiti di tutto punto, nei ristoranti dell’isola, la raggiunta maturità scolastica. E la sempre gioiosa simpatia dei mille e mille abitanti di Helsinki – quanti bimbi in carrozzella, che bel tasso di natalità deve esserci da queste parti! – che si godono il sole sui prati, sulle rive erbose e su quelle invece rocciose delle isole.

La bellezza del contesto è data anche dalle stesse fortificazioni, decisamente massicce nella loro costruzione, ma che vengono ingentilite dal loro modo di emergere alla luce, sbucando dalla verde e rigogliosa vegetazione per specchiarsi sulle acque blu dei canali calmi che separano le isole, o nel mare aperto che le attornia. Ma le fortificazioni vengono ingentilite anche dall’architettura delle vie interne delle isole Suomenlinna: dalle costruzioni militari di rappresentanza alle chiese dalla lunga e travagliata storia – prima cattoliche, poi ortodosse, quindi luterane –, dalle abitazioni in legno colorato delle diverse guarnigioni che si sono succedute nei secoli su queste terre emerse nel Mar Baltico alle baracche colorate di giallo dei cantieri navali. Tutto è restaurato con dovizia, anche se qualche tocco di abbandono e un briciolo di confusione (per carità, controllatissima!) rende l’ambiente d’una insolita familiarità e gradevolezza.

Le vie delle isole sono lastricate con un acciottolato che distrugge i piedi che non sono calzati con scarpe dalla suola robusta, e ciò porta a porre una grande attenzione alla deambulazione, scoprendo le infinite varietà di vegetazione che affiancano il lastricato. Finché, stremati dal sole caldo e dall’acciottolato, non ci si rifugia in un caffè, uno dei tanti, protetti da un ombrellone verde scuro, come le sedie e i tavoli, per armonizzarsi con la vegetazione verde chiara e col cielo che più azzurro non si può. Servono dolci al papavero e ai lamponi, assieme a birra e tisane, dipende dai gusti. E le cameriere sono biondissime e bellissime, come il latino che è in me non può non sottolineare. E arriva finalmente il momento di seguire mimeticamente le fortificazioni, di penetrare nei suoi sotterranei, di ammirare gli enormi obici che puntavano la loro potenza di fuoco tutt’attorno al mare, mentre la gente imita le lucertole sulle enormi pietre levigate che separano le mura dall’acqua. Tutto pare grande, qui, salvo il “Gate of Finland”, la porta del Paese, una modesta e graziosa finestrella…

Un vaporetto mi riporta infine verso la città. Lo skyline di Helsinki appare mobile, perché, oltre alle cupole delle chiese e ai loro campanili, alle ciminiere delle fabbriche e alle antenne televisive, alle torri ardite di qualche edificio sportivo, bisogna fare i conti anche con la mole e le ciminiere delle navi più imponenti, dei packboat per Tallin, Stoccolma e San Pietroburgo. Uno skyline che è metafora di una città vivace, mobile, mai ferma. Mai doma.


giovedì 23 luglio 2009

Diario di viaggio in Finlandia/3

31 maggio 2008. Helsinki, o della luce che non finisce mai. Una città che invita alla serenità.


È una giornata di sole straordinario – pazzesco mi verrebbe da dire, anche se l’aria è fresca –; una giornata che mi accoglie a braccia aperte per una girata nella capitale finlandese . Il sole da queste parti, in quest’epoca dell’anno, albeggia alle 3 del mattino, o anche qualcosa prima, cosicché c’è da abituarsi ad un’oscurità che non supera le 3-4 ore, al massimo. E che si ridurrà, tra un mese appena, a qualche minuto… Il tragitto del bus che mi porta nel centro di Helsinki – si giunge in una autostazione di straordinaria perfezione – è già un tuffo in questa zona del pianeta dove il freddo la fa da padrone per nove mesi all’anno, ma dove i tre rimanenti mesi sono una benedizione del Cielo. La costa frastagliata è ovunque incantevole, la vegetazione risulta d’un verde che non teme confronti con nessun’altra zona del mondo, forse solo con quelle tropicali, la mano dell’uomo è ancora abbastanza delicata, sapendo che su quest’immenso territorio – più grande dell’Italia – abitano “solo” cinque milioni e rotti di uomini e donne, con una densità ridotta, e quindi con un impatto ambientale proporzionato, limitato. La città non è certo antica – qualche muro può essere datato al XV secolo, muro in ogni caso non visibile –, ma ha un sicuro fascino, dovuto con tutta probabilità alla sua luce spettacolare, esposta com’è a sud, ma anche alla sapiente distribuzione degli spazi, delle vie larghe e verdeggianti, alla pulizia d’ogni angolo e alla onnipresenza del mare.

La stazione ferroviaria è liberty, e non è da poco, coi due suoi giganti che reggono le lanterne; meritano più di una foto, meritano un pensiero ammirativo per il loro padre Saarinen. E così il deambulare nonchalant per le vie del centro, in questo sabato assai deserte eppure belle e ariose e pulite, confortevoli. Il vento soffia birbante, fresco come da queste parti sa esserlo, ma porta con sé una giornata da urlo. Finché non si giunge alla quadrata piazza Senaatintori, la piazza del Senato, dominata dall’imponente mole della Tuomiokirkko, la cattedrale luterana, caratterizzata da una scalinata di una sessantina di gradini d’una verticalità pazzesca. Le foto, scattate da poca distanza, paiono immortalare nient’altro che un muro scanalato, scalinato. E sui suoi gradini la gente s’abbronza, si riposa, si bea, legge, pensa. In ogni caso non si deprime, perché quest’oggi, col tempo che fa, essere depressi vuol dire non essere nemmeno umani. Magari qualcuno pure beve, questo sì; ma un goccetto di birra o di vodka nazionale serve anche da queste parti, per raggiungere l’oblio di sé. La luce ha un angolazione tale – studiata? – che rende le scalinate totalmente assolate, senza nemmeno un centimetro d’ombra: da queste parti è un’eccezione.
E poi di nuovo il mare, coi battelli da diporto, le navi da crociera, i traghetti per la Svezia e la Lettonia e anche per la Germania, la cattedrale ortodossa – la Uspenskin tuomiokirkko – issata su una roccia levigata che poi culmina, dopo muraglie di mattoni di dubbia bellezza, nelle cipolle dorate delle sue guglie – una vera bellezza, invece. E sullo sfondo i rompighiaccio possenti e paurosi nella loro gigantesca mole, che però in questi ultimi anni operano pochi giorni all’anno, perché qui non fa poi così freddo d’inverno. «Cambiano anche qui le stagioni», dicono i pescatori al porto. E anche i commercianti e chi s’occupa dei turisti già abbondanti in questa primavera inoltrata. E poi, sul molo di Kauppatori, ecco il mercatino di cui tutti hanno letto meraviglie nelle guide turistiche, dove si comprano souvenir e fiori, dove si scambiano oggetti di poco valore e dove si gustano alla sauvette i pesciolini infarinati e fritti che tanti succhi gastrici diversi sanno stimolare, accompagnati da patatine novelle croccanti, una delizia, mentre i gazebo arancioni proteggono gli avventori dalla voracità ardita dei gabbiani. Gli uccelli creano un concerto a volte ossessionante, e non esistano a rubare pesciolini fritti e salmone scottato alla griglia dalle mani stesse degli avventori che incautamente non consumano le loro prelibatezze sotto le tende colorate d’arancio.
Questo mercatino s’esaurisce verso l’Esplanadi, la via più nota, la più commerciale e affascinante della capitale finlandese. S’esaurisce morendo di passione nella fontana Havis Amanda della Fanciulla del mare, bellezza che è diventata il simbolo della città, come a Bruxelles lo è il mennekenpis. Ma subito dopo, se si è riusciti a sfuggire al fascino della ragazzina bronzea, si soccombe all’invito della terrazza inondata di sole del ristorante forse più antico di Helsinki, il Kappeli, dove una birra piccola – si fa per dire – prepara al rush finale. Cioè la navigazione a vista in quella meraviglia che è l’Esplanadi stessa, curiosamente composta da due strade parallele inframmezzate da un parco dove trovare una panchina disponibile è qualcosa di proibitivo, in una giornata assolata e prefestiva come oggi. Sul viale fanno capolino gli edifici progettati dai migliori architetti finlandesi, banche e saloni di alta moda, librerie straordinariamente ricche e ristoranti da 300 euro a pasto. È la strada del design, quello finnico, quello che tutti invidiano, quello che sa inventare forme originali e armoniche assolutamente improbabili. Forme che apparentemente non hanno nulla a che vedere col passato, ma che in realtà sono diretta filiazione delle tradizioni lapponi, ovvero sami, come si dice da qualche tempo. Le sorprese del design qui in Finlandia le si trovano un po’ ovunque, e lasciano immancabilmente a bocca aperta: che siano le barriere antirumore di un’autostrada, che sia la forma del bicchiere della birra che hai ordinato alla terrazza d’un caffè del porto, che sia il banco della biglietteria del vaporetto, o ancora la ringhiera di una scalinata del parco pubblico…
E la luce continua ad accompagnare ogni gesto, ogni pensiero, ogni sguardo, ogni preghiera. Sì, a Helsinki si arriva a pregare, perché la luce che qui scende non abbia a morire. Mai.

mercoledì 22 luglio 2009

Diario di viaggio in Finlandia/2

Espoo, la città satellite, tra mare e boschi, punteggiata di edifici di alta architettura...

Sono alloggiato da amici, in una villetta a schiera ad una ventina di chilometri dal centro di Helsinki, verso ovest, sulla costa meridionale della Finlandia. L’abitazione appare modesta e curata, seppur con dettagli un po’ kitsch: angioletti di gesso in giardino, stampe su papiro di provenienza turistica egiziana, sdraio del color delle viole… Ma la sorpresa gradita arriva nella passeggiata serale, nelle serate di giugno che non finiscono proprio più, che riducono le notti a poche manciate di minuti di un’oscurità mai totalmente tenebrosa.

Dapprima la città appare un vasto concentrato di villette – che seguono i caseggiati popolari, che non raggiungono mai, tuttavia, più di quattro piani – immerse nel verde, con una viabilità straordinaria, che permette alle auto accessi funzionali ma molto limitati, premiando sempre e comunque la viabilità dei pedoni. Finché, inebriati di verde, s’arriva d’improvviso al mare, placido, ancora baciato dal sole primaverile, solcato da qualche natante appena un po’ pazzerello e chiuso nel suo orizzonte, in diversi punti della costa, da isole e isolotti che sembrano immancabilmente dover ospitare casette bianche, rosse o verdi di rara bellezza oleografica. Si respira pace e serenità, in questa serata tiepida – qui la considerano addirittura calda – senza essere afosa.

Lungo la costa si ergono abitazioni di un insolito livello architettonico, tutte bianche o quasi, fornite di vetrate talvolta quasi sproporzionate, progettate per catturare tutta la luce possibile nei lunghissimi mesi invernali, quando le giornate divengono brevi squarci ritagliati dentro la notte. Paiono tutte costruzioni mutuate da Saarinen, Gesellius e Aalto, architetti e artisti, senza tetti, senza imposte, senza inutili orpelli: ricche solo di forme, belle forme geometriche che contrastano con le linee arrotondate della costa e della vegetazione. Sulla rada le barche sonnecchiano tramortite dal beccheggio e dal caldo della giornata, raffreddando progressivamente le loro superfici plastiche e lignee, preparandosi all’umidità notturna che qui non manca mai, o quasi.

martedì 21 luglio 2009

Diario di viaggio in Finlandia/1

Roma-Helsinki-Espoo, 30 maggio 2008

Il mare e i laghi, i boschi e le architetture avveniristiche. La terra finnica ti regala quiete e speranza.

Atterraggio frettoloso L’arrivo con l’aereo in Finlandia è di quelli che non si possono non ricordare. Perché, dopo aver sorvolato le coste delle tre sorelle baltiche – Estonia, Lettonia, Lituania, anzi, nell’ordine contrario –, la discesa verso Helsinki pare un tuffo in un mare che non è mare, ma acqua che ha stretto un trattato di pace con la terra per spartirsi equamente le superfici disponibili, lasciando tuttavia alla follia d’un geografo celeste il compito di distribuire i territori all’uno e all’altra. Cosicché la giustezza delle ripartizioni appare dall’alto un disegno armonico, verdi promontori e azzurre baie che s’inseguono e s’apprezzano, che lottano e si riconciliano. Che si amano alla follia, appunto. E perciò vorrei non atterrare più, e sorvolare tutta la Finlandia da sud a nord, da ovest ad est, a bassa quota, sfiorando le cime degli abeti, dei larici e delle betulle prima di sbucare sopra le acque blu che più blu non si può d’un lago, d’uno stagno, d’un mare racchiusi in scrigni verdi.

Il pilota ha invece fretta d’atterrare; siamo in ritardo e i finlandesi non amano certo esserlo, anche se ovviamente la colpa ricade sugli aeroporti romani, non certo sulla Finnair! Ha fretta d’atterrare, e lo dimostra con un’operazione di landing assai poco tranquilla. Più ci si avvicina alla terra, più i dettagli dell’abitato tradiscono la perfezione che qui gli uomini, imitando quella della natura, vogliono realizzare con le loro mani. Ma debbono fare i conti con la follia dell’irraggiungibile geografo celeste; e così la perfezione geometrica di architetti e urbanisti deve sposare le forme di isolotti, baie e rive, cosicché m’immagino atterrare in un mondo dove perfezione e imperfezione si sposano infine. Mi viene alla mente un nome, uno solo: Alvar Aalto, primo in tutte le liste della gente famosa, del Who’s who, per via certo delle due a del cognome, ma soprattutto per la sua folle genialità che lo ha portato a mettere assieme quello che non si potrebbe mai mettere assieme. L’acqua e la terra (con la mediazione del cielo delle aurore boreali). Con risultati sorprendenti.

lunedì 20 luglio 2009

Contro il pessimismo e la rassegnazione

In una recente conferenza pubblica a Bellaria, m’è stata posta una domanda: «Prevalgono nei media il pessimismo e la rassegnazione. Che effetto potrebbe avere invece la divulgazione di notizie dal forte contenuto positivo?».

Effettivamente, ho risposto, il meccanismo dell’audience, spinto alle sue estreme conseguenze in tempi di crisi delle inserzioni pubblicitaria e di abbandono progressivo della tv generalista, provoca il trionfo dello scandalismo (oggi la mania degli anglicismi parla di gossip), della drammatizzazione delle notizie, della spettacolarizzazione di tutto, anche del dolore. La “legge delle quattro esse”, cioè sangue, soldi, sesso e salute (con la riserva più positiva di una quinta esse, quella dello sport) domina su tutti gli schermi, e anche sulla carta. C’è da dire che è immensamente più facile scrivere o girare una notizia scandalistica o drammatica: di solito le notizie positive non hanno lo stesso impatto immediato, non creano il medesimo pathos, bucano meno lo schermo. E vista la progressiva accelerazione della richiesta di notizie, ecco che i poveri colleghi preferiscono per pochi euro sfornare notizie a getto continuo non proprio positive. E quelle che vorrebbero essere tali, il più delle volte sono frutto delle pressanti richieste di chi ha il potere in mano. Basta analizzare un tiggì per costatarlo. Tuttavia, di fronte alle richieste che salgono dalle platee virtuali e reali di mezzo mondo, o di tutto il mondo, media anche importanti – CNN in testa – qualche spazio alle buone notizie lo lasciano, magari relegati in pagine interne o in fasce orarie improbabili. Non vengono impiegate molte energie, ma qualche sforzo va segnalato e incoraggiato.

Il fatto è, però, che noi stessi giornalisti siamo impreparati a questo compito: le scuole di giornalismo non contemplano di solito materie come “tecnica della buona notizia” o “fenomenologia delle good news”. E così tanti colleghi si ritrovano non solo a far fatica a trovare della “cronaca bianca”, come viene anche chiamata questa branca negletta del giornalismo, in opposizione a quella nera, ma addirittura non sanno bene che cosa sia una “buona notizia”. Un servizio pubblico che funziona lo è? Un aborto evitato? Una scoperta scientifica che permette di curare una malattia prima incurabile? Un imprenditore che non paga il pizzo? Un politico che evita di firmare una legge che lo avvantaggia? Una pena di morte non eseguita? E via dicendo.

Di per sé tutte queste sono buone notizie, e ritengo lo siano per la stragrande maggioranza dei giornalisti. Ma come raccontarle? Ho la fortuna di dirigere Città nuova, una rivista specializzata in buone notizie, ma anche in cattive notizie raccontate con spirito costruttivo, mai distruttivo. Ebbene, vi assicuro che gli sforzi che mettiamo in atto per essere credibili non sono da poco. Serve tempo, fantasia e costanza. Ma alla fine ci si riesce. Proporrei perciò di istituire nei corsi di giornalismo un corso intitolato “Storia e tecnica del giornalismo in positivo”. Vediamo se qualche decano mi ascolterà.

(pubblicato sul sito di NetOne, il 6 maggio 2009)

venerdì 17 luglio 2009

Open space

I modi di lavorare nel giornalismo evolvono. Bisogna saper fare molte cose assieme.

MI SONO RECATO A MADRID per presentare la traduzione spagnola del mio libro Cristiani nelle terre del Corano (vedi il sito dell'editrice Città Nuova). Un momento di richiamo culturale, grazie alla presenza di uno dei maggiori esperti di cultura islamica al mondo, Justo Lacunza Balda. Nell’occasione sono stato intervistato da Ivan de Vargas, che lavora per il settimanale Alba (sito Alba), di cui è caporedattore. Il giovane e promettente collega mi ha fatto visitare la sede del gruppo editoriale cui appartiene la rivista, chiamato Intereconomía.

LA VISITA MI HA IMPRESSIONATO, non tanto per le pur ragguardevoli dimensioni del gruppo – 500 tra giornalisti, registi, operatori, amministrativi… – quanto per il fatto che in pratica nel gruppo non esiste un solo giornalista dedito a un unico compito. O meglio, un solo giornalista il cui lavoro abbia come “supporto” solo la carta, o solo la radio, solo la tv o solo il web. Sono tutti giornalisti “multimediali”. Nei grandi open space di Intereconomía si lavora febbrilmente ma con relativa serenità, guidati da una dirigenza indubbiamente abile. I set del tiggì sono piazzati in mezzo alla sala dei giornalisti, i “radiofonici” escono dai loro studi di registrazione per curiosare tra i computer, i “cartacei” sforano sugli “internauti”.

È INDUBITABILE: la comunicazione mediatica è già multimediale. Ciò potrà provocare arretramenti nella specializzazione dei singoli, è vero. Ma chi nasce con l’iPod in mano e gioca naturalissimamente al computer e smanetta su qualsiasi apparato digitale che gli capiti a mano non può che essere portato alla “multimedalità”. In attesa dell’incipiente “intermedialità” (media che usano altri media e che si scambiano funzionalità varie) e della futura “transmedialità” (media che sono concepiti al servizio di tutti i media). Con gli operatori a salvaguardare la dimensione umana di tali mezzi. Sempre più umana, malgrado le apparenze.



(Pubblicato sul
sito di NetOne il 06/07/09).

giovedì 16 luglio 2009

Cecenia, Gaza, Afghanistan: storie di violenza e di fraternità

Guerre e scontri nel mondo islamico? Ci sono, eccome. Ma non è solo colpa dei musulmani. Serve un "patto di fraternità" fra i popoli.

La giornata di ieri, 15 luglio 2009, non è stata delle più felici nel mondo islamico. Mentre in Iran cadeva un Tupolev (foto) della Caspian Airlines, facendo 168 morti (la violenza dell'incuria di tante compagnie aeree della regione coniugata con gli imperativi della concorrenza), cresceva la denuncia di oppositori al regime di Ahmadinejad condannati a morte per reati comuni assolutamente inventati, come lo spaccio di droga.

Una cinquantina di soldati israeliani, poi, denunciava il comportamento del loro esercito nella vicenda della striscia di Gaza (nella foto le distruzioni dell'ultima guerra lanciata dall'esercito israeliano), delle distruzioni gratuite, delle violenze che avrebbero potuto essere evitate. La denuncia nasce dall'Ong "Breaking The Silenze", rompendo il silenzio. Viene anche denunciato l'uso da parte dell'esercito israeliano di scudi umani. Dice uno di loro: «Ho capito che era meglio sparare e poi fare le domande».

Cecenia, altro lutto eccellente. Ammazzata Natalia Estemirova (foto), militante per i diritti umani nella regione, erede spirituale (e pratica) della giornalista Anna Politkovskaja. Non a caso aveva ricevuto il 5 ottobre 2007 il primo premio in ricordo della giornalista della Novaja Gazeta, conferitole a Londra dalla "Raw in War". Sequestrata sotto casa, è stata ritrovata massacrata. Il presidente Medvedev s'è detto «indignato» ed ha ordinato un'inchiesta spietata «per chiarire tutta la verità». Ma il rischio è il silenzio sulle malefatte delle tante milizie locali, e del presidente-combattente, Ramzan Kadyrov.

Ancora, in Afghanistan, mentre se ne va in Cielo un altro soldato italiano, continua l'offensiva delle truppe di terra alleate, mentre i talebani usano armi sempre più potenti e sofisticate, che non si capisce da dove vengano. In Libano salta per aria un deposito di munizioni nel Sud presidiato dagli italiani. E Al Zawahiri invita alla jihad in Pakistan e Afghanistan. In Iraq (foto) scoppia l'ennesima autobomba con corteo di morti (sette) e feriti (sedici). E in Siria vengono condannati dodici oppositori.

Così la cronaca dell'ordinaria follia della violenza. Ma in realtà ci sono anche segni positivi. Se per l'Afghanistan Obama parla già di exit strategy, e meno male, in Egitto parole positive per la pace vengono dalla riunione della conferenza dei Paesi non allineati. E in Libano si cerca di avere una certa intesa nazionale nella formazione del governo di Hariri figlio, mentre c'è chi cerca, come Muhammad Nokkari (nella foto), di stabilire addirittura una festa nazionale mariana interreligiosa.

Accanto alla necessaria denuncia delle violenze e dei soprusi nel mondo musulmano, ma senza rinchiudersi nella memoria corta di un mondo occidentale che ha tante e gravi colpe nelle ingerenze indebite nella zona, appare sempre più evidente come solo un grande afflato basato sulla fraternità fra le persone e fra i popoli (nella foto la Cittadella del Cairo) possa riportare la serenità e la pace nella regione che va dal Mediterraneo orientale al Caucaso, al Kashmir e al Golfo Persico.

Quella fraternità a cui Benedetto XVI (nella foto a Betlemme nello scorso maggio) richiama quasi in ogni passo della sua ultima enciclica. Quella fraternità universale che Chiara Lubich ha propugnato per decenni nella sua lunga battaglia terrena. La fraternità portata da Gesù Cristo ma possibile ad ogni uomo, perché iscritta nel patrimonio di cultura e di religione dell'umanità intera. La fraternità sintetizzata nella "regola d'oro" presente in tutte le grandi tradizioni religiose del mondo: «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te».

Proprio sessant'anni fa, il 16 luglio 1949, Chiara Lubich strinse con Igino Giordani, politico e uomo di cultura, cristiano impegnatissimo nell'affermazione del ruolo del laicato nella Chiesa e nella società, un "patto" di radicale fraternità, che portò poi a un lungo periodo di intuizioni mistiche (ne parleremo nel prossimo numero di Città nuova). Ecco, perché non proporre un "patto di fraternità" anche ai Grandi di questo mondo? Così come tanti Piccoli stanno facendo da sempre.






martedì 14 luglio 2009

Aforismi sul viaggio/2

Ancora sull'eterno viaggiare, nelle anime e nelle terre di questo mondo.




Padova. Il reportage è un viaggio, il resoconto di un viaggio che in alcun modo deve diventare scusa per fare la morale al lettore. Non può nemmeno scivolare in una triste enumerazione di paragoni col conosciuto. Talvolta si soccombe alla tentazione di sostituirsi agli storici, talaltra ai geografi, ma queste sono solo piccole cadute di stile. Perché il reportage è semplicemente il resoconto di uno spirito che incontra il diverso da sé, senza cacofonie o scorciatoie.

Chengdu. Più che in altri momenti della mia vita, alla vigilia del mezzo secolo, mi trovo a trascorrere un capodanno lontano da casa, lontanissimo, nello Xinijang cinese, che poca gente al mondo in realtà conosce. Provo una certa nostalgia di casa, io che nomade lo sono di natura. Stanzialità tardiva. Strano, forse invecchio. O forse questo sentimento è un invito a cercare di stabilizzarmi, a viaggiare di più nel mio cuore. Con serenità, con calma.

Praga. I voli low cost stanno democratizzando il turismo, offrendo a viaggiatori prima insospettabili mète sconosciute e conosciute. Cresce la confusione, forse anche la villania e la rozzezza dei costumi della gente; ma nel contempo non si può condannare un fenomeno che apre l’umanità alle bellezze del pianeta.

Budapest. Credendo di non soccombere alle intemperie di una vita piena di angosce, si ritirò a viaggiare, in modo da fuggire al nodo scorsoio che gli avvolgeva il collo.

Nanchino. Salire verso l’azzurro, forando la cortina di nubi, non è solo un volo in aereo ma l’esperienza del superamento dell’umana contingenza, sperando che la novità sempre nuova della ricerca di senso della vita porti all’approdo.

Milano. L’omologazione, diretta conseguenza della globalizzazione, appare nell’abbigliamento, nei gadget, nelle automobil e nei ristoranti. Questo ristorante spagnolo potrebbe essere siciliano o greco o turkmeno, se non fosse per le note della musica. Gli inservienti sono colombiana lei, argentino lui.

Attacchi alle chiese di Baghdad

Anche la sua è stata attaccata, questa volta, il 13 luglio 2009. Un luogo di culto modesto, quello di mons. Salomone Warduni, vescovo ausiliare dei caldei per Baghdad. Quattro i morti.

Vi ero stato nel maggio 2003, nell'immediato dopoguerra. Ecco quanto avevo scritto dopo quella visita: «Warduni sta celebrando la messa vespertina, assieme alla comunità parrocchiale, presenti un centinaio di persone. Colpisce il raccoglimento dell’assemblea, la sua straordinaria capacità di attenzione per quanto si svolge in una liturgia che, probabilmente, è più simile a quella dei primi secoli del cristianesimo che non a quella della Chiesa cattolica romana. Riconosco l’edificio di culto, già visto in tivù ai tempi della quaresima, trascorsa dai cristiani di Baghdad come in tempi di guerra: la prima parte in attesa del conflitto e la seconda sotto le bombe (ma la Pasqua è caduta al termine delle ostilità). Un’architettura povera e recente, arredata con decori sia orientali, sia legati all’iconografia cattolica».

Nell'intervista che era seguita, Warduni mi aveva detto cose che oggi, a sei anni di distanza, suonano ancora terribilmente vere: «Gli statunitensi sono arrivati, secondo quanto dicono i loro dirigenti, per liberarci, per mettere la pace nella nostra nazione. Ma adesso noi viviamo nell’insicurezza. Ho saputo che ieri, davanti al patriarcato degli assiri, due o tre giovani sono scesi da una macchina, hanno fermato il patriarca e gli hanno strappato la croce d’oro che portava al collo. È per questo che ora porto anch’io una croce di legno… Si sente raccontare di banditi che obbligano i proprietari a scendere dalle proprie macchine per impossessarsene, se non li ammazzano direttamente. Poi vendono le auto a gente che va verso il nord, e da lì verso l’Iran o la Turchia…».

Ma le sue non erano state solo geremiadi: «Noi guardiamo al futuro, al di là delle sofferenze che si patiranno ancora a lungo, specie qui a Baghdad. Abbiamo fatto sapere a tutti i responsabili – siano essi curdi, arabi sciiti e sunniti, o americani – che noi desideriamo la pace e l’unità del popolo, che in primo luogo si deve mettere ordine nelle strade, che bisogna costituire un governo degli iracheni per gli iracheni, perché è già un gran miracolo che una nazione, grande come l’Iraq, in questa situazione pur tragica, non sia ancora esplosa».



venerdì 10 luglio 2009

Xinjiang, il blog-detonatore

Gli scontri di Urumqi sembrano essere nati da un equivoco. Forse voluto.


Lo stallo nella regione più occidentale della Cina, lo Xinjiang, è assai complicato. La precipitosa marcia indietro del presidente Hu Jintao, che ha rinunciato al G8 de L'Aquila per riprendere sotto controllo la situazione, dicono la gravità della situazione. Il fatto è che Tibet e Xinjiang, considerati da Pechino territori indispensabili per l'integrità del territorio cinese nonostante siano i territori più vasti ma meno popolati del Paese, non hanno ancora dato prova di un'integrazione voluta ma forse imposta troppo violentemente dalle autorità cinesi. Tibetani e uyguri non hanno perso le loro specificità. Tutt'altro. Nonostante la massicia immigrazione degli "han", i veri cinesi. Nonostante il governo centrale abbia investito enormi fondi statali per le infrastrutture delle due regioni, elevando quindi indiscutibilmente il livello di vita delle popolazioni locali.



Il paradosso, che ora emerge con dovizia di particolari anche dalle agenzie cinesi legate al regime (come Xinhuanet) è che la scintilla che ha provocato il bagno di sangue, con la morte di centinaia di manifestanti di parte uyguri e di numerosi han vittime delle violenze del gruppo etnico di originie turca, era un bluff. Lo stupro di una giovane han (Huang Cuilian, di Guangdong, 19 anni) da parte dui due giovani uyguri in una ditta di giocattoli non è mai avvenuto. Ma un equivoco (forse ricercato) dovuto alle grida di questa giovane che si era sbagliata di porta, fomentato a dire il vero da una forte tensione interetnica tra i dipendenti uyguri e han appunto nella ditta di giocattoli di Guangdong, ha portato un giovane a pubblicare un post su www.sg169.com il 16 giugno che titolava "Sei ragazzi dello Xinjiang hanno violentato due giovani innocenti nella fabbrica di giocattoli Xuri". Apriti cielo!



Ciò mi sembra dover portare a due riflessioni. Prima: gli scontri di Urumqi sono il risultato di una fortissima tensione interetnica irrisolta nello Xinjiang, che ha enormi riflessi politici ma non religiosi, se è vero che una falsa e in fondo piccola notizia ha dato fuoco alle polveri. Seconda riflessione: le potenzialità del web hanno una valenza doppia: possono fomentare la legittima rivolta di un popolo alle prese con un regime totalitario (vedi le manifestazioni di Teheran), ma possono anche scatenare violenze inaudite e in fondo immotivate. Bisogna riflettere sulle enormi potenzialità della Rete, ma anche sulle sue pericolose derive. Un dibattito che la società civile ha intrapreso da tempo e che va portato avanti con coraggio (vedi ad esempio NetOne e RsF).

giovedì 9 luglio 2009

Xinjiang, l'Islam hui di Ma An Tai



A Urumqi nel gennaio 2008 ho incontrato un imam cinese al 100 per cento. La tradizione hui è spesso in contrasto con quella degli uyguri. In questi giorni le differenze sono esplose. Le parole di dialogo dell'imam Ma An Tai erano sincere, e non volevano mettere il dito sulle tensioni che pur esistevano con gli uyguri. Problemi, come si costata in questi giorni, soprattutto etniche e politiche, molto meno religiose.





Vicino alla chiesa cattolica c’è una delle moschee più originali che abbia mai visto: sembra un tempio buddhista, o più ancora confuciano. L’architettura delle costruzioni che formano un cortile – la più antica, la moschea vera e propria sembra avere poco più di due secoli – è assolutamente non differenziabile da altri luoghi di culto delle varie religioni cinesi, se non fosse per la modestissima mezzaluna che si nota sul tetto, sullo sfondo di una serie di recentissimi grattacieli che sembrano far corona (o minacciare, dipende dai punti di vista) l’insieme del complesso della moschea.



Questo luogo di culto, in effetti, appartiene alla denomnazione musulmana “più cinese” che esista, quella degli hui, musulmani rimasti per secoli fedeli al Corano e al Profeta, ma anche alle leggi prima dell’impero e poi della repubblica cinesi.
Accanto all moschea, c’è la scuola coranica per i bambini e l’abitazione dell’imam riconosciuto da tutti, l’anziano Ma An Tai, settantaseienne, presidente della Chinese Muslim Association, che parrebbe un Confucio reincarnato, anche nell’aspetto semplice, dimesso, dalla barbetta cilindrica piccola e ben curata sotto il mento.



Ci accoglie con grande cordialità, anche senza capire bene chi sono e cosa voglia. Si parla della sua famiglia, dei due figli e delle due figlie, della mia profession, della festa dell’Eid, e si sbocconcella la solta treccia della festa assieme a pistacchi e mandorle. Uno dei suoi figli s’accomoda accanto a noi, giovane e attento, scruta ogni nostro movimento. Quando gli chiedo un’intervista me la concede subito, ma non dinanzi alle telecamere: «Per questo deve chiedere il permesso al governo», mi spiega. È fermo nella sua decisione, anche se accetta di farsi riprendere a microfono spento dalla telecamera.

Mi presenti la sua comunità musulmana.
«Sono 10 milioni i musulmani nello Xinjiang, la maggior parte nel sud della regione, in particolare attorno a Khasgar, accanto al Pakistan. Ma anche qui a Ürümqi la comunità non è piccola, contando circa mezzo milione di persone, la metà della quale della tradizione hui. Sono circa dieci le diverse tradizioni musulmane presenti nel Paese sotanzialmente parallele alle diverse etnie che lo popolano».

Quali sono le relazione con gli altri gruppi etnici del Xinjiang che si riconoscono nell’Islam?
«Le culture e le origini di questi gruppi sono diverse, ma tutti crediamo nell’Islam, nel Profeta, nell’Unico Dio. È questo il collante, e nessun altro. Siamo diversi ma ci rispettiamo e collaboriamo insieme. Ci si rispetta nelle diversità, e quindi non c’è ragione per scatenare conflitti particolari. La pace, natura dell’Islam, ci unisce, e così anche le leggi della Cina, che ci obbligano a considerarci tutti eguali, e quindi ad evitare inutili discussioni su chi è il migliore».

E i rapporti coi cristiani?
«Certamente abbiamo molte differenze, sia religiose che culturali, ma conflitti evidenti non ci sono, e nemmeno sotterranei, credo. Conosco ad esempio il vescovo cattolico, mons. Xie Ting Zhe e ci vogliamo sinceramente un gran bene. Pochi giorni fa abbiamo dato testimonianza comune dell’armonia che ci lega nel corso di un’affollata conferenza».

Lo sviluppo economico che anche qui sifa sentire, che influssi ha sulla fede dei musulmani, e dei credenti in genere?
«Certamente l’influsso è positivo. Pensi solo al fatto che nella contea di Ürümqi ci sono ben 3 mila moschee. Lo sviluppo economico ci ha permesso di ristrutturarle, di abbellirle, di ingrandirle. E così tanta gente viene più volentieri a pregare. La stessa cosa penso valga per le altre religioni, per il buddhismo e il cristianesimo in particolare».

Cosa risponde a coloro che dicono che l’Islam porta al terrorismo, alla violenza e alla sopraffazione?
«Dico semplicemente che tutte le religioni, e certamente anche l’Islam, sono contro ogni forma di violenza e in particolare contro il terrorismo. Nessuna religione è contro la vita, tanto meno l’Islam. I comandamenti dell’Islam sono chiari a questo proposito: non si può iuccidere e uccidersi, se non per motivi estremamente gravi. Il terrorismo usa i segni della religione, ma non è religione».

Quali sono le relazioni con musulmani dei Paesi confinanti, nei quali spesso s’è infiltrato il fondamentalismo?
«Quasi nessuno. Noi siamo cinesi e musulmani, e questo ci basta. Certo, siamo solidali con tutti i musulmani del mondo, ma noi rispettiamo le leggi dello Stato».

Che cosa pensa dela shari’a?
«Non c’è contrasto tra la società islamica e le leggi dello Stato. Possiamo usare i principi del Corano e della shari’a per gestire la comunità islamica e i raporti tra i suoi membri, ma qualora si apra un conflitto con le leggi dello Stato, ovviamente ueste ultime prevalgono. Ma i contrasti sono veramente pochi, gliel’assicuro».

È un msulmano felice, imam An Tai?
«È il periodo migliore della vita dei musulmani in Cina, senza dubbio. La politica sta aiutando lo sviluppo della religione. Ad esempio, quest’anno 3200 musulmani dello Xinjiang hanno potuto recarsi alla Mecca, cosa impensabile solo alcuni anniaddietro».

Un desiderio?
«Quello di poter svilupparsi come gruppi religiosi, anche di religioni diverse, e di vivere insieme nella libertà, in accodo con le leggi dello Stat. Un grande avvenire è dinanzi a noi, allora».

Usciamo con l’imam proprio quando decine di membri della sua comunità stanno avviandosi verso la moschea. L’imam ci concede di riprendere alcuni momenti della orazione comunitaria. Salutandomi, mi bacia e mi augura «un futuro di pace nella memoria del profeta Gesù Cristo». Scusate se è poco.








mercoledì 8 luglio 2009

Il G8 elevato da Benedetto XVI e da Obama

Due leader che ci fanno pensare. L'etica del fare ha bisogno di un'ascesi del pensiero per portare frutto.



Una regia indiscutibilmente sapiente ha portato il papa a far uscire la sua enciclica economico-sociale in coincidenza con il G8 de L'Aquila. Al di là della portata culturale e dottrinale del testo, emerge assai fortemente la costatazione che il nostro pianeta, orfano di grandi figure come lo erano stati a loro modo Giovanni Paolo II, Gorbaciov, lo stesso Clinton... non può fare a meno di uomini e donne che richiamino il pianeta a "pensare alto" e ad "agire coerentemente" con il proprio profondo sentire. Benedetto XVI ha presentato la sua visione di un'economia solidale e giusta, dettata dall'amore. E quest'appello, in epoca di crisi economica, non può non essere ascoltato dai grandi di questo mondo.

Accanto a lui il primo presidente nero statunitense appare anch'egli una figura di alto profilo, scevro da ogni pettegolezzo, intento - nel discorso del Cairo, così come nei colloqui moscoviti - a rifondare le basi della convivenza civile mondiale. Ci fanno pensare papa Ratzinger e Barack Obama. Esercizio periglioso e nel contempo ormai merce rara. Stritolati come siamo dalla necessità di arrivare a fine mese o intenti a comunicare senza sosta su twitter e facebook, spesso dimentichiamo cosa voglia dire pensare, quanto sia necessario pensare prima di agire.

L'etica del fare ha bisogno di un'ascesi del pensiero per portare frutti buoni e duraturi.

martedì 7 luglio 2009

Sangue a Ürümqi

Capodanno 2008. Pecore ammazzate in un mercato della capitale dello Xinjiang. Sotto la cenere l'insoddisfazione degli uyguri. Forse la rivolta.


Non distante dalla piazza centrale della città, dalla grande e imponente moschea presidiata dai soldati cinesi, vengo attirato da un movimento improvviso della folla, scomposto, e da un improvviso clamore indistinto. Mi avvicino, è un mercatino dove si vendono i montoni che ancora non sono stati venduti per la festa dell’Eid, qui chiamata Kurbah.





Marchiati da una pennellata rosa funesta, greggi trattenute dai pastori paiono terrorizzate dalle grida degli animali che vengono sgozzati sul posto, su un terrapieno in cui si mescolano giaccio, terra e residui della lavorazione della macelleria ambulante. In una grossa terrina cola il sangue dalle gole squarciate di tre o quattro pecore che ancora scalciano mentre la vita sfugge loro dalle vene recise.




Il rosso intenso del sangue pare raggelarsi e sbiadire, mentre il liquido fumante si coagula, e disegna sinistre ellissi d’emoglobina. Accanto a questa scena macabra, un uyguro corpulento e baffuto squoia le povere bestie ancora calde, getta il pellame in un mucchio candido striato qua e là di rosso, appende le carni ricomposte a grossi ganci anneriti di ruggine e depone testa e corna in un lercio carretto.




Tutt’attorno giungono gli avventori a scegliere le loro vittime, prima che siano sottoposte al ciclo della macellazione. Gli allevatori infilano mazzette di banconote insanguinate nelle loro tasche più profonde nei loro pastrani lerci e consunti. Nell’aria c’è violenza e c’è naturalezza. La vita degli allevatori è questa. Allevatori uyguri, musulmani, che vengono dalle campagne povere dello Xinjiang, che patiscono un'imperfetta "armonia sociale" alla cinese.


Sono queste bestie che una volta bollite adeguatamente in acqua e sale, con l’aggiunta di poche spezie, prenderanno dimora provvisoria sulle tavole imbandite dei musulmani, dove saranno gustati pezzo a pezzo da parenti, amici e conoscenti, sbocconcellati alternativamente ai filamenti delle enormi trecce zuccherate che sono il panettone dello Xinjiang. Una volta venivano messe fritte e messe poi al forno in ogni famiglia, ma oggi questi dolci è più comodo comprarli già nei supermercati.

Sulla tavola imbandita, montone e treccia sono circondati da pistacchi, mandorle salate, arachidi arrostite, mandorle dolci, mandarini e mele, dolci e frittelle d’ogni tipo, fichi secchi, ciambelle, caramelle e cioccolatini, creme e va passa, la specialità della regione, marmellate e pani vari, biscotti. Per tre giorni si fa festa attorno a queste tavole, simili nelle diverse case, in una convivialità che unisce etnie e religioni diverse, ricchi e poveri, credenti e atei. La tradizione attorno a queste tavole imbandite è il simbolo di una terra che, pur cntando tredici etnie, sette paesi confinanti, una dozzina di lingue diverse e otto religioni, ha saputo mantenere una sua convivenza. Che la Cina intera rispetta e in fondo anche ammira, finché non esplode per gli eccessi di un regime di polizia.