lunedì 24 dicembre 2012

Gesù Firmino

Natale ai tropici. A Capo Verde. Anche qui si rinasce.

Arcipelago di Capo Verde. Isola di Fogo. Villaggio di Portela. Al centro della Chã das Caldeiras, ai piedi del vulcano attivo Pico de Fogo, il paesello si rivela uno spaccato antropologico di tutto rispetto. Case basse, del color della lava, squadrate secondo il modello contemporaneo o a pianta circolare secondo la tradizione, si alternano in un disordine urbanistico che pare in realtà la riproduzione in scala di una colata. L'atmosfera pare natalizia per il semplice e inusitato fatto che sulla lava, e quindi anche nell'abitato, crescono spontanee delle splendenti piante rosse, che anche qui chiamano stelle di Natale. Nella piazzetta del paesello, che conta mille abitanti assieme al borgo attiguo di Bangaeira, un branco disordinato di ragazzini neri come la lava gioca a calcio con un pallone pure nero, che pare una bolla di lava sgonfia. Lì vicino si fronteggiano la chiesa avventista, tutta bianca e azzurra, e quella cattolica, più articolata, dalle imposte verdi. Poi la scenetta familiare di una giovanissima madre che elabora con perizia le treccine delle sue due figliolette, una nera come lei, l'altra bionda con gli occhi azzurri, ricordo della storia antica d'un francese che nel XVIII secolo si fermò da queste parti, incantato dalla bellezza del luogo, impiantando la vite, avviando un reale progresso sociale della popolazione e spargendo il suo seme ai quattro venti: pare che un quinto della popolazione abbia il suo sangue, e talvolta i suoi capelli biondi. Poi il centro del paese, un bar angusto gestito da Ramiro, un'epopea da solo, musicista e vinaiolo e vate e gendarme (perché qui c'è una stazione di polizia, ma vuota). Gli avventori stanno sulla strada a sorbire vino e ad ascoltare musica suonata rigorosamente dal vivo.

Penetro poi per un viottolo nella seconda e nella terza fila di case, attirato da una abitazione circolare che mi pare perfetta per far da pari, nel mio obiettivo, con il cono rovesciato del Pico de Fogo. Dinanzi all'edificio scorgo un bue e un asinello, è tempo di Natale, la scena evoca altre contrade povere di altri tempi. Ma tra i due animali non c'è nessuna mangiatoia. Solo un telaio arrugginito di chissà quale auto. Un po' deluso, mi accingo a fotografare la casa dal tetto conico allorché mi accorgo che, dentro l'angusta porticina aperta mi guardano quattro occhi. Mi avvicino, metto la testa appena dentro la stanza circolare: un giovane uomo tiene in braccio il suo piccolo. L’uomo mi dice di chiamarsi Firmino, così come il suo erede. Mi invita ad entrare. Gli occhi si assuefanno al buio, mettendo a fuoco un caos quasi primordiale. Tutto il loro bene è affastellato lungo il muro circolare. Ed è allora che mi accorgo che, in un angolo che non è un angolo perché non potrebbe esserlo, ma che è il centro della scena, una donna dall'età indefinibile sta scaldando dell'acqua su un misero fuoco di carbone. Mi offre del tè. Mi sorride, e il suo sorriso accende nel mio cuore un'idea dapprima confusa, poi sempre più chiara, man mano che ne distinguo i tratti delicati del volto: Maria. Ecco, mi dico, che il presepio si completa: sì, d'accordo, a Betlemme era Giuseppe ad avere un'età indefinibile e Maria era la giovane, la giovanissima tutta bella. Ma il presepio è innumerevolmente riproducibile perché cambiando i fattori il prodotto non cambia. Questo è il mio presepio 2012.

Lasciamo Chã das Caldeiras in una luce serale che pare rendere il mare di lava, da impressionante che era nella sua massiccia neritudine, ad impressionante come un mare in tempesta. Tutto prende rilievo, creando infiniti movimenti di magma, mentre la ferita del Pico Pequeno pare riprendere a sanguinare e la luna fa capolino dietro una lingua di lava che pare un arco, proprio dove il Pico de Fogo scende precipitosamente a valle. Risalgo al passo dove inizia il parco nazionale. E riappare. Lui. Il mare, l'oceano, il liquido amniotico del mondo bambino che anche quest'anno rinasce. Sì, rinasce. L'ho visto lassù, a Chã das Caldeiras. Sì chiamava Gesù Firmino.

 

lunedì 17 dicembre 2012

Gaeta, la luce spaccata



Visita alla cittadina del Sud del Lazio che vive di pesca, di militari e di turismo. Ma anche del santuario sulla pietra. 

C’è un luogo a Gaeta, nel sud del Lazio (forse laziale per caso, perché Napoli pare assai più presente di Roma), che sembra simboleggiare un’intera città. È la “montagna spaccata”, ora sede di un santuario dedicato nientemeno che alla Trinità. Fu edificato nell’XI secolo su una fenditura nella roccia che scende alla Grotta del Turco, creatasi, secondo la leggenda, al tempo della morte di Cristo, quando si squarciò il velo del tempio di Gerusalemme. Lungo la scalinata che porta nelle viscere della montagna, lungo la stretta spaccatura di roccia, è possibile notare sulla destra un distico latino con a fianco la cosiddetta “mano del turco”, cioè la forma di cinque dita, che secondo la leggenda si sarebbe formata nel momento in cui un “miscredente”, un marinaio turco che non credeva alla storia raccontatagli sulla causa della spaccatura nella roccia, si era appoggiato alla roccia che miracolosamente era diventata morbida sotto la sua pressione, trattenendo l'impronta della sua mano. Nel 1434, dall'alto dei due costoni di roccia si staccò un macigno che andò ad incastrarsi tra le pareti della fenditura. Su di esso venne realizzata una piccola cappella dedicata al Crocifisso, dall'interno della quale si può ammirare lo strapiombo su cui è situata. Ma, prima di addentrarsi nella sua evocatività, è bene immergersi nella cittadina, passare da uno specchio all’altro, bagnarsi sulla bella spiaggia di Serapo, fare una passeggiata sui moli del porto, occupato dalle imbarcazioni della marina militare statunitense, sorbire un caffè nel Lungomare Caboto, degustare una succulenta e direi preziosa tiella al polipo (e poi una seconda alle erbe con uva passa). Solo più tardi la salita al Santuario della Santissima Trinità può creare i collegamenti mentali necessari per capire il luogo: perché a Gaeta tutto è spaccato. Ma per lasciare filtrare la luce, la stupenda luce che ferisce le pupille per la sua intensità, ma che riscalda il cuore con la sua grazia.

mercoledì 12 dicembre 2012

Colorno, palazzo ducale e culatello reale


Nella bassa parmense che degrada vero il Po, ricordi d'adolescente.

Mio nonno Pierino, agrimensore stimato e coraggioso, ha il suo studio all’ingresso del Palazzo ducale di Colorno: la “rocca di Colorno” fu costruita nel 1337 da Azzo da Correggio con lo scopo di difendere l'Oltrepò. Appartenne alle famiglie dei Correggio e dei Terzi e fra il XVI e il XVII secolo fu ristrutturata da Barbara Sanseverino che la trasformò in un palazzo e ne fece la sede di una raffinata corte e di una prestigiosa raccolta di dipinti di Tiziano, Correggio, Mantegna e Raffaello.  Passò nel 1612 ai Farnese. Nel 1731 il ducato passò aCarlo III di Borbone, che trasferì a Napoli le collezioni e gli arredi del palazzo. Alla morte di Ferdinando il Ducato di Parma venne annesso alla Francia: il 28 novembre 1807 un decreto di Napoleone lo dichiarò “Palazzo imperiale”. Dopo l'Unità d'Italia il palazzo venne ceduto dai Savoia al Demanio dello Stato italiano, e nel1870 venne acquistato dalla provincia di Parma.
Ho modo di visitarlo solo nel giorno in cui il nonno, ormai anziano, lascia quell’amato locale, sistemando sul carro dello spesato, trascinato da un trattore Fiat che all’epoca era un vanto della fattoria, i faldoni di sammartini, sli strumenti delle misurazioni agruicole e persino un busto di marmo d’un antico professionista della terra. Ne approfitto per spaziare nel grande cortile del palazzo, correndo su uno scomodissimo acciottolato o sulla ghiaia dei vialetti, in percorsi che paiono più adatti agli equini che agli umani. Ma proseguo fino a scrogere affreschi straordinari attraverso porte socchiuse e inferriate che segmentano le pitture. Salgo le scalinate lunghe, una prima rampa e poi una seconda, simmetriche, finché un guardiano mi scaccia in malo modo. E allora il nonno mi richiama all’ordine, per aiutare il contadino a caricare il carretto di suppellettili dell’agrimensore. E la fatica del ragazzino che io sono mi pare una compartecipazione alla fatica di coloro che costruirono quella bellezza che è il Palazzo ducale, anzi la Reggia ducale. Ma di reale mi sembra solo il panino col culatello che il nonno ci offre come compenso per il trasloco!

martedì 4 dicembre 2012

Misurina, come in un sogno



Agosto 1964. Un albergo, un lago dolomitico, le Tre Cime di Lavaredo...

Venivamo da Padola di Cadore, nel Comelico, da una cinquantina di chilometri di distanza, dove trascorrevamo le nostre vacanze estive. Il lago di Misurina era un sogno, perché quello specchio d’acqua largo e incantevole, incastonato tra le montagne ampezzane, mi pareva un pezzo di cielo disceso in terra, quasi una benedizione per la terra dolomitica. Anche se tutte le volte che ci eravamo avventurati fin lassù, quasi sempre avevamo trovato tempo inclemente. Ma aspettavamo che le Tre Cime di Lavaredo apparissero per un attimo in mezzo alle nuvole, ed ecco che la mia, nostra gioia era piena. Proprio così, basta poco per gioire. E poi c’intrigava il Grand Hotel Misurina, che chiudeva il lato meridionale del lago, quello verso il Cristallo, maestoso, giallo e umido negli intonaci. Avevo fantasticato avventure mirabolanti in quelle stanze. Finché arrivò il gran giorno, il Conte di Carpegna in persona ci invitava a pranzo! Incredulità. I genitori ci vestirono a festa, ma non avevamo granché con cui abbigliarci per una reception. L’avventura fu in realtà un piccolo inferno: i camerieri, i genitori e gli ospiti ci controllavano in ogni nostro movimento. Io inciampai per le scale. Mio fratello Cesco se la fece addosso e la Tatina stette male in auto. Pioveva. Ma all’uscita, scendendo i pochi gradini del perron, d’improvviso il cielo lasciò filtrare uno squarcio azzurro che subito fu riflesso nel lago: le Tre Cime!

martedì 27 novembre 2012

Sutri, etruschi ancora vivi



Nella cittadina laziale si respirano i millenni. Affastellati

Non sappiamo, noi italiani, quante ricchezze siano sparse sul nostro territorio, ovunque. Pare che l’Unesco abbia calcolato che quasi due terzi delle opere d’arte esistenti nel mondo abbiano dimora nel nostro Belpaese. Abbiamo troppe bellezze sul nostro territorio al punto che non abbiamo il tempo di conoscerle e apprezzarle. Mi capita di pensare a tutto ciò allorché transito sulla Cassia, tra Roma e Viterbo. Mi fermo per una pausa a Sutri, borgo che è difficile dire di che epoca sia: basti pensare che, definita “città antichissima”, conta mura megalitiche sopra le quali sono state costruite altre mura nel VII secolo a.C. e poi altre ancora nel 310 a.C….
Il centro del borgo, issato su uno sperone di tufo, è gradevole e accattivante, con le sue fontane e i suoi palazzi ben restaurati, ma in fondo non è particolarmente originale. Sì, la cattedrale dell’Assunta ha sembianze tardo barocche, anche se la sua anima è romanica, con una cripta da urlo, otto navatelle con una miriade di colonnine diverse… Sì, la “piazza-salotto”, quella del Comune è intima e fraterna, bella ed elegante, pare un tinello predisposto per cocktail e ricevimenti a tutte le ore. Sì, una torre medievale, quasi abbandonata, svetta ardita e impertinente. Ma l’interesse di Sutri, che è posta sulla via Francigena, sta alla base della città, letteralmente. Sì, perché la base dello sperone tufaceo è traforata dai locali agricoli, ma anche e soprattutto da un gran quantità di tombe rupestri, dal IV secolo a.C. in poi.
Ancora più importante è il parco archeologico di Sutri, appena più in là del paese, attorno ad un secondo sbuffo di roccia porosa, che ospita non poche sorprese, a cominciare dallo splendido ipogeo della Madonna del parto e dalla necropoli. È nell’anfiteatro – piove, tira vento e l’umidità pare trasudare da ogni pietra – che i sentimenti più profondi paiono venire alla superficie: i gradoni sbozzati dell’anfiteatro a forma ellittica del VI-V secolo a.C. raccontano una civiltà, quella etrusca, che è morta anagraficamente, ma che vive nel sangue di questa gente, rimane nella bellezza della giovane donna che sfiora le pietre del portale d’ingresso, così come nella vecchiaia dolorosa del vecchietto che vende funghi porcini all’incrocio per Carbognano.

lunedì 19 novembre 2012

Carbognano, vino e inchiostro



Nella Tuscia alla ricerca dei borghi appollaiati sugli speroni di tufo.

I borghi della Tuscia viterbese hanno il fascino sottile di una natura superba che ricopre col suo mantello la superficie tufacea, tenera, che pare un territorio bombardato: forre, dirupi, falesie, pinnacoli. Carbognano è uno di questi villaggi appollaiati su uno sperone di tufo. Qui anche la storia fece il suo corso: nel Mille dipendeva da Farfa, mentre nel Medioevo fu contesa tra signorotti locali (Anguillara e Di Vito) e lo Stato pontificio. Nel 1962 Pio II concesso il paese al conte Cristoforo di Carbognano. Con Alessandro VI il borgo passò alla bella Giulia Farnese, moglie di Orsino Orsini e amante del pontefice. Con Urbano VIII divenne principato sotto i Colonna. 

È una giornata che s’annuncia di tempesta. Ma, come spesso accade nei dintorni di Roma, le previsioni nei fatti vengono smentite. E così la giornata è si movimentata, sì ventosa, sì incerta, ma comunque straordinariamente luminosa. Dopo un girovagare festivo senza meta – fantastica pardita di tempo –, giungiamo in uno dei tanti borghi appollaiati sugli speroni rocciosi della zona, Carbognano appunto. Cerchiamo un ristorante, non se ne trova traccia. Nella piazza della chiesa dedicata a San Pietro apostolo, del XVIII secolo neoclassico, su una parete si scorge uno strano conglomerato che si nrivela composto da pentole d’alluminio affisse al muro, tra rampicanti e fiori, oltre ad una vecchia cassetta della posta rossa: è l’annuncio pubblico dell’esistenza de “La locandina di Bacco“, un piccolo ma delizioso ristorante in cui, sembra, si mangia e si beve in allegria, in compagnia, in simpatia. L’interno appare subito curato, caldo, in qualche modo chic e rustico nel contempo. Ma è al completo. Insistiamo, finché proponiamo al ristoratore – barba bianca, piccolo chignon e una grande affabilità – di prepararci un tavolo all’esterno, sulla terrazza, visto che il tempo appare leggermente più clemente di quanto annunciato; persino il sole pare squarciare l’aria tersa e fresca per scaldare le nostre membra e rianimare cose, persone ed edifici.

Poi è il festival dei sapori e degli odori, semplici, accompagnati dalla premurosa attenzione dello chef, il signor Mauro, che suggerisce senza mai imporre, sottolinea senza mai parafrasare. Si comincia con un carpaccio di vitello con funghi porcini e lonza con pinoli, radicchio e arance, per proseguire con delle gavinelle (rustiche fettuccine) al ragù di cinghiale e giubilare con una tagliata di manzo croccante ancora ai funghi porcini, finendo quindi con un dessert che combina panna, castagne, cioccolata, meringa e crema in una composizione artisticamente discreta e gustativamente straordinaria. Il vino? Un “Veste Porpora” della Tenuta Ronci di Nepi, un Igp di 13 gradi e mezzo: un nettare «del color della porpora – leggo –, con sentori di frutti rossi e di spezie. Al gusto è morbido, rotondo con tannini fusi che conferiscono una lunga persistenza». L’apoteosi è una goccia di grappa bianca e morbida, di Sangiovese, versata nella tazzina del caffè ormai consumato. Poi si vive di ricordi e di retrogusti tornando docilmente verso casa, osservando il verde fresco e bagnato della Tuscia fuori dai finestrini. Qualcosa di simile alla pacificazione, se non alla pace.

martedì 13 novembre 2012

Moní Aretíou, l’oasi in mezzo al fuoco



Viaggio a Creta/4 - Le sorprese del "fuori pista", fuori cioè dai circuiti battuti dal turismo.

Creta orientale. Dopo una commovente visita all’isola-lebbrosario di Spinalónga, risalgo con la mia piccola auto dalle gomme lisce la montagna alle spalle del borgo marino di Pláka, mentre un vero fortunale si abbatte sulla regione. Gli ulivi si tingono di verde cupo più che d’argento, battuti come sono dalle violente raffiche di vento che fanno sbandare la fragile scatola di latta che mi sta portando verso Occidente. Qua e là appaiono gli scheletri di quelli che furono mulini a vento, mentre sullo sfondo delle onde marine imbiancate si mostrano le silhouette dei mulini a vento del XXI secolo, le pale eoliche che generano elettricità a basso costo economico, ma con un forte impatto ambientale. Sono brutte!
D’improvviso il sole squarcia le nubi, che pure permangono una minaccia, creando un infinito luccichio che rende gli ulivi d’argento, l’erba un manto di velluto zigrinato, i muretti di sassi un supporto ocra alla creazione. Finché non giungo verso la sommità della montagna, in una zona colpita la scorsa estate da gravissimi incendi, di cui ancora si parla nella zona. Avanzo, tornante dopo tornante, in una sorta d’inferno dantesco che, illuminato dalla luce tersa dopo la pioggia, accentua ulteriormente la potenza di morte della scena: il nero appare ancora più oscuro, gli scheletri degli alberi e degli arbusti paiono mani bruciate che gridano la loro rabbia al sole.
Dopo aver scollinato, mi par di scorgere qualche tornante più in basso un ciuffo di verzura che brilla di luce propria. M’avvicino, è il monastero di Moní Aretíou, un piccolo cenotafio nel quale vivono un paio di monaci anziani. Entro, il cancelletto di legno è aperto. Non c’è anima viva, ma ogni cosa sembra vivissima, ravvivata dalla luce del sole cristallina sullo sfondo blu e nero del cielo. Le due cappelle, una più piccola e intimamente semplice, l’altra più grande e più ricca, raccontano le orazioni e le lotte interiori dei monaci, le preci di tanti pellegrini saliti quassù a firmare un compromesso con la provvidenza divina. Mentre il rigoglioso e coloratissimo giardino che separa le due chiese dagli altri edifici del monastero racconta la pace raggiunta e la fecondità dello Spirito. In un angolo della corte principale noto un pozzo, alla cui acqua si abbeverano i monaci e anche le piante. Un secchio è appeso alla carrucola di ferro, arrugginito ad arte. Mi trattengo a pregare il Dio dell’intimità inginocchiato su un banco nella cappellina di Santa Barbara e il Dio della creazione seduto su una panchina nel cortile. Poi riprendo la via della valle, senza incontrare anima viva.
A valle, nel paesino di Karídi, un gioiellino di tradizionale habitat rurale cretese, sorbisco un caffè in un locale spoglio, mentre fuori ha ripreso a piovere. Il gestore mi chiede da dove venga. Gli rispondo: «Dal paradiso terrestre di Moní Aretíou». Al che mi sorride orgoglioso: «Quest’estate l’abbiamo salvato dalla distruzione del fuoco, noi cittadini di questo borgo. Siamo molto devoti a Maria per averci dato la grazia di non perdere il nostro gioiello. Ma grazie anche al creatore che ha portato l’acqua fin lassù: senza il pozzo, l’unico dell’intera montagna, quest’oggi di Moní Aretíou resterebbe solo un mucchio di pietre annerite».

mercoledì 7 novembre 2012

Cnosso, il vero e il falso


Viaggio a Creta/3 - Il sito archeologico più noto dell'isola cela la diatriba tra diversi tipi di restauri.
Che sia il luogo principe della grande tradizione minoica nessuno lo nega, come il fatto che le rovine scoperte prima dal greco Minos Kalokairinos (1878) e poi dall’inglese Arthur Evans (1894) siano assolutamente le più importanti e le più vaste dell’intera isola di Creta. Un giro dalle parti di Cnosso è ineludibile in una pur breve scappata nell’isola di Creta. Pochissimi altri luoghi al mondo possono riportare indietro nel tempo così lontano e con altrettanta forza di convincimento storico: risalire ad una civiltà affermata ed evoluta come quella minoica, duemila anni prima di Cristo, cioè quattro millenni addietro, è operazione altamente ardita, ma straordinaria. Ardita, perché quanto è stato finora ipotizzato sulla civiltà minoica è tanto fantastico quanto leggendario. Straordinaria, perché si respira la Grande Storia a Cnosso. Il palazzo sorge nelle alture di Kefala e nella valle di Kairatos, a due passi dall’attuale capitale Iráklio: il mito del Minotauro (sacerdote con un elmo a forma di toro) e del labirinto in cui fu ucciso da Teseo viene ambientato proprio qui. Del re Minosse, non c’è traccia sicura!
C’è folla a Cnosso, viene dal mondo intero a vedere quanto sembra aver già visto sui propri computer. I giapponesi, in gruppi fastidiosissimi perché simili a muri umani lunghi e impenetrabili – guai a cercare di attraversarli, si viene malamente espulsi da quei cannoni che sono gli obiettivi delle macchinette fotografiche e dalle quelle lance che sono i cavalletti! –, seguono sugli schermi dei loro aggeggi elettronici quello che vedono, in una furia enciclopedica che lascia senza fiato. Chissà cosa mai resterà nel loro immaginario dopo questa visita: probabilmente i “falsi” eretti dall’altra furia, quella restauratrice e ricostruttrice di Mr. Evans. Colonne dipinte di rosso pompeiano, affreschi di delfini guizzanti appena immaginabili negli originali ritrovati, architravi in cemento armato che probabilmente erano lignei in origine. Resterà nella loro memoria quel che forse meno riporta con fedeltà l’originale minoico, assieme alla leggenda di Minosse che qui avrebbe esercitato il suo straordinario potere, dominando l’intera isola di Creta e partendo alla conquista di altri territori.
Vago come tramortito tra le rovine di Cnosso slalomando tra i turisti singoli e quelli in comitiva, sperando di riuscire a scattare qualche foto senza traccia di umano, se non accessoria, funzionale all’immagine e non intrusa accidentalmente. Gli inserti posticci, opera della fantasia di Mr. Evans mi lasciano interdetto, perché hanno una loro bellezza, una loro armonia estetica, pur essendo pugni nello stomaco per chi cerca in qualche modo di capire la verità storica di quel che succedeva quattromila anni fa. Cercando nelle rovine abbandonate senza restauri il seme della verità, o perlomeno il suo simulacro, se non il suo sogno. Ed è già straordinario quanto si ricava dalle comunque imponenti tracce del Palazzo di Cnosso, eccezionale esposizione di potenza di millenni addietro: basti pensare alle lunghe file di locali del Palazzo protopalaziale (2100-1700 a.C.), alle tracce del periodo prepalaziale (terzo millennio a.C.), o alle ben più cospicue costruzioni del periodo neopalaziale (1700-1450 a.C.). Cortili, verande, peristili, scale, sale del trono, mégaron, stanze da bagno, magazzini… Mi colpisce in particolare una lunga e stretta scala che dà sul nulla della collina: ecco l’esempio calzante di quel che deve essere un restauro, lasciare che l’immaginazione ricostruisca il palazzo cui si accedeva attraverso quella scala…
Esco dal sito riconciliato nello spirito e nella mente da due scalinate assolutamente fantastiche nella loro irregolarità, e tuttavia immaginifiche, funzionali come nessun altra alla vista del Palazzo di Cnosso: probabilmente costituivano parte del teatro del Palazzo prepalaziale… E mi dico che i giapponesi che, come il sottoscritto, hanno pagato quattro euro per entrare nel complesso archeologico non avrebbero capito nulla della civiltà minoica guardando queste scale straordinarie. Probabilmente avrebbero suscitato il loro solo un basso istinto di rendere il tutto simmetrico e perfetto nel restauro. Almeno con l’opera di Mr. Evans qualcosa conserveranno di questo luogo e della sua memoria. Onore a Mr. Evans, dunque, soprattutto epr non aver voluto toccare le “mie” due scalinate del teatro, a cui si accede dall’ingresso della Strada delle processioni, magnificamente lastricata! Un sentito ringraziamento.

lunedì 29 ottobre 2012

Réthimno, verbi per stupirsi



Viaggio a Creta/2 

Una città veneziana, ma non solo; 

cretese, ma non solo; 

ottomana, ma non solo. 

Forse appena un po' universale.








Passeggiare per borghi sconosciuti.
Cogliere i dettagli che svelano.
Osservare con misericordia la miseria.
Osservare con distacco la ricchezza.
Trovare ricorrenze storiche e artistiche.
Ascoltare i rumori della gente e dell’aria.
Sfiorare le pietre per carpirne i segreti.
Annusare fiori, frutta e piante, per respirare.
Baciare la memoria dei vivi e dei morti.
Sollevare la mano raggrinzita del tempo.
Stringere la mano vigorosa dello spazio.
Indovinare l’origine di una musica.
Assaggiare un brano di storia culinaria.
Sbirciare attraverso imposte rabberciate.
Ammirare edifici che cadono in rovina.
Sorbire un ouzo nella frescura.
Contare le luci sulla baia.
Scorrere con lo sguardo il faro veneziano.
Passeggiare e perdersi nelle viuzze.
Salire i gradini della fortezza imponente.
Scendere i gradini della debolezza umana.
Abbandonarsi sui cuscini d’un caffè sul porto.
Disegnare i reticoli delle pietre del molo.
Farsi sfiorare dalle onde sulla sabbia.
Farsi cullare dalla bonaccia sulla sabbia.
Gustare agnello al pomodoro della nonna.
Contrattare il prezzo d’una tovaglia.
Sorbire un succo di pesca al porto veneziano.
Giocare coi monelli nella New Old Town Square.
Cogliere nelle architetture quel che è turco.
Rintracciare le tracce lasciate dei romani.
Sopportare il kitsch del turismo.
Seguire le luci tremolanti nelle scie d’acqua.
Amare Réthimno.
Distaccarsi da Réthimno.

mercoledì 24 ottobre 2012

Akrotiri, da un mucchio di sassi


Viaggio a Creta/1 - Sin dalle prime pietre, dai primi scogli, dai primi cieli e dai primi mari, l'isola si svela.
Agía Triáda, Santa Trinità, un monastero a cinque chilometri dall’aerodromo, come si dice in greco. Lo trovo facilmente, è massiccio, non pare avere al suo interno straordinarie bellezze. Eppure i gatti che mi si strofinano alle caviglie paiono invitarmi ad aver fiducia. Ed è così che penetro sotto il portale evidentemente di fattura veneziana (sono opera dei fratelli Geremia e Benedicto Zangarolo, veneziani convertitisi all’ortodossia), così come la chiesa che tradisce gli stilemi del rinascimento veneziano del XVII secolo: semicolonne, finto frontone e finto cornicione. Deambulare nel cortile del monastero a scoprire dettagli più o meno insignificanti, più o meno artistici, mi spinge a pensare che non è possibile capire l’isola di Creta e la sua storia senza viaggiare, almeno metaforicamente, nelle vicende della Chiesa greco-ortodossa, che di dolori e di incertezze ne ha patiti non pochi. Noto degli alberi che offrono limoni, aranci e cedri che pendono dagli stessi rami. Qualcuno lo considera un miracolo, chissà…
Con un collega ci siamo dati appuntamento all’aeroporto di Chaniá, La Canea nell’isola di Creta, per poi recarci a un congresso in quel di Réthimno, più ad Oriente. Ma tra i nostri due voli intercorrono tre ore, tre lunghe ore di aeroporto, infinitamente noiose. Ho però affittato una macchinetta per i nostri spostamenti, e quindi decido di andare un po’ a zonzo senza allontanarmi troppo dall’aeroporto restando nella penisola di Akrotiri che, all’atterraggio, m’è sembrata un cumulo di pietre qua e là ingentilito dai filari degli olivi.
Riparto, sulla montagna c’è un altro monastero, quello di Gouvernéto. La strada s’inerpica, viene abbandonata anche dai radi ulivi della penisola, s’intrufola in una stretta gola che pare non avere uscita. Finché non giungo ad un verde ripiano su cui si erge un altro parallelepipedo, come una fortezza, questa volta un po’ sommario e in restauro. Oggi i monaci sono rinchiusi in ritiro, tutto è chiuso. Non mi resta che salire un po’ più in alto, fino ad una sorta di valico. Ed è lì che scopro un’altra verità di Creta: non è possibile capirla senza guardarla dall’alto, con la sua eterna commistione e separazione tra pietra ed acqua.
Riprendo l’auto e in una ventina di minuti scendo al mare, al paesello di Tersanás, una stretta spiaggia, qualche barchetta attraccata al modesto molo, un ristorantino, qualche casetta. Scendo dall’auto, faccio quattro passi per sgranchirmi le gambe, mi siedo ad annusare l’odore del mare sotto un ulivo. C’è pace, c’è serenità, s’è l’acqua. Impossibile capire Creta senza tener conto non solo che è un’isola, non solo che vive in gran parte sul mare e del mare, ma che l’acqua stessa è il simbolo della sua natura liquida, che avvolge e penetra l’altra sua natura, quella solida della pietra. Non c’è contraddizione.

lunedì 15 ottobre 2012

L'ambiguità del principe Sihanouk



E' morto colui che era monarca della Cambogia prima della carneficina dei khmer rossi. Ricordandolo con un testimone a Phnom Penh. (dicembre 2009)

È una città assai movimentata, Phnom Penh, ma nel contempo più tranquilla di tanti altri centri dell’Estremo Oriente. Motorini e tuk tuk, tutto si paga, anche scattare foto al mercato. Il palazzo reale è bello, pulito, asettico. Spicca – ma che ci fa da queste parti, perbacco? – il padiglione à la française, regalo dell’imperatore Napoleone III. Una delegazione vietnamita è in visita alla città, e rallenta ogni movimento. C’è chi si lamenta ad alta voce dell’eccessiva vicinanza dell’attuale governo ai vietnamiti comunisti, e chi sostiene, a voce invece sommessa, che ancora ci troviamo in un regime che nei fatti è una pratica dittatura. Non c’è libertà di stampa, né di opinione, tutto pare essere ancora sotto il controllo dei servizi segreti, nemmeno tanto segreti, poi: l’economia s’è fermata da due o tre anni, anche il turismo sta rallentando. Il commercio ancora funziona, ma c’è scarsissima produzione locale, perché anche qui è la Cina a spandere le sue armate economiche. Nulla di nuovo sotto il sole!
Al mercato c’è ressa, c’è puzza di pesce e di verdure fermentate, c’è dozzinale mercanzia, ci sono donne, tante donne, quasi esclusivamente donne. Come sempre, anche qui sono loro a essere il vero motore della società, e il necessario collante sociale.
«Se la ricchezza sono i figli, la montagna della fiamma è la suocera», mi dice seduto ai tavolini di un ristorantino immerso nel mercato un uomo sulla sessantina che ha voglia di praticare il suo francese d’antan. Poi mi spiega che ciò significa che è la parola della suocera quella che può dare fuoco alla montagna. «Da sposati gli uomini vanno a vivere dalle suocere – mi dice l’uomo, affabile, cortese, un po’ alterato forse solo perché emozionato di parlare con uno straniero –. Ed è la suocera che comanda, è lei a cui bisogna versare tutto il denaro che si guadagna. E se l’uomo non raccoglie abbastanza denaro, sono dolori! Non avevo soldi per comprare la casa, e così mi sono deciso a cinquantacinque anni ad allontanarmi da mia moglie, e ritirarmi a vivere da solo. In soli quattro anni, con i miei modesti guadagni da professore sono riuscito a comprarmi un terreno in città e a costruirvi una piccola casa, sufficiente per abitare degnamente. Eppure sono stato e sono ancora fedele a mia moglie, perché dice il proverbio: “Le foglie dell’albero debbono cadere lontano dal tronco”. Mia moglie, come tutte le donne, è una vipera. Prima di sposarla era bella e gentile; dopo il matrimonio s’è trasformata improvvisamente in una megera spietata e cinica».
Passiamo poi a parlare della dittatura – «ma devi assolutamente tacere il mio nome, perché altrimenti mi tagliano la gola» –, che al mio interlocutore appare ancora assolutamente reale. «Abbiamo cambiato il conducente, ma il pullman è rimasto lo stesso – mi spiega –. Poco è cambiato dai tempi di Pol Pot, e ancor oggi si uccide per il potere. Ora non c’è più ideologia comunista, ma c’è l’ideologia del potere per il potere. Si è arrivati ad uccidere la propria razza per il potere. Non sapevamo nulla di Pol Pot e delle sue reali intenzioni. Solo più tardi abbiamo saputo di quel che era successo. Le radici di questo governo sono ancora nei khmer rossi, , e c’è ancora servitù nei confronti dei vicini vietnamiti comunisti. Il governo, comunque, si regge sui brogli elettorali, qui non siamo in purgatorio, ma in inferno! Ha visto il grattacielo in costruzione al centro? Tutti gli appartamenti sono stati già venduti. A chi? Alla gente del governo e dell’esercito! Se vogliono, con una firma possono vendere intere strade, interi caseggiati! E poi si parla di libertà?».
Continua il mio interlocutore, un fiume in piena: «Ci sono intieri quartieri vietnamiti in cui la popolazione non rispetta le leggi cambogiane. Fanno quel che vogliono e rubano al nostro Paese. In ogni casa sono state nascoste delle armi. Nel 1997 c’è stata una rivolta contro i vietnamiti, ci sono stati incidenti: le autorità parlano di 4 o 5 morti, ma in realtà sono stati circa 300. I cadaveri sono stati visti galleggiare sul Mekong, chiusi in sacchi di riso, e destinati a scomparire in mare».
Ripercorre poi la vicenda cambogiana dal colpo di Stato di Lon Nol, all’improvvisa nascita dei khmer rossi – «erano pronti da tempo, perché in una notte sono apparsi ovunque» –. E poi l’invito di Lon Nol ai vietnamiti del Sud per combatterli, l’appello del principe Sihanouk, fuggito prudenzialmente in Cina, a ritirarsi nella foresta per combattere il fedifrago che l’aveva cacciato, l’arrivo dei khmer nelle città, le epurazioni, gli assassinii sistematici di tutti quanti avevano studiato, degli “intellettuali”, i due milioni di morti ammazzati e il milione morto di fame – «un chilo di riso doveva sfamare circa 30 persone!» –, le famiglie smembrate. «Io stesso ho perso mio padre, un professore, due sorelle e un fratello, uccisi sotto tortura. Mio padre è morto per i colpi di bastone ricevuti, mio fratello ucciso da un colpo di pistola alla tempia, le mie sorelle pugnalate al cuore. La mia famiglia aveva la colpa di essere ricca. E tutto per colpa di Pol Pot, che era un uomo di Sihanouk. È lui che ha dato l’ordine di iniziare la carneficina! Il colpo di Stato di Lon Nol era stato “permesso”, se non “voluto”, sihamoni, dallo stesso principe. Il quale ora ci ha lasciato un figlio come re, un ignavo, un incapace, un corrotto».
Riprendo la mia passeggiata nel mercato dopo aver salutato il mio interlocutore, con il cuore un po’ più pesante di prima.

martedì 9 ottobre 2012

Lago Tamblingan, la foresta, le canoe e le tende



La bellezza dell'ambiente non riesce a nascondere il dramma della popolazione locale vittima di una grave inondazione

Nel cuore dell’isola indonesiana di Bali, piuttosto decentrato verso Nord a dire il vero, tra vulcani e valli che ripidissime scendono al mare, tre laghi vulcanici sono attrazione non solo e non tanto per i visitatori stranieri, quanto per il turismo locale. L’accesso infatti non è dei più agevoli e la struttura turistica lascia a desiderare. Bisogna accontentarsi, meglio così. I laghi Tamblingen, Buyan e Bratan e Bedugul hanno un che di familiare e di semplice che vien proprio voglia di praticarli un po’. Scelgo il primo, il più piccolo, il meno accessibile, il meno frequentato. E penso di non sbagliarmi, non solo per il suo accreditamento geografico: il lago Tamblingan.

Vi si arriva percorrendo una di quelle stradine asfaltate ripidissime – spesso e volentieri oltre il 20 per cento – a cui il viaggiatore balinese fa presto il callo. Ed è una buona preparazione, quella di scendere in tre chilometri i circa 300 metri di dislivello che separano la costa della montagna dallo specchio d’acqua. La vegetazione è lussureggiante, i chiodi di garofano stesi ad essiccare profumano l’aria, i tempietti sono tutti cinti dal drappo rituale e con offerte fresche fresche dinanzi a loro, l’incenso acceso, i fiori arancione e qualche frutto.
Una sorta di cooperativa riunisce coloro che lavorano nel parco naturale del lago. È con loro e solo con loro che ci si può avventurare nelle foreste e nello specchio d’acqua. Non nego una certa iniziale ritrosia ad accettare tale imposizione, ma non c’è nulla da fare e le facce buone e sorridenti dei ragazzi mi fanno accettare di buon grado. Arit, questo il nome del mio accompagnatore, mi porterà in un breve cammino nella foresta di un’ora circa, per poi tornare insieme con una delle canoe tipiche della zona. Il tutto per una dozzina di dollari. È piccolo, Arit, pare un adolescente, anche se ha 24 anni ed una figlia. Parla un inglese stentato, senza vocali, ma ci si capirà sempre meglio nel corso della convivenza. Che nella foresta permette di ammirare una vegetazione esuberante, che segmenta la luce per poi moltiplicarla, rilanciandola, raffinandola. Alberi giganteschi si ergono maestosi trascinando con sé verso l’alto piante parassite di dimensioni più che ragguardevoli. Prati di felci si divertono a solleticare il gusto estetico di chi li fende, come uno specchio d’acqua, creando flessuosi cerchi concentrici. La foresta, insomma. Dopo 40 minuti, ecco l’avvisaglia del tempio che è la nostra meta, il Pura Dalem Gubug: d’improvviso nella boscaglia appaiono inusitati una dozzina di ombrelli bianchi e gialli, i colori sacri (anche) da queste parti. Visione divertente, oltre che insolita. E poi il tempio, modesto e a pelo d’acqua: fino ad un mese fa era inondato per via delle grandi piogge di febbraio e marzo. È in questi frangenti che Arit mi racconta il dramma della sua famiglia: da tre mesi vivono sotto delle tende portate dalla protezione civile indonesiana, dopo un mese trascorso semplicemente nella foresta, perché il villaggio è stato anch’esso invaso dalle acque: Tamblingan non è ancora praticabile.
Ma si riparte, verso la pagoda a undici livelli, modesta ma ben tenuta, che s’erge su un promontorio al centro del lago di Tamblingen. Elegante, bella, protetta da due ombrelli bianchi ad Occidente e da due gialli ad Oriente. Una breve sosta, il tempo per Arit di raccontarmi della sua famiglia, povera al limite della miseria. Poi scendiamo il promontorio verso la pagaia, doppia pagaia in realtà, che ci porterà a destinazione. Al comando c’è una giovane donna, una dei 32 abitanti di Tamblingan. In mezz’ora di grande calma attraversiamo il lago, dirigendoci proprio verso il villaggio di Arit che si fregia di un tempio a suo modo imponente, ora un’isola ma non sempre lo è, con tre pagode a undici livelli che impressionano non poco. E, alla loro ombra, ecco le case del villaggio, un informe conglomerato di legno, bambù, plastica e lamiera, brutto e precario. Dietro di esso, sotto i primi alberi, spiccano i colori sgargianti ed elettrici delle tende della protezione civile, nelle quali l’intero villaggio s’è trasferito: ordinato e a suo modo pulito. Ci sono tante gabbie di uccelli multicolori, che rallegrano l’aria e l’ambiente, e qualche vecchio e qualche giovane, e la madre e la figlia di Arit, e una loro dolcissima amica, e suo fratello che sogna una moto, mentre la moglie di Arit è al lavoro, non si capisce dove. A Tamblingan la vita scorre in fondo come prima, in mezzo alla natura. E forse i letti da campo della protezione civile indonesiana sono più comodi di quelli vetusti che i 32 abitanti avevano nelle loro case in riva al lago. Tornando verso l’auto m’accorgo che i campi, tutti i campi, sono coltivati a fiori. Per le offerte votive.

martedì 2 ottobre 2012

Il tempio alla chiusura del lago



Pura Ulum Danu, sullo specchio d'acqua balinese di Batur, testimonia la fede fanciullesca e profonda delle popolazioni locali

Il lago Batur, a Bali, è naturale senza esserlo, perché s’è creato in seguito alla tremenda eruzione del vulcano Gunung Batur, nella notte dei tempi. Ha la forma di una semiluna: sulla riva orientale è lussureggiante ed esuberante in ogni sua espressione – si tratta delle pendici del vulcano Gunung Abang, più calmo del suo confratello –, mentre sulla riva occidentale, che porta invece alla cima del Gunung Penulisan – ogni giorno e ogni notte manifesta in qualche modo la sua esuberanza che sale dalle profondità della Terra – è brullo, arido, lavico. Eh sì, non è che un’enorme colata di lava che la vegetazione fatica non poco a ricoprire. Tre paesetti sopravvivono alla base del vulcano, sulla riva del lago; gli abitanti vivono di pesca e di quel po’ di turismo che viene dallo stesso vulcano. Una strada asfaltata corre lungo il lago, tracciata sul terreno senza tanti scrupoli, e quindi si rivela un continuo saliscendi in brevissimi spazi e senza porre attenzione alle pendenze. Se poi si considera la proverbiale usanza balinese di tracciare sedi stradali strettissime, ecco che ci si può fare un’idea dei rischi che si corrono su questa stradina. In fondo al lago, in fondo a questa strada e in fondo al paesino di Sonh, sorge, addossato all’esuberante vegetazione dei primi contrafforti del vulcano Abang, un tempio che non ha particolari meriti né artistici né storici, ma che risulta assai venerato, non solo dagli abitanti locali, ma da tutti i balinesi del Nord. Prova ne sia il fatto che anche oggi interi villaggi si sono spostati fin quassù (o quaggiù) con ogni mezzo (di preferenza i camion verdi Isuzu, scelti perché molto stretti) per celebrare coi propri sacerdoti i riti del villaggio.
È così che, arrivato a destinazione, capito nel bel mezzo di una celebrazione indù che ricorda alla divinità la fertilità necessaria dei loro campi. Mi cingono col tradizionale sarong, raccomandandomi di non accedere al tempi principale per rispetto cultuale. Ma tant’è, i canti, le musiche, le orazioni sono così insistenti e invitanti che non riesco a trattenermi e, seppur con rispetto e adeguata circospezione, penetro nel recinto sacro. Circa 300 persone sono sedute per terra alle spalle degli officianti vestiti di bianco dal turbante alle babucce, in file regolari, ma con una certa anarchia sui bordi. Qualcuno si accorge dell’intrusione, ma inequivocabilmente mi sorride, tutti mi sorridono, tutti paiono essere grati della mia presenza. Forse solo i sacerdoti si direbbero scontenti…. I riti si susseguono: campanelle suonano di continuo invitando a compiere gesti coordinati con le mani: una di queste preghiere delle dita mi colpisce particolarmente, quello di sollevare le mani giunte sopra il capo, lasciando sporgere oltre le estremità delle dita un petalo di fiore, solo uno.
Il sole finalmente fa capolino al di sopra del vulcano, cadendo dall’alto quasi a perpendicolo su queste mani e questi petali, conferendo alla scena qualcosa di magico, o piuttosto di divino. Ma è l’ora delle processioni e delle aspersioni: donne, uomini e bambini portano e depongono le loro offerte su uno degli altari del tempio, di preferenza su quello che giace alla base della alta pagoda a undici livelli, elegantissima ed ardita, mentre i preti in bianco aspergono abbondantemente di acqua benedetta il capo dei presenti, molti dei quali, non so per che motivo, hanno la testa coperta da foulard rossi. E la fine della cerimonia fatalmente s’avvicina; la gente si solleva guardandosi intorno gioiosissima, in una sorta di abbraccio collettivo che mi commuove non poco, anche perché il primo ad esservi coinvolto è il sottoscritto, col quale non pochi desiderano farsi fotografare. I fedeli escono, consumano un frugale pasto a base di riso, fagioli e pesce, a quanto ne capisco, e poi risalgono diligentemente sui loro camion verdi senza la minima recriminazione, nonostante li attendano quattro ore abbondanti di traballamenti vari e la visita ad altri due santuari lungo il cammino di ritorno. E io riprendo la “mia” Toyota Avanza e li seguo lungo la strada della lava, felice della cerimonia appena conclusa ma anche e soprattutto per aver potuto conoscere qualche brano della vera cultura balinese non ancora toccata, se non di striscio, dal demone del turismo. Nel tempio alla chiusura del lago.

martedì 25 settembre 2012

Ubud, la delusione e le voci dei ragazzini



Centro culturale dell'isola di Bali, ormai è un tempio del turismo. Ma c'è sempre qualcosa da imparare...

Che dire? Ci sono delle volte che l’aspettativa di un dato posto è tale che la delusione è dietro l’angolo. Intendiamoci, la delusione per un viaggiatore che trascorre appena qualche ora in un dato posto non è granché credibile. Non ha avuto materialmente il tempo di conoscere un dato posto. Eppure il fiuto ce l’ha, il viaggiatore incallito, e qualcosa alla fine capisce sul serio. Ubud, città “culturale” dell’isola di Bali, in Indonesia, mi ha profondamente deluso. Non tanto perché il caldo opprimente e la fatica del viaggio in auto di locazione (guidare a Bali richiede un’attenzione prolungata e continua, perché le sorprese sgradevoli e pericolose per l’incolumità di qualcuno sono sempre dietro l’angolo, in primo luogo per la sconsiderata guida di tanti motociclisti!), ma soprattutto per la presenza massiccia di turisti. Ormai la città è un grande centro commerciale, in cui persino la mentalità balinese accogliente e gratuita viene messa a dura prova dal dio denaro, che sta bene nei tanti templi della città.
Intendiamoci di nuovo, questo non nega minimamente l’importanza della città e della sua storia che impressiona, in particolare per essere diventata negli anni Trenta un luogo che ospitò pittori di chiarissima fama dal mondo intero, e musicisti e scrittori. La storia la s’incontra nei templi principali – Pura Taman Saraswati, elegantissimo, degli anni Cinquanta del XX secolo e Pura Gunung Lebah, struggente, dell’VIII secolo –, così come nel museo Puri Lukisan o nel palazzo Puri Saren. Ma questi luoghi ormai sono sommersi dalle boutique, dai caffè, dai ristoranti, dalle agenzie turistiche, da ogni sorta di commercio. Persino il mercato Pasar Ubud pare una brutta copia dei bei luoghi indonesiani dove si cerca di trovare qualcosa di semplice e utile, e dove s’incontra la gente. Qui molto meno, al punto che l’insistenza dei compratori pare diventare un’ossessione fastidiosa. Il che mi dà non poco fastidio, per via del rispetto che in ogni caso noi europei dobbiamo verso questa gente.
Mi riconcilio con Ubud solamente già col piede di partenza, quando sento della musica uscire da quello che ritengo un tempio, ma che in realtà quasi subito mi accorgo essere una scuola. Perché, mentre salgo i ripidi gradini che conducono verso i tempietti, vengo letteralmente investito da una fiumana di ragazzi in divisa – pantaloni verdi, camicia bianca e cravatta – che finalmente tornano a casa dopo aver concluso la loro mattinata scolastica. C’è una tale vivacità nella loro esuberanza che mi dico: questa è ancora Bali. Ma valla a scoprire!

lunedì 17 settembre 2012

Borobudur, percorsi tantrici



Un altro luogo indonesiano che riporta alla notte dei tempi. E' il maggior tempio buddhista del Paese. Cinque chilometri di altorilievi

La sapienza degli architetti, sapienza creativa per eccellenza, assume i tempi della storia – e talvolta della Storia – allorché riesce a coniugarsi con lo spirito di quel dato secolo, o ancor meglio di quella data epoca. Non ci è concesso di conoscere i nomi degli architetti del tempio di Borobudur, solo qualcosa della loro scuola: vennero da tutta Giava, tra il 750 e l’850 d.C., chiamati dalla dinastia Sailendra per edificare il trionfo massimo del buddhismo javanese. Ma venne abbandonato subito dopo la sua conclusione, per il tramonto della dinastia e l’arrivo delle dinastie indù; così giacque, protetto dalla terra e dalle ceneri delle eruzioni sino all’inizio del XIX secolo. Ma è comunque certo che la loro arte ha trasformato in pietra il comune sentire di un intero popolo.
Di tutto ciò rifletto scendendo lentamente dal tempio di Borobudur, percorrendo a ritroso i cinque chilometri (!?!) di camminamenti che, in senso rigorosamente orario, il devoto (e ora si spera anche il visitatore) è tenuto a percorrere per giungere alla sommità del tempio: due milioni di blocchi di pietra formano un complesso simmetrico, per una base che ha lati di 118 metri che sorreggono sei terrazze quadrate e altre tre, quelle sommitali, circolari, con quattro passaggi stretti ma finemente scolpiti. Rifletto pensando che tale ascensione è un viatico straordinario alla contemplazione, del Nirvana nel caso del buddhismo.
Le disavventure del sito di Borobudur sono note, tra terremoti ed eruzioni vulcaniche. Ancor oggi non poche parti del complesso templare buddhista sono in fase di restauro. Troppi dettagli, troppe bellezze, troppe innovazioni stilistiche costringono ad un restauro rigoroso, conservativo e non ricostruttivo. Fortunatamente. Per questo non pochi altorilievi mancano di alcuni tasselli, ma è meglio così, c’è già tanto da vedere e fotografare, da ammirare e fissare nella memoria. Pannelli nei quali si ripercorrono e rincorrono non solo i classici elementi della spiritualità e della mitica storia buddhista, e quelli del pantheon buddhista-javanese, ma anche tutti quegli elementi che la memoria ha accumulato nell’avvicinamento da Yogyakarta a Borobudur: risaie e palmizi e banani; le prospettive “allargate” provocate dagli specchi d’acqua delle risaie; le forme abitative d’epoca, ma ancora esistenti, di legno e bambù; le infinite bottegucce d’artigianato lungo la strada. Non ci sono le motorette, negli altorilievo di Borobudur, ma almeno l’occupazione di tutti gli spazi disponibili c’è. Non ci sono fortunatamente le chiassose insegne dei negozi e delle aziende, ma il desiderio di pubblicizzare c’è. Un concentrato di antropologia e di sociologia javanesi e, in fondo, anche indonesiane.
Mi perdo, non seguo più le descrizioni mitologiche della mia guida cartacea, peraltro dettagliatissima. Mi ritrovo, infatti, nel mito stesso, avvolto da esso, circuito, ipnotizzato quasi. La ripetizione, per 1460 volte, dei pannelli con le scene mitologiche, la costante presenza di lingam, l’infinito ripetersi della figura del Buddha, m’appaiono una sorta d’iniziazione alla quale è difficile resistere. Si può reagire in due modi a una tale pressione psicologico-religiosa: sforzarsi, da antropologo, di trovare costanti e scostamenti dalla norma delle culture del luogo e dell’epoca; oppure giocare il gioco ed immergersi nell’esperienza filosofico-religiosa del buddhismo dell’epoca. Nel primo caso ci si preserva da ogni contaminazione, ma si passa accanto alla profondità spirituale del luogo; nel secondo s’accetta la sfida della religiosità non propria, ma si rischia di non capire razionalmente il fenomeno e di essere quindi colpiti da buonismo, irenismo e sincretismo. Scelgo il secondo percorso, più rischioso ma certamente più affascinante e sorprendente. Cerco cioè di immergermi nel mondo dell’epoca, senza razionalizzare immediatamente, per quanto possibile, cioè, senza dover sempre e comunque ricorrere alle categorie e all’immaginario della mia italianità e della mia cristianità occidentale. Senza tradire nulla, penso, ma cercando di immergermi con amore nella conoscenza di una diversa avventura religiosa e di pensiero. È l’amore che, in effetti, essendo l’essenza del cristianesimo, mi permette di non tradire la mia fede. Se vogliamo, un’esperienza che ripercorre alcune delle tappe delle scoperte di Teilhard de Chardin, ma vissute alla luce dell’esperienza mistica della Lubich. Il tutto in piccolo, in piccolissimo anzi.
Cosa succede? L’avanzamento è accompagnato dalla presenza di tanti javanesi, ben più numerosi dei turisti stranieri. Godo delle loro scoperte, delle loro risa, dei loro turbamenti, talvolta condividendo con loro tali sentimenti che talvolta mi paiono un po’ infantili ma che forse sono più vicini al sentire del “bambino evangelico” che al ragionare dell’“adulto occidentale”. Percorro itinerari supposti tantrici (dall’alto il tempio appare un unico, lungo itinerario tantrico), scopro ovunque statue del Buddha, poso lo sguardo sugli incredibili simboli fallici di cui è disseminato l’intero tempio, apro lo sguardo sulla straordinaria natura che fa da corona al sito, respiro respiro respiro. E con mia sorpresa colgo in me un amore crescente per questa gente javanese. Più m’immergo nel manufatto artistico, più spalanco lo sguardo sull’ambiente che lo avvolge e più avverto che i miei sentimenti per la gente che visita con me questo sito di Borobudur protetto dall’Unesco cresce. Finché non resta che l’amore. Non resta che Dio, che si esprime amorevolmente nel Verbo. Un amore che permane, nonostante sia messo alla prova dalle centinaia di insistenti venditori di souvenir e articoli d’artigianato che si susseguono all’uscita del tempio e fino alla mia auto. Questi uomini e queste donne sono da amare. Anzi, sono amore. Per me. E io per loro. Anche se non compro nulla.

mercoledì 12 settembre 2012

Penang Hill, lassù sopra il caldo


Malesia, isola di Penang, sopra Georgetown, un luogo dove i coloni inglesi amavano sfuggire all'afa della regione.
Nelle zone tropicali per noi europei la più grossa difficoltà è quella del clima, delle temperature costantemente elevate e accompagnate da un’elevatissima umidità. Così la caccia all’aria condizionata è lo sport più diffuso tra i nordici in terra equatoriale (ma ormai anche di tanti indigeni). Nell’isola di Penang, Malesia occidentale, le cose stanno proprio in questi termini, come basta capire dalla semplice consultazione di una cartina geografica. Quando poi le cose interessanti da vedere non sono poche, ecco che ci si lascia trasportare dalla eccitazione conoscitiva e non si è più capaci di dosare le forze. Così non resta che fermarsi. Nella propria stanza climatizzata oppure… salendo agli 830 metri della Penang Hill, la collina di Penang, dove l’aria è più fresca e si può camminare per tranquilli sentieri lastricati in mezzo alla foresta tropicale, ammirando la natura ma anche i cottage che all’inizio del secolo i colonizzatori britannici avevano costruito quassù, per abitarvi al fresco, o per trascorrervi qualche scampolo della loro settimana tradizionale. Nota anche come Flagstaff Hill o Bukit Bendera, conobbe le prime costruzioni nel 1897. Dapprima venne tracciato un sentiero per cavalli, mentre oggi si sale grazie alla meccanica.
Si sale infatti fin quasi alla cima della collina grazie a una funicolare assai ardita, che supera pendenze elevate, dando anche qualche brivido ai viaggiatori: tranquilli, è di fabbricazione svizzera! L’arrivo è però inquietante per la presenza di tanta, troppa gente addetta ai negozietti, ai trasporti con mini-auto elettriche, a una moschea francamente squallida e a un tempio indù col finto sadhu (ben pasciuto) che cerca di attirare i turisti. Il tutto accompagnato da strutture e mobilio urbano francamente orridi. Ma lo spavento termina ben presto quando ci si accorge che dalla piazza dei commerci si diramano alcuni sentieri discreti e ben tenuti, che permettono di camminare in mezzo alla foresta vergine, o quasi, senza tema e anzi con una certa pace dell’anima e dei sensi: si capisce ben presto che anche in salita, mantenendo un passo regolare e lento, si può evitare di sudare in modo eccessivo.
C’è così modo di ammirare una vegetazione straordinaria, fotografando macchie di colore floreale e disegni geometrici tracciati dalle verdissime piante delle più varie specie presenti nel luogo: diptocarcapaceae, conifere e felci arboree. I viottoli sono lastricati di mattoni rossi di laterizio che evidentemente da queste parti resiste meno che dalle nostre. I gradini sono smussati invariabilmente da una sorta di pellicola nera che avvolge i laterizi là dove non vengano lavati regolarmente. Cosa assai impossibile in una foresta. Ma anche le scalinate che portano ai cottage degli inglesi subiscono la stessa sorte, con buona pace di colonizzati e colonizzatori.
Il ritorno a valle non è dei più tranquillizzanti, per la velocità della funicolare e per la temperatura soffocante che prende alla gola non appena si esce dalla funicolare climatizzata. E allora si riprende a boccheggiare e a sudare come malati.