martedì 27 novembre 2012

Sutri, etruschi ancora vivi



Nella cittadina laziale si respirano i millenni. Affastellati

Non sappiamo, noi italiani, quante ricchezze siano sparse sul nostro territorio, ovunque. Pare che l’Unesco abbia calcolato che quasi due terzi delle opere d’arte esistenti nel mondo abbiano dimora nel nostro Belpaese. Abbiamo troppe bellezze sul nostro territorio al punto che non abbiamo il tempo di conoscerle e apprezzarle. Mi capita di pensare a tutto ciò allorché transito sulla Cassia, tra Roma e Viterbo. Mi fermo per una pausa a Sutri, borgo che è difficile dire di che epoca sia: basti pensare che, definita “città antichissima”, conta mura megalitiche sopra le quali sono state costruite altre mura nel VII secolo a.C. e poi altre ancora nel 310 a.C….
Il centro del borgo, issato su uno sperone di tufo, è gradevole e accattivante, con le sue fontane e i suoi palazzi ben restaurati, ma in fondo non è particolarmente originale. Sì, la cattedrale dell’Assunta ha sembianze tardo barocche, anche se la sua anima è romanica, con una cripta da urlo, otto navatelle con una miriade di colonnine diverse… Sì, la “piazza-salotto”, quella del Comune è intima e fraterna, bella ed elegante, pare un tinello predisposto per cocktail e ricevimenti a tutte le ore. Sì, una torre medievale, quasi abbandonata, svetta ardita e impertinente. Ma l’interesse di Sutri, che è posta sulla via Francigena, sta alla base della città, letteralmente. Sì, perché la base dello sperone tufaceo è traforata dai locali agricoli, ma anche e soprattutto da un gran quantità di tombe rupestri, dal IV secolo a.C. in poi.
Ancora più importante è il parco archeologico di Sutri, appena più in là del paese, attorno ad un secondo sbuffo di roccia porosa, che ospita non poche sorprese, a cominciare dallo splendido ipogeo della Madonna del parto e dalla necropoli. È nell’anfiteatro – piove, tira vento e l’umidità pare trasudare da ogni pietra – che i sentimenti più profondi paiono venire alla superficie: i gradoni sbozzati dell’anfiteatro a forma ellittica del VI-V secolo a.C. raccontano una civiltà, quella etrusca, che è morta anagraficamente, ma che vive nel sangue di questa gente, rimane nella bellezza della giovane donna che sfiora le pietre del portale d’ingresso, così come nella vecchiaia dolorosa del vecchietto che vende funghi porcini all’incrocio per Carbognano.

lunedì 19 novembre 2012

Carbognano, vino e inchiostro



Nella Tuscia alla ricerca dei borghi appollaiati sugli speroni di tufo.

I borghi della Tuscia viterbese hanno il fascino sottile di una natura superba che ricopre col suo mantello la superficie tufacea, tenera, che pare un territorio bombardato: forre, dirupi, falesie, pinnacoli. Carbognano è uno di questi villaggi appollaiati su uno sperone di tufo. Qui anche la storia fece il suo corso: nel Mille dipendeva da Farfa, mentre nel Medioevo fu contesa tra signorotti locali (Anguillara e Di Vito) e lo Stato pontificio. Nel 1962 Pio II concesso il paese al conte Cristoforo di Carbognano. Con Alessandro VI il borgo passò alla bella Giulia Farnese, moglie di Orsino Orsini e amante del pontefice. Con Urbano VIII divenne principato sotto i Colonna. 

È una giornata che s’annuncia di tempesta. Ma, come spesso accade nei dintorni di Roma, le previsioni nei fatti vengono smentite. E così la giornata è si movimentata, sì ventosa, sì incerta, ma comunque straordinariamente luminosa. Dopo un girovagare festivo senza meta – fantastica pardita di tempo –, giungiamo in uno dei tanti borghi appollaiati sugli speroni rocciosi della zona, Carbognano appunto. Cerchiamo un ristorante, non se ne trova traccia. Nella piazza della chiesa dedicata a San Pietro apostolo, del XVIII secolo neoclassico, su una parete si scorge uno strano conglomerato che si nrivela composto da pentole d’alluminio affisse al muro, tra rampicanti e fiori, oltre ad una vecchia cassetta della posta rossa: è l’annuncio pubblico dell’esistenza de “La locandina di Bacco“, un piccolo ma delizioso ristorante in cui, sembra, si mangia e si beve in allegria, in compagnia, in simpatia. L’interno appare subito curato, caldo, in qualche modo chic e rustico nel contempo. Ma è al completo. Insistiamo, finché proponiamo al ristoratore – barba bianca, piccolo chignon e una grande affabilità – di prepararci un tavolo all’esterno, sulla terrazza, visto che il tempo appare leggermente più clemente di quanto annunciato; persino il sole pare squarciare l’aria tersa e fresca per scaldare le nostre membra e rianimare cose, persone ed edifici.

Poi è il festival dei sapori e degli odori, semplici, accompagnati dalla premurosa attenzione dello chef, il signor Mauro, che suggerisce senza mai imporre, sottolinea senza mai parafrasare. Si comincia con un carpaccio di vitello con funghi porcini e lonza con pinoli, radicchio e arance, per proseguire con delle gavinelle (rustiche fettuccine) al ragù di cinghiale e giubilare con una tagliata di manzo croccante ancora ai funghi porcini, finendo quindi con un dessert che combina panna, castagne, cioccolata, meringa e crema in una composizione artisticamente discreta e gustativamente straordinaria. Il vino? Un “Veste Porpora” della Tenuta Ronci di Nepi, un Igp di 13 gradi e mezzo: un nettare «del color della porpora – leggo –, con sentori di frutti rossi e di spezie. Al gusto è morbido, rotondo con tannini fusi che conferiscono una lunga persistenza». L’apoteosi è una goccia di grappa bianca e morbida, di Sangiovese, versata nella tazzina del caffè ormai consumato. Poi si vive di ricordi e di retrogusti tornando docilmente verso casa, osservando il verde fresco e bagnato della Tuscia fuori dai finestrini. Qualcosa di simile alla pacificazione, se non alla pace.

martedì 13 novembre 2012

Moní Aretíou, l’oasi in mezzo al fuoco



Viaggio a Creta/4 - Le sorprese del "fuori pista", fuori cioè dai circuiti battuti dal turismo.

Creta orientale. Dopo una commovente visita all’isola-lebbrosario di Spinalónga, risalgo con la mia piccola auto dalle gomme lisce la montagna alle spalle del borgo marino di Pláka, mentre un vero fortunale si abbatte sulla regione. Gli ulivi si tingono di verde cupo più che d’argento, battuti come sono dalle violente raffiche di vento che fanno sbandare la fragile scatola di latta che mi sta portando verso Occidente. Qua e là appaiono gli scheletri di quelli che furono mulini a vento, mentre sullo sfondo delle onde marine imbiancate si mostrano le silhouette dei mulini a vento del XXI secolo, le pale eoliche che generano elettricità a basso costo economico, ma con un forte impatto ambientale. Sono brutte!
D’improvviso il sole squarcia le nubi, che pure permangono una minaccia, creando un infinito luccichio che rende gli ulivi d’argento, l’erba un manto di velluto zigrinato, i muretti di sassi un supporto ocra alla creazione. Finché non giungo verso la sommità della montagna, in una zona colpita la scorsa estate da gravissimi incendi, di cui ancora si parla nella zona. Avanzo, tornante dopo tornante, in una sorta d’inferno dantesco che, illuminato dalla luce tersa dopo la pioggia, accentua ulteriormente la potenza di morte della scena: il nero appare ancora più oscuro, gli scheletri degli alberi e degli arbusti paiono mani bruciate che gridano la loro rabbia al sole.
Dopo aver scollinato, mi par di scorgere qualche tornante più in basso un ciuffo di verzura che brilla di luce propria. M’avvicino, è il monastero di Moní Aretíou, un piccolo cenotafio nel quale vivono un paio di monaci anziani. Entro, il cancelletto di legno è aperto. Non c’è anima viva, ma ogni cosa sembra vivissima, ravvivata dalla luce del sole cristallina sullo sfondo blu e nero del cielo. Le due cappelle, una più piccola e intimamente semplice, l’altra più grande e più ricca, raccontano le orazioni e le lotte interiori dei monaci, le preci di tanti pellegrini saliti quassù a firmare un compromesso con la provvidenza divina. Mentre il rigoglioso e coloratissimo giardino che separa le due chiese dagli altri edifici del monastero racconta la pace raggiunta e la fecondità dello Spirito. In un angolo della corte principale noto un pozzo, alla cui acqua si abbeverano i monaci e anche le piante. Un secchio è appeso alla carrucola di ferro, arrugginito ad arte. Mi trattengo a pregare il Dio dell’intimità inginocchiato su un banco nella cappellina di Santa Barbara e il Dio della creazione seduto su una panchina nel cortile. Poi riprendo la via della valle, senza incontrare anima viva.
A valle, nel paesino di Karídi, un gioiellino di tradizionale habitat rurale cretese, sorbisco un caffè in un locale spoglio, mentre fuori ha ripreso a piovere. Il gestore mi chiede da dove venga. Gli rispondo: «Dal paradiso terrestre di Moní Aretíou». Al che mi sorride orgoglioso: «Quest’estate l’abbiamo salvato dalla distruzione del fuoco, noi cittadini di questo borgo. Siamo molto devoti a Maria per averci dato la grazia di non perdere il nostro gioiello. Ma grazie anche al creatore che ha portato l’acqua fin lassù: senza il pozzo, l’unico dell’intera montagna, quest’oggi di Moní Aretíou resterebbe solo un mucchio di pietre annerite».

mercoledì 7 novembre 2012

Cnosso, il vero e il falso


Viaggio a Creta/3 - Il sito archeologico più noto dell'isola cela la diatriba tra diversi tipi di restauri.
Che sia il luogo principe della grande tradizione minoica nessuno lo nega, come il fatto che le rovine scoperte prima dal greco Minos Kalokairinos (1878) e poi dall’inglese Arthur Evans (1894) siano assolutamente le più importanti e le più vaste dell’intera isola di Creta. Un giro dalle parti di Cnosso è ineludibile in una pur breve scappata nell’isola di Creta. Pochissimi altri luoghi al mondo possono riportare indietro nel tempo così lontano e con altrettanta forza di convincimento storico: risalire ad una civiltà affermata ed evoluta come quella minoica, duemila anni prima di Cristo, cioè quattro millenni addietro, è operazione altamente ardita, ma straordinaria. Ardita, perché quanto è stato finora ipotizzato sulla civiltà minoica è tanto fantastico quanto leggendario. Straordinaria, perché si respira la Grande Storia a Cnosso. Il palazzo sorge nelle alture di Kefala e nella valle di Kairatos, a due passi dall’attuale capitale Iráklio: il mito del Minotauro (sacerdote con un elmo a forma di toro) e del labirinto in cui fu ucciso da Teseo viene ambientato proprio qui. Del re Minosse, non c’è traccia sicura!
C’è folla a Cnosso, viene dal mondo intero a vedere quanto sembra aver già visto sui propri computer. I giapponesi, in gruppi fastidiosissimi perché simili a muri umani lunghi e impenetrabili – guai a cercare di attraversarli, si viene malamente espulsi da quei cannoni che sono gli obiettivi delle macchinette fotografiche e dalle quelle lance che sono i cavalletti! –, seguono sugli schermi dei loro aggeggi elettronici quello che vedono, in una furia enciclopedica che lascia senza fiato. Chissà cosa mai resterà nel loro immaginario dopo questa visita: probabilmente i “falsi” eretti dall’altra furia, quella restauratrice e ricostruttrice di Mr. Evans. Colonne dipinte di rosso pompeiano, affreschi di delfini guizzanti appena immaginabili negli originali ritrovati, architravi in cemento armato che probabilmente erano lignei in origine. Resterà nella loro memoria quel che forse meno riporta con fedeltà l’originale minoico, assieme alla leggenda di Minosse che qui avrebbe esercitato il suo straordinario potere, dominando l’intera isola di Creta e partendo alla conquista di altri territori.
Vago come tramortito tra le rovine di Cnosso slalomando tra i turisti singoli e quelli in comitiva, sperando di riuscire a scattare qualche foto senza traccia di umano, se non accessoria, funzionale all’immagine e non intrusa accidentalmente. Gli inserti posticci, opera della fantasia di Mr. Evans mi lasciano interdetto, perché hanno una loro bellezza, una loro armonia estetica, pur essendo pugni nello stomaco per chi cerca in qualche modo di capire la verità storica di quel che succedeva quattromila anni fa. Cercando nelle rovine abbandonate senza restauri il seme della verità, o perlomeno il suo simulacro, se non il suo sogno. Ed è già straordinario quanto si ricava dalle comunque imponenti tracce del Palazzo di Cnosso, eccezionale esposizione di potenza di millenni addietro: basti pensare alle lunghe file di locali del Palazzo protopalaziale (2100-1700 a.C.), alle tracce del periodo prepalaziale (terzo millennio a.C.), o alle ben più cospicue costruzioni del periodo neopalaziale (1700-1450 a.C.). Cortili, verande, peristili, scale, sale del trono, mégaron, stanze da bagno, magazzini… Mi colpisce in particolare una lunga e stretta scala che dà sul nulla della collina: ecco l’esempio calzante di quel che deve essere un restauro, lasciare che l’immaginazione ricostruisca il palazzo cui si accedeva attraverso quella scala…
Esco dal sito riconciliato nello spirito e nella mente da due scalinate assolutamente fantastiche nella loro irregolarità, e tuttavia immaginifiche, funzionali come nessun altra alla vista del Palazzo di Cnosso: probabilmente costituivano parte del teatro del Palazzo prepalaziale… E mi dico che i giapponesi che, come il sottoscritto, hanno pagato quattro euro per entrare nel complesso archeologico non avrebbero capito nulla della civiltà minoica guardando queste scale straordinarie. Probabilmente avrebbero suscitato il loro solo un basso istinto di rendere il tutto simmetrico e perfetto nel restauro. Almeno con l’opera di Mr. Evans qualcosa conserveranno di questo luogo e della sua memoria. Onore a Mr. Evans, dunque, soprattutto epr non aver voluto toccare le “mie” due scalinate del teatro, a cui si accede dall’ingresso della Strada delle processioni, magnificamente lastricata! Un sentito ringraziamento.