mercoledì 28 ottobre 2009

Giornalisti nel mirino


Ho partecipato ad Andria, nelle Puglie, a un dibattito dal titolo "La notizia e la città", con un sottotitolo intrigante: «Il ruolo del comunciatore nel rapporto con gli attori sociali in vista della crescita della città nella prospettiva della fraternità universale», organizzato dalla sezione locale di Umanità Nuova, dal Guroppo editoriale Città Nuova e dall'Associazione Igino Girodani locale. Il "Domani andriese" ha pubblicato una mia intervista.


Il fascino del giornalismo locale, di quello che racconta la città, consiste nell'avvicinare il giornalista alle fonti, senza la mediazione delle agenzie che spesso "dettano" la scaletta delle priorità nei fatti nazionali. Sembra un giornalismo fatto più sulle suole delle scarpe che davanti ai computer. È realmente così?
Può essere così, e molto spesso lo è. Il giornalismo “nazionale” spesso e volentieri si trova oggi ingabbiato nelle pastoie dei condizionamenti politici ed economici, perdendo perciò in libertà e in profondità. In questo panorama un po’ asfittico, ritengo che la stampa locale, così come certa stampa periodica, mantenga degli spazi di libertà e di approfondimento in cui il giornalismo più vero, autentico, quello delle suole delle scarpe e non dei copia/incolla, possa ancora esprimersi. Anche per i giovani giornalisti queste categorie di stampa sembrano quelle dove si possa ancora imparare il mestiere.

La "vicinanza" e il rapporto diretto con la fonte pone anche dei rischi. Nelle piccole realtà alla fine ci si conosce tutti. È possibile che qualcosa resti "non detta"?
Certamente il rischio esiste. Se i condizionamenti a livello “nazionale” possono apparire più pesanti e invalicabili, anche a livello locale le piccole o grandi omertà, o se vogliamo, le piccole o grandi paure, possono condizionare il giornalista. Tuttavia ritengo che nessuna opera possa essere realizzata senza dei limiti: l’architetto è chiamato a costruire la nuova casa entro limiti di terreno, di edificabilità, di protezione del paesaggio ben definiti. E spesso ne escono piccoli-grandi capolavori. Anche il giornalista può esprimersi con grande abilità pur per molti lati limitato.

Nelle esperienze del giornalismo locale, il lettore percepisce meno la distanza del giornalista ed è molto più partecipe con segnalazioni, contributi, interventi. Può essere considerata un'esperienza di partecipazione, quella di leggere e di arricchire un giornale locale?
Le nuove tecnologie ci permettono di avvicinarci ai lettori, e viceversa al lettore di sentirsi partecipi della costruzione, della redazione di un medium particolare. A livello locale queste facilità tecnologiche vengono certamente arricchite dalla prossimità. In una società in cui la spersonalizzazione e la distanza dalle istituzioni aumentano, ritengo che questa partecipazione sia un’esperienza importantissima di “cittadinanza attiva”.

Citizen journalism. Negli Stati Uniti è una pratica crescente. Anche i grandi network fanno uso di immagini girate da cittadini qualsiasi per raccontare i fatti. Stessa cosa per i giornali on line o per il web dove ci sono siti fatti con i tg degli utenti. Un rischio per l'autorevolezza dell'informazione? O, anche in questo caso, una possibilità di partecipazione? Oppure una possibilità di entrare di più tra i lettori/telespettatori/utenti di qualche avveduta testata?
Lo ripeto, le nuove tecnologie stanno cambiando profondamente i connotati del giornalismo. In particolare viene introdotta questa possibilità di partecipazione “in diretta” alla costruzione di media prima lontanissimi. Si perde l’aspetto epico del giornalismo, si acquista in partecipazione dei cittadini, dei lettori. Nel contempo, questo “citizen journalism” mette in luce di nuovo la necessità di un’informazione di qualità che può e deve essere proposta in primo luogo dai veri giornalisti. Curiosamente, nell’epoca delle news scritte in due minuti e sbattute sul web cresce la necessità degli approfondimenti. Newsweek ha negli ultimi mesi operato una chiara svolta verso l’approfondimento, ed ha aumentato le sue vendite.

Il giornalismo locale è considerato un trampolino di lancio per le testate nazionali o comunque la fase iniziale della carriera di un giornalista. Si può essere grandi cronisti, senza occuparsi di governi, leggi, diplomazie, guerre, congiunture economiche, raccontando piuttosto la cronaca di una provincia italiana?
Certissimamente! Conosco una quantità di giornalisti locali che hanno penne e teste ben superiori a quelle di tanti “nazionali”. Un esempio su tutti: a Trento, Franco De Battaglia scrive editoriali straordinari, letti anche a livello nazionale, pur avendo sempre operato nella valle di Trento. Il locale spesso è più fecondo del globale. E in ogni caso il giornalismo deve contemperare queste due dimensioni.

Come cambia il modo di "fare la notizia"? A volte non succede niente ma il giornale si deve riempire. Che si fa?
L’arte di raccontare anche quando non c’è niente da raccontare è una delle principali prerogative del giornalista. Ma è anche vero che sempre succede qualcosa. Ma non ce ne accorgiamo. In questi momenti di “stanca”, si aprono degli spazi in cui poter raccontare non solo quel che non va, quel che fa notizia, ma anche quello che va bene, i piccoli-grandi eroismi della gente comune. Guai, invece, a inventare o a copiare, difetti ormai molto diffusi, anche per il vertiginoso aumento della produttività chiesta dai proprietari ai giornalisti.

Come si può raccontare bene una città?
Amandola. Con tutte le sfumature che l’amore ha in sé. Amandola si scopre non solo il cuore o il ventre della città, come direbbe Zola, ma anche l’anima della città.

Descrivere i fatti di piccole comunità impone una responsabilità sociale diversa rispetto a chi osserva la vita della nazione?
Parrebbe di sì, ma credo che non sia vero. La responsabilità deve essere uguale qualsiasi sia la diffusione di quello che scriviamo. Certo, magari le conseguenze possono essere minori, ma il grande giornalista si scopre anche nelle sue più piccole produzioni. Questo vale in tutti gli ambiti della vita civile, sociale e politica. Gli ultimi avvenimenti, anche nella vostra regione, dimostrano come ci sia bisogno di “operatori nell’agorà pubblica” che siano non solo furbi ma anche onesti, non solo spregiudicati ma anche coerenti.

Il giornale locale è anche lo specchio di una comunità che in quel mezzo di informazione si identifica. Può essere considerato un mezzo per trasmettere valori?
Certamente. I valori, e i beni che essi esprimono (in particolare il bene pubblico, oggi così spesso dimenticato) possono essere espressi nel nostro giornalismo, locale o nazionale. Esprimere in particolare i “beni comuni” della comunità è doppiamente possibile e meritevole. Senza fare moralismo. Un giornalismo solo distruttivo non penso che possa essere qualificato come un buon giornalismo. Pensiamo al grande Kapuscinski: scriveva di povera gente e apriva orizzonti straordinari, anche alla politica. Non faceva mai la morale, descriveva fatti, raccontava avvenimenti e presentava persone. Questo è il nostro compito.

venerdì 23 ottobre 2009

Ischia, l'isola che svela l'anima del mare


Dicono che la metà delle sue case siano abusive. Dicono che vi trascorrano le vacanze i camorristi. Dicono che sia l'isola proporzionalmente più inquinante del Mediterraneo. Ma è un'isola dalla bellezza poco conosciuta.

Napoli, atmosfera inconfondibile. Rumori monumenti colori. Tutto pare immondizia e tutto pare benedizione. Un tassista orbo e screanzato mi fa pagare meno del dovuto, pur usando modi bruschi. La lunga fila per acquistare il biglietto del traghetto che mi porterà a Ischia è per modo di dire una fila, ci si arrangia come si può, fino ad agguantare uno degli ultimi passaggi ponte disponibili quest’oggi. Sulla nave s’incrociano turisti e indigeni che paiono, comunque, tutti in vacanza, nessuno escluso. Non può essere altrimenti, su questo traghetto nel tepore serale d’una giornata di fuoco. La vita non può che sorridere a chi viaggia su un battello che allontana dalla terra ferma per condurre in un’isola di fanghi e sole, di pietre antiche e borghi d’oro.

E Ischia si rivela una sorpresa; anzi, una serie ininterrotta di sorprese. Tutti ne esaltano le bellezze naturali, la paragonano alla costiera amalfitana «ma con meno caos», ne decantano le acque termali, benedicono la gente che è campana ma non napoletana, «meno commediante e più gentile». Non me l’aspettavo così, Ischia. È troppo vicina a Napoli per non essere simile al capoluogo. È troppo vicina a Capri per non essere come l’isola frequentata dal jet set. È troppo uguale a sé stessa per non essere originale.

All’arrivo, nottetempo, nei primi caldi afosi che stentano a dissolversi pur nell’oscurità, Ischia mi accoglie con le luci calde dei lampioni del porto, che rischiarano la lunga striscia di abitazioni e fabbricati allungati sul molo, quasi oziosi, in attesa di una risposta esistenziale, di uno stimolo filosofico. Sopra questa striscia d’oro sul serio in cui si distingue una chiesa neoclassica che potrebbe essere dorata, qualche ristorantino che promette pesce fresco e falanghina gelata, magazzini dagli intonaci scrostati, abitazioni con le reti dei pescatori stese ad asciugare, moli dei traghetti e degli aliscafi a rovinare una scena che potrebbe essere senza tempo, auto parcheggiate in un disordine che sarebbe meglio spostare appena qualche metro più in là… Ma in fondo non pare di avere di fronte l’esemplificazione di un fin troppo conosciuto disordine urbanistico, quanto le quinte di un teatro dell’arte che offre le sue rappresentazioni 24 ore su 24, quasi gratis per giunta, al modico prezzo di un passaggio ponte via traghetto, qualche spicciolo. Tali rappresentazioni sanno alternare le notorie capacità mimiche e retoriche del popolino campano alle sceneggiate melodrammatiche di chi, nei secoli, ha accumulato le profondità culturali e le miserie quotidiane di queste terre e di questi mari.

Una buona entrata in materia, quest’approdo notturno sull’isola di Ischia, che con Procida e Vivara chiude a nord il golfo di Napoli. Come pure la cena che gli amici hanno organizzato per me in un ristorante dell’altro polo del comune, Ischia Ponte, dopo Ischia Porto: un banchetto, quasi un festino, che s’inaugura a mezzanotte e si esaurisce due ore più tardi. Qui i tempi della vita al fresco della notte sono decisamente mediterranei, se non addirittura nordafricani. Nella più assoluta naturalezza le ore piccole vengono prese come un rifugio dell’umana socialità che diventa esigenza di vita, di comunione. Se poi questa bellezza conviviale viene arricchita da ingredienti culinari di qualità e ben compaginati tra di loro, ecco che il vivere ischitano – non ischiano – può assumere dimensioni antropologiche di eccellenza.

All’aprirsi degli occhi nel chiarore già ricco d’un sole che scalda sul serio, un altro mondo s’apre, vuole svelarsi. O meglio, un’altra bellezza della medesima pulchritudo che s’annuncia. Dalla finestra rimasta aperta, ma coi battenti ancora chiusi, filtra non solo la luminosità diurna, ma anche un bouquet di profumi naturali risolutamente mediterranei e un canestro di suoni e rumori che non hanno nulla del caos cittadino, richiamando piuttosto alla musichetta di un’orchestrina di strada. Il risveglio invita alla scoperta di questa terra che sulla cartina pare quasi delimitata da una circonferenza appena un po’ schiacciata sui poli, a settentrione e a meridione. C’è chi parla di un “grande fagiolo”. Ed è proprio tale conformazione geografica che attira la mia curiosità, ben presto trasformata in impellenza.

Così, accompagnato da un giovane seminarista – questa terra si rivela ancora profondamente cristiana, non solo per le tante chiese, cappelle ed edicole che ne costellano il territorio, quanto per la fede calorosa della sua gente – e da una bellezza locale che sa essere spontanea e ben preparata, m’avventuro lungo la “circonvallazione”, l’unica vera arteria dell’isola, che costeggia il mare a debita distanza, in una continua serprentina di curve e controcurve che pare voler seguire scrupolosamente l’altimetria del territorio ischitano, girando attorno al rilievo del Monte Epomeo, nome dalle chiare etimologie elleniche, epico anche onomatopeicamente: un verde cono vulcanico – tutto a Ischia è d’origine vulcanica, anche il carattere della gente – che termina con uno strano corno, quasi un becco, che gli conferisce quel nonsocché di misterioso che su un’isola non guasta mai.

Lasciamo quindi il comune di Ischia – sono sei in tutto quelli che si suddividono il territorio dell’isola – verso la costa settentrionale, che da subito si rivela una benedizione di colori e forme, di vegetazione e conformazioni geologiche (bello questo termine “con-formazione”, che suggerisce il concorso di tante cause e tanti millenni alla sua rara bellezza), che creano scalinate d’ogni tipo dal rilievo verso il mare, terminando la discesa, dolce o folle, in ampie e placide spiagge. Come a Casamicciola, alle Pietre rosse o a Maronti (ancora, che bei nomi!), oppure in scogliere ardite, bianchissime o nerissime, come a Forio, come a Capo Negro, come alla Punta parata dei centoremi (la fantasia della toponomastica al potere!).

Qualche gioiello pare disposto dal Creatore qua e là, quasi a voler riaffermare che il mistero della bellezza non è di competenza umana, ma divina. Non c’è trucco, non c’è crema che possa abbellire più di tanto quanto è stato disseminato «da Colui che la terra creò», come cantava il Petrarca. Così allo scoglio degli innamorati, che pare un abbraccio d’amanti, ma con un terzo che non è un intruso, quanto un completamento d’armonia. «Pare una Trinità di pietra», suggerisce Maria Francesca, la mia guida . Così, alle pendici del costone roccioso detto Ignone (Grande fuoco, geniale!), da cui sgorgano le acque termali che nei Giardini Poseidon si offrono con grazia e generosità a sani e malati. Così in quella delizia paesaggistica – assecondata egregiamente dalla sapienza urbanistica accumulatasi nei secoli – che è Sant’Angelo, un grumo di case di ogni colore addossate alla montagna che si sfalda poco alla volta, da cui parte un esile istmo che raggiunge una collina rocciosa che pare un arancino verde e grigio: un aperitivo sorbito ai tavolini di uno dei tanti caffè che s’affacciano sulle due baie separate dall’istmo riconcilia con l’esistenza, soprattutto se accompagnato da una pizza col basilico che s’appoggia sulla mozzarella di bufala, che a sua volta intinge la propria anima candida nel rosso del pomodoro, contenuto dai morbidi e fermi bordi della pasta. E ancora, al termine del lungo periplo attorno all’isola il seminarista mi fa salire sulla terrazza panoramica della chiesa di San Domenico, in frazione Sant’Antuono (please, non dite Sant’Antonio abate!) per scoprire il primo e l’ultimo gioiello ischitano, il Castello aragonese, che ieri m’era stato nascosto alla vista dall’oscurità e dall’illuminazione del maniero in panne.

Maniero? Difficile definirlo così. Pare piuttosto la punta d’una immensa ogiva di pietra che erompe dalle acque del Mar Tirreno non si sa bene per che motivo, se per fungere da baluardo per gli ischitani o semplicemente per frangere i flutti che altrimenti s’abbatterebbero sull’abitato, o ancora per dimostrare all’orbe terracqueo che il potere politico non può che ergersi sulla buona natura, come castello umano che prolunga la roccia che nessuno può distruggere. Tecnicamente si parla di una “cupola di ristagno”, una bolla di lava consolidatasi nel corso di enormi eruzioni. Sta lì, il Castello aragonese, come il roccione di Sant’Angelo collegato alla terra ferma – alla più vasta terra ferma – da un lungo ponte costruito con l’ausilio di una fettuccia di scogli naturali e artificiali che pare, dall’alto, un pacifico serpentello di mare privo di ogni forma di veleno.

Ed è proprio ai piedi del Castello aragonese, a Ischia Ponte, che termino il periplo attorno all’isola, in un tripudio di sole, colori, profumi, sapori. Questo nostro sud italico non cessa di far scoppiare quel sano edonismo che è offerta di bellezza e la sua semplice consumazione. Suo semplice godimento. Passo dinanzi alla chiesa dello Spirito Santo, annunciata dal borgo mercantile abbellito da bouganvillier di ogni colore, cascate di fiamma e grazia. Pochi gradini, ripidi e scuri, non riescono a trattenere la predica in latino e in dialetto di un prete che pare Totò, che esaspera ed esalta gli aspetti culturali e ludici di questa terra che vive di mare. E poi la cattedrale, baciata nei suoi muri dorati da un sole coi raggi d’oro, finché l’abitato d’improvviso si dirada e appare.

Appare egli stesso, lui, il castello, la roccia col castello ‘n coppa. Da questa prospettiva appare ancora più impressionante nel suo profilo massiccio e nel contempo familiare, per la sua punta edificata e per il declivio che scende verso il mare trattenuto dalle mura imponenti che l’abbracciano. Il lungo ponte non appare più un serpente di mare, quanto piuttosto una passerella verso il tesoro, una benedizione che rende le acque meno inquietanti, quasi che l’uomo in questo modo potesse rendersi più presente nell’orbe terracqueo. Avanzo sull’acciottolato ordinato ma nel contempo assai antico e la massa rocciosa, invece di farsi incombente, diventa via via più familiare, perché la massa si frastaglia in mille dettagli che paiono renderla comprensibile, spiegata, direi avvicinata: un arco, un camminamento, un ciuffo di agavi, una serie di finestre che promettono di essere straordinarie per la vista offerta…

E poi le mura, merlate, e le cupole che si stagliano d’improvviso nel cielo diventato tutto azzurro e tutto splendore. Poi le acque finiscono, il rumore delle onde e dello sciacquio sugli scogli s’attutisce fino ad annullarsi allorché s’entra nelle mura e un altro mondo comincia, si materializza. S’entra per un portone che pare nobile e nel contempo modesto se paragonato a quel che ci sovrasta. S’apre allora una lunga scalinata che è più un camminamento per uomini e cavalli, fors’anche per asini, che una serie di gradini, pochi centimetri di altezza per un paio di metri di larghezza! Si sale con facilità, ammirando le volte e le prese di luce che sovrastano il camminamento, e da cui venivano scaricate marmitte di olio bollente per arrestare l’eventuale penetrazione dei saraceni.

È una storia lunga, molto lunga, quella che le pietre di questo castello raccontano al visitatore. Una storia di grandi imperi e di piccole quotidianità: la prima fortezza fu costruita addirittura nel 474 a.C. dal greco-siracusano Gerone I, venuto in aiuto dei cumani nella guerra contro i tirreni. Nel 315 a.C. furono sempre i romani a fondare a Ischia la città di Aenaria. Poi i saccheggi a ripetizione dell’isola e del castello da parte di visigoti, vandali, ostrogoti, arabi, normanni, svevi e angioini. Finché, passata un’eruzione disastrosa del vulcano Trippodi, nel 1301, che spinse gli ischitani a proteggersi sullo sperone roccioso, nel 1441 Alfonso d’Aragona ricostruì il vecchio maschio e costruì il ponte di collegamento e fece costruire le poderose mura. Alla fine del XVI secolo il castello conobbe il suo massimo splendore, quando la rocca ospitava 1892 famiglie, oltre a conventi e abbazie, 13 chiese e sette parrocchie. Verso il 1750 i pirati cessarono di attaccare Ischia, e la gente scese così dal maniero verso l’isola principale, dedicandosi sempre più alla pesca. Nel 1823, Ferdinando I, re di Napoli, scacciò gli ultimi abitanti e ridusse il castello a prigione.

Salgo, ammirato più che accaldato, perché la frescura che queste mura larghe quattro o cinque metri non paiono scalfibili dalla temperatura del sole. Avanzo fino alle prime terrazze, in cui si alternano in modo assai diseguale spazi naturali e terrazze attrezzate, in un disordine che sa d’arte più che di caos. Le vecchie cappelle di pietra levigata s’alternano a quelle invece perfettamente intonacate di barocco. Il monastero delle clarisse attira più per lo strano modo che queste suore avevano di lasciare questo mondo – l’ossario delle suore le vedeva deposte su degli “scolatoi” da cui “colavano” poco alla volta nel vuoto – che per le ardite architetture dei suoi palazzi incastrati nei palazzi nobiliari. E poi il giardino delle nifee, la cattedrale dell’Assunta senza più volte…
La discesa è un continuo scorcio, ogni volta nuovo, su Ischia Ponte e su Ischia Porto, su Sant’Antuono e sulla costa che scende verso meridione e su quella che sale a settentrione. Poche impressioni, se non quelle di una grande sorpresa. Ora, solo ora, comincia la scoperta di un’isola che, pur essendo assai meno conosciuta di Capri e anche di Anacapri, della costa amalfitana e di quella sorrentina, ha tutta l’aria di voler riservare sorprese sempre nuove: di roccia, cielo, acqua, botanica e zoologia. E di umanità.

venerdì 16 ottobre 2009

Cricova, il vino sotterrato


Visita ad una delle più sorprendenti località moldave, dove il vino è da sempre una tradizione intoccabile, che dimostra le indubbie capacità della gente di questo piccolo stato che fu la Bessarabia.

Sono ben 120 i chilometri di gallerie, ad una profondità che varia dai 30 ai 150 metri, che costituiscono la rete delle cantine dell’enorme azienda vinicola di Cricoca, la più grande azienda della piccola Moldova, una dozzina di chilometri a nord di Chisinau. Gallerie scavate negli anni Cinquanta, con dedizione e precisione.

È perciò un’esperienza non da poco quella che si vive percorrendo quei budelli sotterranei, quel dedalo di gallerie che si snoda con grande ordine, che ospita la bellezza di quattro milioni di litri del nettare di Bacco, qualcosa in più, qualcosa in meno, dipende dalla domanda internazionale dell’anno in corso e da quanto vino si sia prodotto nei Paesi concorrenti. Senza dimenticare il milione abbondante di bottiglie da collezione, tra cui si notano quelle appartenute al gerarca nazista Hermann Goering, e a lui sottratte dall’Armata Rossa, e quelle recentemente acquistate da Vladimir Putin.

Impressiona non poco lo spettacolo delle botti e delle botticelle ben allineate nei cunicoli, scure o chiare ma tutte bordate di rosso, invariabilmente marchiate da un’etichetta metallica, tutte curate da una mano che non è solo quella dello Stato impersonale. Perché è vero, lo Stato moldavo è ancora proprietario delle cantine di Cricova, così come delle vigne e dei terreni calcarei attorno alla città. Uno Stato ancora sovietico nei suoi meccanismi burocratici, eppure percorso da strani e improvvisi fiotti di liberismo concorrenziale, quello che permette di trovare espedienti produttivi, e di far pagare le visite la bellezza di 35 euro… Perché, nonostante la vastità di questi depositi “di vini”, il vino di Cricova sta scendendo nelle classifiche enologiche del mondo intero, così come in quelle del mondo ex-sovietico.

Il trenino rosso delle cantine mi trasportano lentamente nella fresca temperatura dell’underground, che nel confronto con l’esterno appare addirittura freddo, lungo budelli che odorano di spirito, ma senza eccessi, fino a giungere al livello più profondo della rete, lì dove si imbottiglia e si conserva il fiore all’occhiello della produzione di Cricova, quella del vino frizzante prodotto col metodo champenois. Operaie e operai s’ingegnano attorno ai macchinari con la più classica “non-partecipazione” della migliore tradizione comunista. È proprio in queste cantine, allora, che mi rendo conto di quanto la trasformazione delle abitudini e dei riflessi condizionati da un sistema “forte” come quello del socialismo reale sia non solo lungo, ma pure dall’esito incerto.

La visita non può che concludersi nelle calde sale di degustazione delle cantine di Cricova, saloni a loro modo straordinari, una città sotto la città e sotto le vigne, tutti di marmo e di finestre finte a vetrate, coloratissime, mentre alle pareti si alternano affreschi di dubbia qualità che dipingono la vita silvana e campestre della gente moldava, quella di una volta, in qualche raro caso ancora attuale. Sale e saloni d’ogni forma e dimensione, a tema o a colori, in qualche modo sorprendenti e a loro modo belli.

mercoledì 14 ottobre 2009

Chisinau, la città in festa


La capitale della Moldova festeggia quest'oggi la sua festa patronale. Nella cattedrale ortodossa e in quella cattolica, nelle strade, si festeggia e si cerca di dimenticare il difficile presente del Paese. Un popolo che di qualità ne ha da vendere.

Oggi è la festa della città di Chişinau, dedicata in modo sublime al “manto di Maria”. Una festa ecumenica nel senso religioso del termine, ma anche in quello politico. Non a caso uomini di religione e di politica partecipano ai riti tradizionali. E pensare che la politica da queste parti non va proprio bene: qui in Moldova non c’è ancora un presidente elet-to, ieri sera in Romania il governo è caduto, mentre in Transnistria si vi-ve nel limbo geopolitico e in Ucraina il gas difetta già ai primi freddi.

Eh sì, oggi fa proprio freddo, dopo una serata sciroccosa e una notte tempestosa. Ma il sole brilla come mai in questi giorni, a illuminare la città che scende in strada e che s’agglutina attorno alle bancarelle, alle donne di campagna che vendono caffè caldo e bastoncini di strudel, ai chioschi dove si suonano musiche folcloristiche, alle postazioni dove far-si fotografare a cavalcioni di una Yamaha con fondale a stelle e strisce (il mito americano non tramonta mai, checché se ne dica!) oppure a cavallo di un’enorme zebra di peluche, o ancora abbracciati a una mostruosa copia dei mostri più noti del cinema. Il sole brilla su tutti, a temperare il freddo pungente, il primo della stagione. Le nuvole miracolosamente sembrano evitare di velare la stella che ci fa vivere.

M’avvicino alla cattedrale ortodossa, passando sotto l’Arco della vittoria e girando attorno al campanile. Una folla in preghiera s’accalca in modo disordinato, percorsa da fremiti di quella passione spirituale tipicamente ortodossa che ha bisogno di espressioni materiali della fede, attorno ad un piccolo catafalco che a prima vista mi sembra una bara, piccola. Un paio di pope stanno a guardia di quella cassa di legno pregiato; afferrano al volo foulard, sciarpe e cappelli e ogni altra sorta di tessuto che la gente avvicina o lancia verso quel punto nevralgico della ressa. I chierici li stro-finano contro quella cassa e poi li rispediscono al mittente: scopro che sono le urne che racchiudono le più preziose reliquie di cui la cattedrale si vanta. Scatto foto su fotto in quella folla estatica e arrabbiata, che si sopraeleva sui bordi, ricoprendo come un tappeto – un manto? – le brevi scalinate della chiesa e del campanile, creando una sorta di raccoglimento liturgico. D’improvviso s’ode un tramestio, come l’annuncio di un’apparizione, quella del corteo dei prelati – coloratissimi, prevalgono l’oro e l’azzurro – che permette di fendere la folla e portare il metropolita a issarsi a fatica sino all’ultimo gradino della scalinata della cattedrale, do-ve appare anche un microfono e con esso anche un sindaco. E così la fede e la politica si presentano alle folle per rassicurare, per invitare all’obbedienza civica, per il bene comune, per dimostrare che c’è ancora chi veglia su giorni e notti degli abitanti della piccola-grande Moldova.

Poi, con quelle piroette in cui le Chiese ortodosse sono specialiste, la folla si sparpaglia in mille rivoli, mentre le reliquie rientrano nel loro al-veo naturale, nell’interno doratissimo della cattedrale, eccessivo e quasi sfacciato. Un rivolo di folla si ritrova a creare un cerchio, tanti cerchi, ai piedi dell’Arco della vittoria: ancora metropolita e sindaco si ritrovano assieme a un’orchestrina, a un coro, a una nuvola gioiosa di bambini nei costumi tipici della regione. E s’alternano le scontate parole delle autorità ai fiotti ritmati della musica folcloristica, ai frenetici puntare i piedi e sal-tare per aria come molle delle piccole centurie dei piccoli. Delle bellissi-me adolescenti, anch’esse “costumate”, pittate come delle indossatrici in erba, disegnano percorsi di grazia e di provocazione, invitando tutti alla festa.

Nella cattedrale cattolica il clima è più discreto, moderato, direi raccolto. Dimesso e degno. Due vescovi che hanno deciso di sostenersi con le lo-ro diocesi – reciprocamente – presentano un cristianesimo più essenziale, più spirituale. Il raccoglimento impressiona, la gente prega con l’anima e col corpo, e spiega così come mai la piccolissima Chiesa cattolica che è in Moldova – forse l’uno per cento della popolazione – abbia tanta capacità d’influenzare il panorama sociale del Paese. Non certo politica.

Il sole se ne va, il cielo s’ammanta d’un grigio carico di gelo. Ma la gente continua a camminare su e giù per il viale che taglia in due la città, of-frendo una visibilità non da poco ai palazzi dei poteri, tutti i poteri. La gente continua ad agglutinarsi, ma ora attorno ai barbecue su cui si gri-glino salsicce e spiedini, peperoni e dolci zuccherosi. E chiacchiera, e sbocconcella lo zucchero filato che impiastriccia le mani, e beve birra Chisinau e beve vino Cricova, e grida e rimorchia e cade e dorme e si ri-alza e si mostra e si sveste pur nel freddo pungente. E soprattutto si ri-conosce nei simboli dell’immaginario collettivo moldavo: la bandiera, le icone, il vino e i telefonini. E sarà così fino a sera, finché il freddo non scoraggerà anche gli ultimi resistenti.

lunedì 12 ottobre 2009

Alla scoperta della Transnistria


Viaggio in diretta da uno degli "Stati" più strani dell'intera Europa.
Reportage dalla capitale Tiraspol, tra Moldova e Ucraina, alla scoperta di "gente povera ma bella".


Il Paese-striscia che nessuno vuole riconoscere Da quando ne avevo sentito parlare, cioè circa sei anni fa, nel mio carnet mentale mi ero riproposto di visitare la Transnistria, prima o poi, a tutti i costi.

La mente del viaggiatore conosce questi imperativi categorici ai quali è difficile derogare, salvo incidenti maggiori, impedimenti insuperabili. Il viaggiatore è paziente e sa che prima o poi i suoi desideri si avverano. Così quest’oggi – accompagnato da Irena, trentenne che lavora alla Caritas Moldova, e Galina, ricercatrice sociale e madre di quattro figli – mi trovo sulla strada per Tiraspol, la “capitale” dello “Stato” della Transnistria, sottilissima striscia di terra di circa tremila chilometri quadrati e 400 mila abitanti (quasi la metà sembra che sia però all’estero) che separa la Moldova dall’Ucraina, a 76 chilometri da Chisinau e a 102 da Odessa.

Uno Stato assolutamente unico nel panorama geopolitico europeo, ma assai vicino agli unici “Stati”, tutti caucasici, che l’hanno riconosciuta: Abkhazia, Ossezia meridionale e Nagorno-Karabakh. Bozzoli di entità statali che approvano altri bozzoli, quasi per reciproco conforto. Unica eccezione, la Russia, che guarda caso ha riconosciuto anche Abkhazia e Ossezia meridionale… Cos’ha d’interessante la Transnistria? È un Paese povero, in alcune remote regioni addirittura poverissimo, quasi misero, afflitto ancora da mancanza d’elettricità costante, con un’agricoltura rudimentale, fabbriche ormai chiuse, come quelle che scorgo nel centro della “capitale”, popolazione giovane alla sola ricerca di espatrio, un’economia che quindi si regge solamente sulle rimesse degli immigrati…

È un Paese nato dopo una guerra cruenta, guerra che fece alcune centinaia di morti nel 1991, nel periodo del crollo dell’Unione Sovietica e della corsa all’indipendenza selvaggia. Un Paese che ha fatto della sua fedeltà al comunismo e alle relazioni con la Russia il proprio dover essere e soprattutto il proprio poter esistere. Non a caso nella via principale di Tiraspol, di fronte al monumento che ricorda la vittoria sui moldavi – un carro armato, manco a dirlo –, si ammira una gigantografia dell’ultimo incontro tra il presidente russo Medvedev e “quello locale”, di nome Smirnoff, come la vodka. Tutto è perciò rimasto come ai tempi del comunismo, l’architettura e i monumenti, la retorica degli striscioni e delle foto così come la povertà poco dignitosa delle periferie delle città. Una pubblicistica assai sviluppata nelle riviste di geopolitica, vuole che la Transnistria sia il concentrato di tutte le perversioni politiche del continente.

Così sarebbe il luogo privilegiato di alloggio delle cosche mafiose russe congiunte con quelle di altri Paesi; così sarebbe una plaque tournante, cioè uno snodo particolarmente libero del traffico di armi e di segreti militari provenienti dal disfacimento dell’impero sovietico, così sarebbe persino il luogo delle perversioni massime della prostituzione dell’Est europeo, così le auto in circolazione nella regione sarebbero al 70 per cento di provenienza illecita. Capirete bene come, avendo nella memoria questa pubblicistica, mi attendessi di vedere poco meno che uno Stato anarchico, in preda alle peggiori delinquenze e alle più sfrenate depravazioni. E invece no.

È vero, una giornata passata in Transnistria non può avermi dato una visione esauriente della situazione; ma quel che ho visto coi miei occhi e soprattutto i contatti avuti con persone che vi vivono, e che pure godono di osservatori privilegiati per la conoscenza della regione, mi fanno dire che sì, lo “Stato” della Transnistria è veterosovietico, marchiato da un chiaro trasporto nostalgico verso la “madre di tutte le rivoluzioni”; è vero che la miseria di vede oltre i paraventi ben dipinti del centro della città.

Ma è anche vero che tutte queste colpe gettate sulle spalle di questo povero Paese sembrano veramente eccessive. Anzi, la gente pare accogliente, aperta allo straniero, povera ma degna; parla poco di politica, una cosa delicata come lo era nei Paesi ex-comunisti, ma parla di tante altre cose. E le auto non sono tutte rubate, e l’estetica del mobilio urbano non è popolata di donne senza veli, e le mafie se pur esistono – perché in terre di passaggio come la Transnistria esistono per forza, in tutto il mondo – non hanno certo una grande visibilità, e nemmeno una forte influenza sulla gente comune.

Insomma, la Transnistria pare uno “staterello” che coagula interessi convergenti negativi (no alla Moldova, no alla Romania e no all’Ucraina) più che positivi (sì alla continuazione della sovieticità, sì allo sviluppo della malavita). Nei fatti, la Transnistria opera come uno “Stato”, coi suoi ministeri e le sue amministrazioni, ma patisce l’isolamento: il treno Chisinau-Kiev non funziona più, e la via ferrata è stata saccheggiata, diventando inutilizzabile; le strade sono malmesse, e non consentono più collegamenti adeguati; il commercio, almeno quello ufficiale, è diminuito, perché deve fare impossibili percorsi per giungere a destinazione; i telefoni analogici per lungo tempo sono stati interrotti, ed ora quelli cellulari funzionano grazie alle compagnie ucraine o moldave; l’edilizia s’è fermata, salvo nella costruzione di villette finanziate dalle rimesse degli immigrati; di fabbriche non si vede nemmeno l’ombra, o meglio si vedono le ombre delle officine dismesse…

Ma la gente sorride, riesce ancora a farlo, e pure con una certa fierezza. L’identità della Transnistria? «Avere due passaporti – mi risponde un uomo d’affari –, ed essere molto pratici nello sbrigare le proprie faccende: se non si arriva al proprio scopo in un modo, ce ne sarà un altro». Mentre un pope ortodosso, Vladimir, mi conferma un’impressione provata dinanzi al palazzo del parlamento vedendo la gente passare: «La gente vuole vivere, ma la politica glielo impedisce nei fatti. Allora bisogna cercare di vivere senza la politica».


venerdì 9 ottobre 2009

Armenia e Turchia: la riconciliazione?

Domani, a Zurigo, dovrebbe essere firmato un protocollo di intesa tra Yerevan e Ankara per la ripresa delle relazioni diplomatiche e commerciali tra i vicini litigiosi. Restano sul tappeto i problemi della definizione dei confini tra i due Paesi (il Monte Ararat è in Turchia, ma è il simbolo della nazione armena); la questione del Nagorno Karabakh ("isola" armena in terra azera) e, soprattutto, il riconoscimento da parte turca delle responsabilità nel genocidio dell'inizio del XX secolo. Qui sotto, un reportage dal Nagorno-Karabakh da me redatto nell'estate 2007.

L’intero territorio dello “Stato incipiente” è circondato da cime che s’avvicinano o superano i tremila metri, nei cui boschi vivono orsi e cinghiali, linci e lupi. Le si scorgono senza fatica appena si sale di quota. In fondo il Nagorno-Karabakh, l’Alto Karabakh, può essere abbracciato con uno sguardo, coi suoi 4400 chilometri quadrati, un fazzoletto di terra e un mare di problemi. Un territorio che ha conosciuto l’inferno.

Avvicinandosi a Stapanakert L’Alto Karabakh è un’enclave armena in terra azera. L’unica possibilità di entrarvi è un “corridoio” umanitario sotto controllo internazionale, così come, mutatis mutandis, quello che permette all’enclave azera in terra armena, il Nakichevan, di essere collegato con la madre patria. Passata la città di Goris appare il deserto umano della zona-cuscinetto. La strada è quasi sospesa su una lingua di terra di nessuno, contrappuntata tuttavia dalle chiese che l’armenità ha voluto costruire per affermare che questa terra non è azera o turca, gli odiati vicini a Oriente e Occidente. A Kashatrak, uno dei terminali del corridoio, i vincitori armeni dell’ultima guerra hanno voluto costruire una chiesa su uno sperone roccioso, visibile a 360 gradi. E una cappellina è stata eretta anche all’altro capo del cordone. Provocazione o fede? Entrambe, certamente.
Sulle pendici delle montagne si notano scheletri di case spolpate, frammezzati a villette decorose, quasi civettuole. È il retaggio della guerra etnica, qui come altrove. Come a Srebrenica, come a Kigali.
Stepanakert è la capitale di uno Stato che non è ancora tale, città distrutta nella guerra del 1993 e ricostruita di sana pianta, un vanto e una sfida. In effetti c’è ben poco da scrivere su questa “capitale per caso” (la vicina Shoushi lo era sempre stata), se non che è costellata di monumenti in puro stile socialista, che non era destinata a essere una grande città ma che la guerra l’ha catapultata nel vortice della storia, che la sua gente è composta da cittadini e da profughi di tutte le diverse parti del pur piccolo Nagorno-Karabakh.
I miei accompagnatori mi fanno visitare la città, a cominciare da un monumento in laterizi rossi, il simbolo del Paese: un nonno e una nonna, sintesi dei valori antichi e profondi cui la popolazione è attaccata. È commovente l’ingenuità di questa gente, peraltro rotta a tutte le violenze.
I miei amici, poi, mi trasportano come un pacco a mostrarmi ospedali, scuole, ristoranti e hotel orgoglio recente d’una nazione nata dalle ceneri. Il cimitero mi colpisce, quello dei “martiri”, perché è in tutto e per tutto simile a quello che ho visitato a Baku, sulla via degli altri “martiri”: stesse iscrizioni, stesse tombe in granito nero che portano incise al bulino le fattezze del morto… La guerra nasce, cresce ed esplode in primis tra simili, non tra popoli radicalmente diversi ma solo relativamente diversi.

Il presidente in maglietta nera Nel suo palazzo disadorno intervisto il presidente Bako Sahakyan, la cinquantina tossicchiante del fumatore, maglietta nera da combattente, sguardo sospettoso. Eletto nel 2007, ha dovuto far fronte a gravi inondazioni e all’aggressione nel marzo scorso d’una pattuglia azera (15 morti azeri e uno del Karabakh). È discusso, ma qui è normale. Sulla sua scrivania ha sette telefoni e otto telecomandi.
Come presentare il suo Paese agli europei? «È una neonata repubblica che ha storicamente una sua chiara ragion d’essere. Dopo la guerra ha iniziato un processo di ammodernamento e democratizzazione che farà entrare in Paese nella modernità europea». Si rischia una nuova guerra? «Non mi pare. L’incidente di marzo è stato originato dalla voglia di gloria di una pattuglia. Il nostro esercito è forte, e la separazione tra le due linee è sufficiente a mantenere la pace».
Come vivere senza industrie e un commercio adeguato? «Il segreto sta nella speciale relazione che lega i cittadini allo Stato: tutti sono orgogliosi di appartenervi. Purtroppo ci scontriamo col grave problema della emigrazione delle forze migliori». La diaspora? «Se riusciamo a sopravvivere è anche per merito loro. Non solo per gli aiuti materiali, ma anche per il radicamento nei valori dell’armenità». Indipendenza? «Dobbiamo dimostrare che siamo capaci di avere una amministrazione non corrotta e intrisa di valori culturali armeni. Poi potremmo parlare alla comunità internazionale di indipendenza. Siamo prudenti, non vogliamo seguire la via intrapresa da Ossezia del Sud e Abkhazia». Convivenza con gli azeri? «Sarà possibile, non so quando. Abbiamo a lungo vissuto assieme, in buone condizioni. Ma la presenza dei rifugiati, da entrambe le parti, complica tutto. Siamo per la semplificazione dei rapporti».

Il vescovo combattente Di tale avviso non è invece Pargev Martirosyan, arcivescovo armeno-apostolico di Shushi, che sorseggia il tè nel suo luminoso vescovado dinanzi alla cattedrale rinnovata: «Vivere con gli azeri non è possibile. Come potremmo convivere con gente che nel Nakichevan ha distrutto migliaia delle nostre croci, i khatchkar? Spero che il contenzioso aperto dalla vicenda del Kosovo ci porti ad una forte autonomia, secondo il principio della autodeterminazione dei popoli». La guerra è possibile? «Non credo, ma se ci inducessero in battaglia… combatteremmo! Tra quarant’anni forse potremo convivere di nuovo. Ora no».
Il vescovo Pargev è un uomo deciso, che ha fatto la guerra nelle trincee. «Per sostenere i nostri soldati», mi dice. Lo chiamano il “vescovo-mitra”. Conosce bene la storia: «Nel 1921 Stalin decise che il nostro armenissimo Alto Karabakh diventasse azero: proprio allora cominciò la distruzione di Shushi e della regione. Allora avevamo 500 chiese e monasteri: tutti distrutti o chiusi. Finché negli anni Cinquanta Mosca accettò che venissero riaperte due chiese e due monasteri». Il presente è migliore: «In 19 anni abbiamo restaurato e costruito 41 chiese e monasteri, e continuiamo. E le chiese sono sempre piene». Riflette, si liscia la barba pepe e sale, gli occhi gli si inumidiscono: «Nella guerra del 1991-1994 abbiamo perso 65 mila giovani, con 70 mila orfani e disabili, e Stepanakert era un cumulo di macerie: vuol dire che di passi in avanti ne abbiamo fatti!».
È viva l’identità cristiana? «Siamo prima cristiani e poi armeni, e sappiamo che la nostra Chiesa madre non è stata solo uno strumento spirituale, ma ha sostenuto e sviluppato la cultura e la tradizione armene. Questa identità non ci impedisce di dialogare con tutte le religioni, come testimonia la diaspora armena che vive in minoranza in altri contesti religiosi e culturali». E coi musulmani-azeri? «I problemi sono etnici e culturali».

All’Ong La “Helsinki Citizens Assembly” è un’organizzazione non governativa che prepara “operazioni di pace” in tutta la regione del Nagorno-Karabakh: da scuole di cittadinanza a serate di conoscenza tra etnie diverse, all’aiuto per i profughi. «Nelle città si è più aperti che nelle campagne – mi dice Sveta Sangiryan –. La mentalità dei giovani sta mutando, bisogna partire dalla gente, cambiare le mentalità, poi i governi seguiranno. Così accadrà anche da queste parti».
Interviene il presidente dell’Ong, Karen Ohanjamyan: «Ad Amsterdam abbiamo potuto far incontrare azeri e armeni dell’Alto Karabakh, cosa ancora impensabile a livello governativo. Anch’io ho dovuto fare i miei passi, mettendo da parte ricordi e sentimenti per convincermi che dovevo essere un’operatore di pace: era possibile. Certo, convincere i profughi dell’Azerbaijan a incontrare degli azeri non è impresa facile. È quasi impossibile! Ma vogliamo arrivarci».
Qui lavora come cooperante volontaria una giovane della diaspora, Tamar Hayrikyan, di Boston: «Ho deciso di studiare la mia lingua, per poter aiutare la mia Armenia. Ed ora eccomi qui. Per me il rispetto dei diritti umani è fondamentale: per questo ho chiesto di essere destinata al Nagorno-Karabakh, perché c’è bisogno di gente che voglia la pace. L’approccio umanitario mi sembra indispensabile per lavorare anche sui diritti umani che qui vengono poco rispettati ».
Entra una donna bionda ossigenata, ben in carne, dal sorriso contagioso. È azera, si chiama Almas. Per l’Ong ha organizzato un paio di cene per armeni a base di cucina… azera! «Sono rimasta perché sono sposata a un armeno – si piega –. Qui c’erano pochi uomini azeri, e quindi noi ragazze cercavamo il marito anche tra gli armeni. Ora sono felicemente sposata da 34 anni e ho due figli. Non sono né cristiana, né musulmana… ho ricevuto un’educazione sovietica! Anche mio marito è ateo». La guerra? «Terribile! Una guerra soprattutto politica, perché qui in fondo si viveva bene insieme, i problemi erano marginali… Amo gli armeni, quindi non la capivo proprio la guerra. Non ero mai stata rifiutata o emarginata, perché quest’odio?». Non è la situazione migliore, comunque, la sua: «Mi manca il tempo che fu, è ovvio, mi mancano i vicini azeri, la lingua, le relazioni, la mancanza di parenti vicini… Mi manca anche l’Urss, quando solo il libero mercato non esisteva».

Gandzasar Sulla cresta di una collina verde dalla vegetazione quasi impenetrabile svetta la sagoma familiare delle chiese armene. Protetto da un muro di pietra antica, l’affascinante monastero di Gandzasar da un lato è aperto sull’infinito delle valli e dei rilievi, mentre dall’altro è chiuso sulla finitezza del monastero che ospita di nuovo quattro monaci. Tutto, o quasi, è restaurato a dovere. Penetro nella chiesa scontrandomi coi fedeli che escono arretrando per la porta principale, segnandosi alla maniera ortodossa. Dall’interno provengono nenie liturgiche, reminiscenze di lontane profezie sul popolo armeno, più che di vicine promesse. Tutto in Armenia e nella sua Chiesa ha un legame con la tradizione. Apostolica, ovviamente.
Nell’atrio, i candelabri consumano in quantità industriale candeline gialle e distorte che i piccoli fedeli dispongono in geometrie bizzarre. Mi stupisce la fede che la gente mette nel semplice gesto di accendere un cero. Attraverso la soglia di una porta modesta nelle dimensioni ma ricca nelle decorazioni filtrano note e grani: quelle delle salmodie liturgiche, quelli dell’incenso che brucia nel turibolo. Dalla feritoia che s’apre sull’abside, filtra una violenta lama luminosa che si solidifica nelle volute dell’incenso. Tre monaci recitano le formule canoniche. Capisco perché sia stato Gregorio l’Illuminatore a portare il cristianesimo agli armeni nel III secolo.
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Per capire meglio l’Alto Karabakh Regione da sempre abitata in prevalenza da armeni, conobbe l’abominio del genocidio dei primi anni del Novecento. Poi fu destinata dalla geografia staliniana all’Azerbaijan, nel 1921. Appena crollato il regime comunista, gli armeni cominciarono a rivendicare l’autonomia della regione. Dopo scaramucce e scontri iniziati già nel 1988, si scatenò una violentissima guerra, durata dal 1991 al 1994, che provocò persecuzioni per gli armeni che erano in Azerbaijan, in particolare a Baku, e per gli azeri che abitavano il Nagorno-Karabakh. Si dice che vi siano stati 100 mila morti in totale e 200 mila profughi. Cifre enormi, se si pensa che attualmente il Nagorno-Karabakh è abitato solamente da 192 mila persone.

giovedì 8 ottobre 2009

I "giusti dell'Islam"


Viene inaugurata oggi a Roma l'esposizione della mostra "Giusti dell'Islam" alla Camera dei Deputati. Al Monastero Santa Cecilia di Roma, il 24 settembre 2008, era stata inaugurata la stessa esposizione. Mi era stato chiesto di portare il mio contributo. Eccolo.

Pudore e malessere. Politically incorrect. Sono questi i sentimenti che troppo spesso contraddistinguono soprattutto nel mondo musulmano, ma anche in quello cristiano e in quello ebreo, coloro che in qualche modo ricordano questi “giusti”, coloro cioè hanno avuto modo di salvare degli ebrei dalla Shoah, di proteggerli a loro rischio, di evitare loro morte, disperazione, barbarie. È un dato di fatto, ovviamente legato in mille rivoli con la troppo prolungata situazione di conflitto nella terra che fu di Abramo e dei profeti.

Ricordo un episodio a Damasco, mentre stavo intervistando un deputato considerato assai “aperto”, Muhammad al-Habash. Giunti a parlare della questione israeliana, mi resi conto che non era più possibile avere una conversazione razionalmente libera e profonda. C’era chiusura e pregiudizio, non tanto legato alla singola persona – era un uomo di grande cordialità –, quanto alle situazioni storiche troppo a lungo avviate su itinerari che si rivelano impasse. Finché mi convinsi che bisognava ripartire da Abramo, dalla sua promessa. E il deputato cominciò a raccontarmi le sue piccole storie di rispetto e di convivenza, in fondo di alto rispetto per gli ebrei. Siamo all’interno di quelle “sofferenze della memoria”, come scrive Dimitri Nicolaidis, che vanno guardate, analizzate e assunte su di sé.

Ho girato non poco il mondo a maggioranza musulmana per i miei libri, e posso testimoniare come in effetti non siano ormai evidenti le tracce di questi uomini. Anzi, sono quasi impercettibili. A maggior ragione, allora, sono encomiabili iniziative come quella di Robert Satloff, o questa mostra itinerante, orchestrata da Giorgio Bernardelli, per scoprire queste tracce flebili ma indelebili.
Ricordo ad esempio in Tunisia, allorché un vecchio e oscuro imam di Hammamet, dopo lunghe ore di tè alla menta e di iodio sulla terrazza d’un palazzetto nella casbah – proprio accanto alla tomba di Bettino Craxi – cominciò a raccontarmi la storia di quel musulmano che poi individuai con Khaled Abdul-Wahab, e del rapimento dell’ebrea
Odette Boukhris da parte dei nazisti e dell’ospitalità data a 24 famiglie ebree nella sua tenuta. Poco di quel che mi raccontò trova riscontro esatto nel libro di Martin Gilbert e in quello di Satloff, ma lo spirito della sua tradizione orale era quello giusto: contro l’abominio, contro la violenza, bisogna non guardare in faccia se uno è ebreo o cristiano o musulmano. Era un “costruttore di tende abramitiche”, come direbbe Massimo Giuliani.

Altre tracce le ho trovate in Bosnia, a Sarajevo, città d’incanto e d’orrore. Zejneba Hardagan è un nome che suona come musica alla gratuità. Il quartier generale della Gestapo si trovava di fronte a casa sua. Avvertirono gli amici ebrei degli spostamenti dei nazisti. Ne salvarono non pochi, tra cui Kabilio. Il padre di Zejneba fu scoperto nelle sue trame, e venne internato in un campo di concentramento, dove morì più tardi. Nel 1990, durante l’assedio di Sarajevo, ricevette una lettera: la famiglia di Kabilio la invitava a rifugiarsi a Gerusalemme. Lì Zejneba trascorse gli ultimi anni della sua vita, e ora la sua salma giace in un cimitero ebraico. Una storia che mi venne raccontata da Alma Sunje, un’altra musulmana, che l’aveva come vicina.

La vicenda di Satloff, della sua testardaggine, è uno di quei gesti di gratuità nella ricerca che aprono la via alla riconciliazione semplicemente rispolverando la memoria. Memoria personale e collettiva. Ma un occhio attento può incontrare questi “giusti dell’Islam”, o più semplicemente dei “giusti” che non hanno esitato e non esistano a sentirsi solidali con degli ebrei. Vorrei, più che ripercorrere la lunga storia di coloro che hanno salvato degli ebrei durante l’abominio della Shoah, cercare di trovarne alcuni che, nell’oggi complicato delle relazioni internazionali, non esitano a lavorare perché ciò non si ripeta.

Una mostra come questa ha senso se in certo modo diventa una gara all’emulazione, certamen aemulamini, in tepidi strisciante antisemitismo e di evidente razzismo. Di esclusione.

martedì 6 ottobre 2009

Lo sceicco Tantawi e il velo

Ha fatto il giro del mondo la notizia che la massima autorità morale dell'Islam sunnita, lo sceicco Tantawi, a capo della poliedrica istituzione Al Azhar del Cairo, vuole vietare alle studentesse di portare il velo che lascia scoperti solo gli occhi. Avevo incontrato lo sceicco nel 2005. Ecco quello che mi aveva detto.

A proposito della globalizzazione: «Per noi musulmani il problema principale posto dalla globalizzazione è quello dell’ignoranza. Chi raggiunge una conoscenza sufficiente non trova difficoltà nella vita. Chi è sano, chi capisce, chi conosce la fede e le realtà della sua vita, non trova mai ostacoli insormontabili. L’uomo che non sa, invece, pensa male e, ad esempio, arriva a credere che non tutti sono fratelli su questa terra, e che l’umanità deve essere uniformizzata». Chi è allora il prossimo, l’altro per un “musulmano globalizzato”? «Colui che amo e che rispetto. Colui che è sano, che ama la giustizia, che ama agire con fedeltà, che ama la verità, che ama le virtù, che non fa del male agli altri, che non provoca disastri e rovine, che non pratica il terrorismo per distruggere o per ammazzare la gente. L’altro è l’uomo che ama le virtù, che non ama le cose negative. Questo è il prossimo amato, che sia governante o governato, maschio o femmina, chiunque».

A proposito dell'immigrazione musulmana nei Paesi occidentali: «Io raccomando sempre – mi risponde –, quando un egiziano arriva in Italia, in Francia, in Usa o in Inghilterra, di essere un buon esempio di musulmano per tutti, nella verità, nell’onestà, nell’osservare le leggi del paese dove è emigrato. L’immigrato deve essere un esempio per la cittadinanza, deve fare il suo dovere di cittadino, non allontanandosi perciò dalla legge del paese di cui è ospite». È allora auspicabile che si instauri un’etica globale? Lo sceicco risponde solo indirettamente alla domanda: «Un’etica globale è presente sin da quando Dio ha creato il mondo, e continuerà ad esistere fino alla fine dell’esistenza dell’uomo sulla terra. Sin dall’antichità la giustizia è una virtù e l’ingiustizia è un vizio, e ciò non cambia nel tempo e nello spazio: la giustizia rimarrà giustizia fino alla fine del mondo. E così l’onestà, la cooperazione, la benevolenza, i rapporti positivi tra la gente…».

A proposito della donna: «La donna – mi dice – è nostra madre, nostra sorella, nostra figlia, nostra moglie. È tutto nella nostra vita», mi risponde in certo modo disarmante e con lo sguardo lucido. Da una settimana ha perso la sua amata consorte.

A proposito del dialogo interreligioso: «Ci si riunisce spesso con i fratelli del Vaticano. Le nostre porte sono sempre aperte per loro. E capiamo sempre più che siamo d’accordo su cose fondamentali, come le virtù: aiutare i più deboli, i poveri, i miseri, gli ammalati. Nel dialogo coloro che hanno la fede si aiutano a propagare giustizia, fedeltà e cooperazione. Noi preferiamo questo dialogo alle accuse di infedeltà. Certo, non discutiamo sulla dottrina, perché tale dialogo fa più male che bene: tu non puoi convertirmi al cristianesimo, e io non posso convertirti all’Islam, io offro quello che ho, tu offri quello che hai. Il giudizio finale spetta a Dio». Lo sceicco Tantawi mi dice che questo è anche il pensiero di Giovanni Paolo II. Quando ne parla, pare ricordare l’amico ricevuto proprio nello studio dell’intervista: «Ci siamo seduti su queste due sedie, abbiamo riso insieme, conversando con calore e rispetto. Quando si è allontanato, gli ho raccomandato di curare la sua salute, perché il papa è importante per tutti, anche per noi musulmani. L’impressione più profonda avuta incontrandolo è stata… la fraternità. Il papa è un uomo di fraternità; ho avuto la certezza che siamo tutti figli di Adamo».

A proposito delle religioni abramitiche: «La diversità dei pensieri e degli obiettivi sono gli ostacoli e nello stesso tempo le sfide del dialogo. C’è chi occupa la terra di un altro, e c’è chi prende possesso dei beni dell’altro, malgrado le religioni di Abramo spingano alla cooperazione tra gli uomini. Lì sta la religione, quella che Dio ha fatto scendere sulla Terra tramite i profeti, quella delle tre fedi di Abramo. Chi ha uno spirito religioso combatte contro ingiustizia, fanatismo e terrorismo, e collabora al bene».

A proposito della fraternità: «La fratellanza universale! Tutte le religioni celesti, e quindi anche l’Islam, hanno sempre detto che tutti abbiamo un padre e una madre comuni. Che siamo in Asia, Europa, Africa, Australia, America, Egitto o Italia, tutti siamo fratelli nell’umanità, anche se le religioni sono diverse. Siamo in Egitto, un paese dove vivono musulmani e cristiani. Il seguace di Muhammad va alla moschea per pregare e il cristiano alla chiesa. Quando escono, si salutano. In ogni palazzo dell’Egitto si trovano abitanti delle due religioni. Quasi tutti, perciò, cooperano: talvolta un musulmano e un cristiano hanno addirittura un affare comune. Dunque la diversità nella fede non impedisce tale cooperazione vera, la prosperità e il bene».