giovedì 26 maggio 2011

Cojimar, il vecchio e il mare

Cuba: dove il "mojito" diventa romanzo. Qui Hemingway scrisse il suo più celebre libro. Aprile 2011.

Mi aveva detto un carissimo e competente amico letterato argentino che per capire Cuba bisognava almeno visitare il luogo dove Ernest Hemingway aveva scritto Il vecchio e il mare, perché così avrei intuito almeno un po’ quel che può trattenere qui a Cuba uno straniero, e uno straniero che vive di cultura. Così, guidato da un ingegnere meccanico che fa il tassista per sopravvivere decentemente – il salario come ingegnere sarebbe di 18 dollari al mese –, passo dalla troppo turistica Habana Vieja all’improvvisa campagna cubana che, all’avvicinarsi del mare, diventa un incanto di banani e palmizi, e di altre essenze tropicali. Alle fermate degli autobus s’accalca una folla incredibile: non ci sono mezzi per assicurare corse regolari, per cui la gente si piazza lì anche ore ed ore in attesa di un qualche bus che possa avvicinarli alla città. Ma non c’è il minimo segno di nervosismo, tutti aspettano con nonchalance e, direi, con sano fatalismo senza il quale sarebbe difficile sopravvivere.

La cittadina è composta di villette a un solo livello: qualche modesto arricchito s’è avventurato a sopraelevare di un livello la sua casetta, con risultati di solito poco piacevoli. Qua e là si scorgono abitazioni precedenti alla Rivoluzione, tutte o quasi in sfacelo, eppure ancora fascinose di polvere e decadenza. C’è poco d’altro lontano dal mare, solo casette e polvere e bambini sbizzarriti. “La terrazza” è il bar-ristorante dove Ernest Hemingway amava trattenersi a bere e, talvolta, a scrivere. Traeva ispirazione dalla vita dei pescatori, che qui venivano a bersi il loro rón al termine del lavoro, ebbri di sole e salsedine, cansado di pesca e di miserie casalinghe. Qui fantasticavano, qui lasciavano che la brezza marina scompigliasse i loro pensieri, èportando loro l’umidità e gli odori della piccola cala dove l’acqua marina amava prendere un momento di riposo. Qui aspettavano la notte, serviti dai cubani dalla pelle scura e dagli abiti bianchi come le nuvole. Oggi à rimasto poco di tutto questo, il locale è pulitissimo (e caro), sulle pareti fanno bella mostra di sé dei trofei di pesca – pesci impagliati, come da noi si fa coi cinghiali o coi cervi – e le foto in bianco e nero di Ernest Hemingway in tutte le pose, soprattutto assieme a Fidel Castro.

M’avvio verso la spiaggia, o per meglio dire la piazza della cittadina che degrada verso il mare e la piccola fortezza che i soldati cubani sembrano voler difendere fino alla morte. Di fronte c’è un piccolo monumento neoclassico – Hemingway sarebbe inorridito nel vederlo, o forse no –, che racchiude un busto del nostro eroe, voluto e realizzato dagli stessi pescatori di Cojimar. Ma quel che pare assolutamente autentico sono i ragazzini e le ragazzine che sguazzano nello specchio d’acqua antistante la piazza, che amoreggiano naturalmente, che adescano altrettanto naturalmente l’estraneo che io sno, che si abbandonano al loro gioco preferito, l’indolenza. Un gioco fantastico e pericoloso. Ernest Hemingway ci lasciò le penne.

lunedì 9 maggio 2011

Gaza, la prigione più grande del mondo


Hamas e Fatah si sono messe d'accordo per costituire un'unica entità. Perché le rivoluzioni arabe premono, e perché la Striscia è uno scandalo. Riparliamone.

Attraverso la città. In un mercato mi fermo a scattare qualche foto. La merce c’è, in mucchi più o meno regolari, ma ancor più della merce sembrano numerosi i venditori e le venditrici, spesso dinanzi a mucchi striminziti di due patate o tre zucchine. Asini come sempre ovunque. I giovani stanno al gioco delle foto, alcuni almeno; poi arriva un barbuto di Hamas e mi allontana. Le indicazioni stradali sono totalmente assenti, se non conoscono le strade è inutile cercare di orientarsi. Le donne sono quasi tutte coperto dallo hijab, mentre sono poche quelle col viso totalmente coperto. Ma il trucco delle giovanissime dice bene che nella cultura palestinese gli eccessi a cui chiama Hamas e la sua dottrina filo-iraniana non sarebbero contemplati. Le moschee sembrano gli edifici messi meglio in tutta la città: alcune sono state ricostruite, altre edificate ex novo, spesso con finanziamenti provenienti dall’estero. Gli ospedali ci sono, e i medici pure, ma mancano le medicine, talvolta persino le garze e l’elettricità; e le ambulanze non hanno nemmeno l’ossigeno, e ancor meno strumenti per la rianimazione. Qui è meglio non ammalarsi! Sono tantissimi i giovani che vedo a spasso per la città apparentemente senza occupazione alcuna. In effetti, mi confermano, la disoccupazione raggiunge vette impressionanti, e chi è laureato non ha quasi nessuna possibilità di trovare un lavoro adeguato ai suoi titoli. Così si inventano occupazioni improbabili, o di pochissimo beneficio. Le università sono numerose e piene, così almeno i giovani si occupano, ma con prospettive misere. L’illuminazione stradale è totalmente assente, o quasi; sono le lampadine dei pochi negozi aperti che permettono di orientarsi. È facile capire come la vita notturna di Gaza City sia praticamente ridotta a nulla.

Ahmed, il mio autista, è puntualissimo. Tre o quattro colpi di clacson, ed eccomi in macchina. Direzione mare: appare all’orizzonte di una lunga discesa. Dinanzi si erge una costruzione scarnificata, che ha tutta l’aria di un moncherino eretto verso il cielo a ricordo di una guerra disumana. Era un palazzone di una decina di piani. Alla sua base giacciono grovigli di tondini mostruosi; quel che rimane del cemento armato dopo le sottrazioni delle pietre e del cemento che vengono triturate e riciclate per costruire o ricostruire. Il mare è bello, azzurro, solcato da un paio di barchette di pescatori. Sulla spiaggia decine di uomini rovistano nelle rovine o raccolgono un po’ di legna per casa. Il porto fa tenerezza, con due o tre traghetti piegati su un fianco sulla battigia. Una cinquantina di piccoli pescherecci fa loro da corona. Qualche pescatore vende pesci ancora guizzanti: «Non è pesce buono – scuote la testa Ahmed –, perché l’acqua da queste parti è infetta». Forse patisce un riflesso dell’offesa ricevuta e dell’impossibilità di considerare il mare come una via di fuga, una porta alla libertà, un orizzonte aperto. A Gaza anche il mare è un muro.

Poi la peregrinazione, quasi un pellegrinaggio, ai luoghi del vuoto, dove cioè la distruzione della guerra. Ha colpito nel 2008. Ormai la quasi totalità delle macerie è stata rimossa. Mi consentono di scattare qualche foto nel sito dove si ergevano quattro ministeri, tra cui quello degli Affari Esteri. Non restano che gli archi d’entrata, orfani di ogni senso. Tre o quattro guardie stanno a guardia del nulla. Sui muri, ovunque, la fantasia popolare – ma soprattutto la propaganda di Hamas e, una volta, di Fatah – espone la protesta contro Israele, la sofferenza del presente e la rivolta contro l’umiliazione. Anche i muri delle università e della sede dell’Onu sono dipinti nella quasi integrità. Ovunque poliziotti, quasi sempre appiedati, imbracciano armi che anche ad un occhio inesperto come il mio appaiono obsoleti. E ovunque sventolano le bandiere verdi di Hamas, l’onnipresente partito-potere-resistenza che tanti amano alla follia, ma che altrettanti detestano cordialmente. Un regime per le cui mani tutto passa, in una corruzione che assomiglia tanto, ormai, a quella dei nemici di Fatah, e all’esempio di tanti regimi del mondo arabo che stanno crollando uno dopo l’altro. Il tassista Ahmed è totalmente disilluso, anche da Hamas: «Morti Rabin e Sadat – mi dice – la pace s’è allontanata, e chissà quando tornerà. Qui non abbiamo più illusioni, viviamo per bere e mangiare, e basta».

Una presenza ormai usuale a Gaza e in tutta la Striscia è quella degli asini e dei muli. Ce ne sono ovunque, è l’unico sistema di locazione il cui prezzo sale giorno dopo giorno. In alcune vie del centro di Gaza City il loro transito è stato addirittura vietato, per non intralciare il traffico, peraltro mai intenso di questi tempi. Le auto sono ridotte in malo modo, sgangherate è dire poco. È raro vedere una macchina con il parabrezza integro: quello del nostro taxi ha tre fori da pallottola… La benzina che viene dall’Egitto è a buon mercato, ma è cattiva; quella israeliana è carissima, più che in Italia, anche se la sua qualità è buona. Le attività nella Striscia sono assai precarie e limitate, e si sorreggono solo sulle merci in arrivo dai tunnel verso l’Egitto, a Rafah e dintorni. Le botteghe appaiono sfaccendate, immancabilmente c’è gente seduta fuori dalla serranda in attesa di ipotetici clienti che hanno poco o nulla da spendere.

Nel city tour ci avviciniamo alla frontiera con Israele, a sud di Erez. Il quartiere che attraversiamo, uno dei più colpiti dalla offensiva israeliana del 2008, è ridotto male. Non c’è casa che non conservi tracce dell’assalto: i rosari degli impatti delle pallottole fanno ancora impressione. Al termine del quartiere, già in aperta campagna – una terra verde e fertile, ma trascurata come poche –, c’è quello che chiamano il “cimitero dei martiri”, in realtà uno dei cimiteri di Gaza nel quale sono stati sepolti molti dei mille morti dell’attacco israeliano. Poi fabbriche e depositi, greggi e asinelli, trascuratezza e pressapochismo. Mucchi di ferrovecchio e di macerie, silos di cementifici che trovano la loro materia prima nella distruzione: «Viviamo solo con lo spirito di Dio», mi dice Ahmed, cercando di superare un avvallamento del terreno riempito d’acqua piovana, ieri mattina caduta assai copiosamente. La desolazione dei campi verso Erez fa spavento: mucchi di detriti o di terra, alberi lasciati senza cura, coltivazioni sommarie… carretti trascinati da asini e muli, donne piegate su qualche mucchietto di sterpaglie, case mai terminate, in ogni caso mai intonacate.

La polvere è ovunque, la penna che scivola sulle pagine del mio taccuino scricchiola. Non potrò mai dimenticare i sentimenti di prigionia che si vivono a Gaza. Assediata. Ma anche i sentimenti di squallore, di precarietà, di incapacità organizzativa, di sospensione e di fatalità. Porto nel mio cuore gli abitanti della Striscia.