mercoledì 29 agosto 2012

Jakarta, il caos e l’ordine


La capitale indonesiana non è una città facile: ha anche le sue bellezze, in parte ereditate dai coloni olandesi. La grandezza della città sta tuttavia nella natura conciliante della sua gente.

Non è una città in cui spontaneamente viene la voglia di viverci. 20 milioni di persone concentrate in una metropoli convulsa non costituiscono quella che si potrebbe definire una prospettiva allettante. A più riprese mi tocca assaggiare il traffic jam, la marmellata del traffico, anche se sostanzialmente la mia visita si svolge in un fine settimana. Improvvisamente ci si ferma e non si riparte che 5, 10, 20 minuti più tardi, senza peraltro capire il perché di quella sosta, magari dovuta semplicemente a due o tre tassì che tardano a lasciare i propri clienti, o un minimo incidente, o ancora un semaforo rotto. Agli incroci, prima della ripartenza al verde, si formano nugoli di motorette scoppiettanti che poco alla volta, centimetro dopo centimetro, guadagnano terreno, invadendo pericolosamente la sede stradale e talvolta addirittura anticipando il semaforo, sciamando in tutte le direzioni. D’altronde lo stesso tracciato delle strade non sembra essere proprio razionale: l’ex aeroporto, ad esempio, è stato chiuso e trasformato in un’enorme quartiere residenziale e commerciale. Nella pista-strada a sei corsi per direzione si sfreccia per qualche chilometro, per poi frenare bruscamente al termine del “rullaggio” per l’inevitabile ingorgo provocato dalle sei corsie che diventano tre e poi una sola.
La città ha origini lontane, e ha conosciuto una forte colonizzazione olandese: porto fiorente della dinastia locale indù Pajajaran, nel 1522 divenne colonia portoghese, prima che il santo musulmano Sunan Gunungjati cinque anni più tardi li cacciasse (il nome della città, “città vittoriosa”, risale a quel periodo). Solo all’inizio del XVII secolo arrivarono gli olandesi che, dopo acerrime lotte con i britannici, presero stabile possesso del luogo nel 1619, ribattezzando la città Batavia. Un dominio che durò fino al 1942, con l’occupazione giapponese, e che poi portò la città a diventare capitale dell’Indonesia libera, nel 1950. Forse anche per questa lunga dominazione olandese è costruita lungo una serie di canali che servono a regolare il deflusso delle acque nella stagione delle piogge, sapendo che comunque, ogni tre o quattro anni, la città viene invasa per il 70-80 per cento della sua superficie : finora nessuna opera idraulica è riuscita a risolvere il problema.
Anche qui a Jakarta i mall, cioè i centri commerciali sconfinati, stanno cambiando il panorama urbano. Ne visito solo uno, chiamato Manga Dua, che impressiona per le sue sconfinate dimensioni, ma che mi pare manifestare una delle note caratteristiche di questo popolo: lungo le scale mobili del centro c’è posto per chiunque, per i ricchi e per i meno ricchi. In un Paese che non è ancora al top dell’esplosione neo-liberista asiatica e mondiale, ma che comunque può contare su una crescita dell’economia del 6,8 per cento, questi centri commerciali sono uno spaccato di una rivoluzione più soft che altrove.
Ma la gente di Jakarta appare gentile, ovunque o quasi. La lingua ha un incedere quasi sincopato: una delle spiegazioni è che il plurale non esiste come forma autonoma, per cui la soluzione escogitata dai linguisti nei secoli è stata quella di ripetere semplicemente due volte il singolare! La parlata è quindi simpatica e leggermente comica, quasi balbettante. Così come appare insolita la conformazione del vecchio centro della città, la vecchia Kota, che alterna costruzioni in stile coloniale olandese ad altre in uno stile più locale e ad altre ancora più moderne, in una precarietà dell’insieme che lascia perplessi: ci sono sacche di povertà spaventose accanto a esplosioni di ricchezza, direi addirittura di opulenza.
Ne ho una prova visitando il porto e i suoi immediati dintorni. Accanto a belli ed eleganti pescherecci di legno di ragguardevoli dimensioni, la miseria più cruda fa capolino con la gente che vive negli interstizi dello scalo. Mentre più tardi, accanto allo stesso porto, s’allunga accanto alla spiaggia un quartiere residenziale di ville spaventosamente lussuose: marmi di Carrara e vetri fumé, cemento ardito e giardini lussureggianti, in cui il kitsch più stupido fiancheggia la migliore architettura contemporanea. Poi una highway e quindi, quasi senza soluzione di continuità, ecco lo slum più esteso di Jakarta, forse mezzo milione di persone, in condizioni igieniche che dire precarie è eufemistico, elettricità mancante o rubata, ma con le antenne satellitari bene in mostra, mentre nessuno sembra far economia d’un cellulare. Poi, di nuovo, la ricchezza sfacciata di un enorme campo da golf su cui corrono le macchinette bianche dei ricconi, inseguite da decine di portaborse vestiti di bianco che molto probabilmente vengono proprio dallo slum attiguo. Terribili contraddizioni che si fa fatica ad accettare: come il viadotto che collega la zona residenziale al campo da golf, sopraelevato rispetto allo slum che sembra voler ignorare, più che disdegnare.
La città di Jakarta è quindi un intricatissimo dedalo di enormi viadotti e svincoli, stradine tortuose, canali puzzolenti, mercati e mercatoni che sorgono un po’ ovunque senza apparente logica, frotte di Apecar che fungono da mini-tassì (qui li chiamano badjaj, mentre in Thailandia li chiamano tuk-tuk), piccole e medie moschee dalle orride cupole di metallo i cui muezzin fanno a gara nel salmodiare più forte dando vita a un concerto che solo a tratti diventa una polifonia involontaria, altrimenti aggiungendo del caos fonico al caos viario, università laiche e altre religiose…
Ma mi piace concludere questa breve descrizione di Jakarta percorrendo i corridoi che sanno di vecchiume del Museo Wayang, il museo della marionetta, che sembra in qualche modo sintetizzare le tradizioni coloniali e quelle indigene. Una serie di bacheche scarsamente illuminate e fornite di etichette solo in lingua indonesiana, per la disperazione dei turisti stranieri, ospitano una collezione articolata e stupenda di marionette sia locali che europee; quelle locali (purwa) sono una sorta di ricamatissime pelli di bufalo trattate e forate in modo da dar vita a incredibili spettacoli di ombre cinesi. Forse qui si può capire quel qualcosa di positivo che certo colonialismo ha portato: l’incontro e non lo scontro tra le civiltà. E allora anche Jakarta, almeno per qualche istante, m’appare un luogo degno d’essere visitato, se non addirittura vissuto.

mercoledì 22 agosto 2012

Taman Peranginan Tasek Lama (Brunei), la giungla in città


Nel cuore di Bandar Seri Begawan, capitale del ricchissimo sultanato dell'isola del Borneo, uno spaccato locale del Ramadan

Bandar Seri Begawan è la capitale di uno degli Stati più piccoli e più ricchi al mondo, il Brunei, situato nell’isola di Borneo. È Ramadan, venerdì per giunta, al punto che la città appare totalmente vuota. Fotografo moschee e palazzi, ma mi manca la gente. Dove trovarla? Mi dicono di provare al parco Taman Peranginan Tasek Lama. Sono le cinque del pomeriggio, tra un’ora la rottura del digiuno sarà consentita; mi dico perciò che nel parco troverò sì tanta gente, ma sdraiata all’ombra delle palme in attesa di far festa. E invece no, vi trovo uomini e donne di tutte le età in tenute ginniche, caste ma non troppo, che in mille modi stanno cercando di sudare. La cosa mi fa quasi ridere, perché il sottoscritto, camminando nemmeno tanto velocemente, è già una fontanella. E invece vedo gente che corre, che sale su strumenti ginnici che paiono strumenti di tortura, che schizza su per scale di legno, tre gradini alla volta, giovani che scattano a più riprese su un sentiero… in tartan!
Il parco Taman Peranginan Tasek Lama è una deliziosa sorpresa. È un pezzo di giungla in pieno centro, con cascate e burroni, ascese mozzafiato e altre più dolci, laghi naturali e specchi d’acqua artificiali. È pure un giardino botanico, a cielo aperto e senza gabbie, perché scimmie e tucani, serpentelli e piccoli felini non identificati se la spassano un po’ ovunque. A proposito, in Brunei circola la notizia, diventata ormai pubblica opinione, che lo sforzo fisico prima della rottura del digiuno serale sia un toccasana. Perdere acqua sarebbe un modo felice per prepararsi ai lauti banchetti serali. Non sono medico e non so esprimermi al riguardo. Ma le facce stravolte di tante persone, incrociate nel parco Taman Peranginan Tasek Lama, alle sei di sera sembravano preoccupanti! Chissà.

mercoledì 15 agosto 2012

Pulau Penang, l’isola che non è bella


Ma è interessante, ricca e profumata come tutta la Malesia.

Le letture e gli amici mi avevano messo in guardia: Penang, come dicono gli inglesi, o Pinang, come invece dicono i malesi, non è quella che si dice una bella isola. Il suo mare non è blu e verde come quello di Bali, o della più vicina Palau Langkawi. I suoi mall non sono così ricchi e lussuosi come quelli di Kuala Lumpur. A parte la città di Georgetown, c’è poco di bello da vedere. Ma c’è sempre qualcosa di insolito, curioso e vero che può mettere in moto la fantasia e fare apprezzare in un modo o in un altro qualsiasi luogo, anche il più insignificante. Perché, magari, capire perché è tale può essere una grande scoperta. Figurarsi per questa Pulau Penang, che in ogni caso è un’isola tropicale ricca di storia e di bellezze naturali.
Usciti verso Nord da Georgetown, finalmente il mare pare farla da padrone. Ma è un mare cinereo, che alberghi e negozi e ristoranti cercano di rendere interessante, se non attraente. Il centro di tale tentativo è una località balneare, Batu Feringgi, che nel 2004, proprio nel pieno del suo sforzo promozionale, rischiò di scomparire dalla faccia del pianeta tunisino: fu in effetti colpito dal ben noto tsunami che ne danneggiò gravemente le strutture alberghiere e le infrastrutture, ma senza spazzarle via. Così, a sette anni di distanza, la stazione è ripartita a pieno ritmo, approfittando delle distruzioni del maremoto per rammodernare le proprie strutture. Ma a Batu Feringgi è meglio non fermarsi proprio, se si hanno altri scopi oltre a quelli esclusivamente oziosi e balneari.
Dal Nord verso il Sud dell’isola le strade sono due: quella orientale e quella occidentale. La prima, attraversa l’abitato, la seconda la foresta tropicale. Scelgo la seconda, anche se l’autista preferirebbe l’altra, e ne capisco ben presto il motivo: la sua vecchia Mercedes 200D fa una fatica boia a superare le salite e i tornanti che attraversano la foresta. E poi, se ad Oriente in mezz’ora si percorre l’isola, o poco più, dipende dal traffico, ad Occidente ci vuole il doppio del tempo. Lo spettacolo però è affascinante, e persino la foresta sembra tenuta bene,con chiazze di colore intenso che qua e là conferiscono al verde dominante una variabilità che affascina. Il “Parco nazionale dei frutti tropicali” pare esaltare l’esuberanza di queste foreste, esponendo magnifici esemplari di tutti i frutti che maturano da queste parti: ananas, mango, frutto della passione, papaya… Qua e là fanno capolino dei villaggi costituiti sostanzialmente da capanne di legno issate su palafitte. Anche qui ci sono quelle ricche e quelle povere. Le prime hanno imposte ben curate e tetti in lamiera, mentre quelle povere non hanno imposte e il tetto è di canne, o piuttosto di frasche di palma. I locali comuni sono invece in muratura, e qua e là non mancano nemmeno qui i primi centri commerciali con le loro insegne pacchiane, che nella foresta c’entrano come i cavoli a merenda.
Il Tempio dei serpenti, nel Sud dell’isola, contrariamente a quanto annunciato è una gran delusione: sugli altari peraltro di scarsissimo valore artistico – anche se la storia qui parla di un tempio costruito nel 1850 per il venerato monaco, asceta e medico, buddhista di nome Chor Soo Kong, che si dice avesse edificato un tempio abitato da serpenti divenuti mansueti –, si notano dei serpentelli verdi non più lunghi d’una sessantina di centimetri, che se la dormono della grassa, non so se narcotizzati o se inebetiti dall’incenso. Dicono che di notte si sveglino e mangino le offerte lasciate dai fedeli durante la giornata, ma qualche dubbio al riguardo mi rimane. Mi sembra tutta una messa in scena per spingere i visitatori ad acquistare i biglietti (costosi) per l’attigua Mostra dei rettili di Penang, o a farsi fotografare con un immenso pitone al collo per 30 RM, che qui sono un fortuna.
Salendo poi verso Nord, ecco che le brutture fanno la loro apparizione, intendo dire i “biscotti”, cioè i palazzoni popolari o residenziali tra i 20 e i 30 piani, che ospitano gran parte della popolazione locale. Senza apparenti regole urbanistiche, distruggono il paesaggio e creano abitati inquietanti. Ma qui in Asia sono la norma, ormai. Qua e là scorgo templi buddhisti e indù, mentre le moschee da queste parti sono piuttosto poco appariscenti, anche se la Malesia è molto più “dura”, islamicamente parlando, dei vicini Indonesia, Brunei e, ovviamente, Singapore. Anche le chiese sono ben presenti, soprattutto quelle cattoliche ma non solo, spesso accompagnate da istituzioni scolastiche, sanitarie o caritative. Il tutto sempre più avvolto nella sguaiatezza dei centri commerciali, che sembrano anche qui essere i templi e le chiese del XXI secolo.
Il giro della Pulau Penang si conclude con il maggior centro buddhista dell’intera Malesia, quel Kek Lok Si che da tempo diffonde la sua fama spirituale nel Paese: l’inizio della costruzione ebbe luogo nel 1893, grazie all’opera di artigiani thai, birmani e cinesi. Si tratta di un vasto complesso votivo che si nota già da una dozzina di chilometri di distanza, perché è di dimensioni ragguardevoli e perché è issato sulle pendici di una montagna. Vi si accede attraverso un lungo budello in salita, un corridoio fiancheggiato per alcune centinaia di metri da bancarelle che vendono candele ed incensi, ma anche mille altre mercanzie. Finalmente, grondante di sudore, sbuco in una sorta di piazzetta occupata nella quasi totalità da una vasca circolare che brulica di tartarughe, animale sacro per i buddhisti. E da lì comincia un’ininterrotta serie di templi e tempietti che, sempre in salita, vogliono in qualche modo presentare il pantheon buddhista nella sua completezza. Qua e là dei monaci fanno capolino, ora per pulire qualcosa, ora per dare un buon consiglio (speriamo!), ora per togliere i resti delle candele dai bracieri votivi. Si muovono con circospezione, quasi invisibili, ma padroni assoluti del loro spazio culturale. C’è poca gente – né turisti né devoti – per la semplice ragione che siamo nelle ore più calde della giornata (fesso che sono!), ma i pochi presenti paiono voler entrare in comunione reale con lo spirito del luogo.
Il sito è di solito raffigurato e quindi identificato con la pagoda biancheggiante, alta 30 metri e a sette livelli, dedicata a Rama VI di Thailandia che ne pagò la costruzione. Anche se tutto lo sconsiglierebbe, sono così tentato di salirlo, attraverso delle scale di cemento grezzo costruite al suo interno. Ogni piano è tappezzato da piccole rappresentazioni del Buddha, ma colorate in modo diverso. Arrivo alla cima madido di sudore, ma comunque soddisfatto per aver potuto ammirare il complesso templare ad ogni piano, osservandolo mutare di prospettiva e quindi di sostanza, quasi a voler comunicare alla persona che sale quei gradini il senso della vita che muta ad ogni passo, e che talvolta bisogna sapersi elevare per avere un’esatta visione delle cose, o perlomeno più chiara.
Ma non è finita qui, perché la “furia votiva” dei monaci ha voluto che in questo luogo fosse innalzato un monumento straordinario. È ancora in piena costruzione: ci sono il tetto, l’enorme statua della dea Kuan Yin, la dea della misericordia, i pilastri-colonne scolpiti. Ora si sta lavorando per innalzare le pareti dell’edificio cilindrico. Vi si accede grazie ad una breve funicolare, peraltro benedetta in questi frangenti, che evita un ulteriore bagno di sudore. I templi dell’ultimo livello, in effetti, non sono nulla di speciale: non hanno nemmeno quel vecchiume sporco che caratterizza tanti templi buddhisti e conferisce loro quell’aura misteriosa che fa parte del culto orientale. Ma la vista da quassù è stupenda, nonostante le ceneri provenienti dall’Indonesia. E non può esserci che ringraziamento, anche per l’esistenza di Pulau Penang.

giovedì 9 agosto 2012

Gardens by the Bay, giardini botanici come orgoglio


A Singapore un luogo dove il senso della vita si coniuga con l'amore per la natura. Stupefacente.

Non mi aspettavo proprio un luogo come questo, in una città ipertecnologizzata e dedita apparentemente solo alla finanza più spinta, quella che pare far economia di ogni rapporto umano che non sia strumentalizzante e strumentalizzato, e quindi a maggior ragione dei rapporti degli umani con gli animali e i vegetali. A Singapore è invece stato creato a tempo di record un luogo che è erroneo e ingiusto qualificare di “giardino botanico”, benché nessuno dubita che lo sia; ma è talmente “altro” che si fa fatica a trovare una definizione adeguata ai “Gardens by the Bay”, i Giardini sulla baia.
La baia è quella South, quella meridionale, nel centro di Singapore, quasi un luogo di elezione per l’orgoglio di questo mini-Stato e maxi-città. Da luogo di commerci portuali ben poco estetici e ancor meno puliti, la baia è diventata un luogo di godimento della vita e condivisione, di relax e bellezza. Poco alla volta, con la costanza e la testardaggine che contraddistingue i governanti del Paese più ricco dell’Asia (pro-capite e dopo Brunei, il sultanato sempre in testa a tutte le classifiche) hanno voluto riconvertire il luogo con interventi architettonici sapienti e nel contempo arditi, che hanno radicalmente trasformato la baia, suscitando non poche rimostranze ma anche molte più espressioni di plauso. I Teatri sulla baia, quasi degli enormi occhi d’ape, il tri-hotel del Marina Bay Sands, sovrastato da un’enorme barca di cemento con tanto di minigolf e di piscine, il complesso delle torri della principale banca di Singapore, la Dbs, e il Centro della scienza, a forma di mano bionica. E ora i Giardini sulla baia.
Li avevo visti da lontano, la sera precedente, e mi erano parsi così originali da meritare una visita nel mio breve soggiorno: due hall quasi delle gobbe di zebra – una più alta, una più estesa – e una serie di strani funghi colorati. Di che suscitare se non altro una sana curiosità, sempre legittima per un viaggiatore. Chissà chi poteva aver mai inventato quelle forme così originali, chissà cosa racchiudevano, chissà quali finalità avevano guidato i politici che li avevano voluti. La prima idea che m’era venuta in mente girava attorno all’orgoglio. Non un orgoglio escludente, ma quel sentimento di fierezza per la propria creatività ed efficienza che desidera mettersi a disposizione, creare legami, stabilire il punto fermo della bellezza, insegnare la tolleranza.
La visita ai Gardens by the Bay è realmente un’oasi di frescura nell’impossibile temperatura di Singapore (impossibile per noi del Nord): si penetra in un mondo ancora più umido di quello che c’è all’esterno della calotta striata, ma con almeno dieci gradi di meno. Non poco per queste parti. Tanto più che nel Cloud Forest (Nuvola della foresta) si viene accolti dal frastuono musicale di una cascata alta la bellezza di quaranta metri, la cui nebulizzazione ti avvolge come una benedizione inattesa, e quindi gioiosa. Alzi gli occhi verso la volta di vetro e scorgi visitatori anche lassù, e capisci che anche tu lì salirai. E ne gioisci. L’alchimia giusta viene dal fatto che il percorso è congiuntamente educativo, estetico e spirituale, in un crescendo a spirale che inizia il cammino in sospensione da percorrere, dolcemente, quasi senza rendersi conto che si sale. Lo straordinario è che la perfetta organizzazione paesaggistica e botanica eleva, porta a riflettere sul senso della vita e sulla natura, oltre che sull’intervento dell’uomo, che gioca su un tessuto creato che ha bisogno del nostro contributo che completa il disegno del creato. Non so proprio se i progettisti avessero l’intenzione di suscitare tali sentimenti, ma l’effetto è tale.
Ma non è finita. Accanto all’elevato Cloud Forest, c’è il più calmo Flower Dome, la Cupola dei fiori, che raccoglie esemplari di piante e fiori da ogni parte del mondo, con aree dedicate alle singole zone climatiche: Mediterraneo, Sahara, Ande… Il tutto in un clima meno umido dell’altra hall, ma altrettanto fresco, più pacifico e rilassante, esteticamente più distensivo, meno chiari/scuri e più colori pastello. Stupende alcune prospettive studiate a fondo dagli architetti e dai paesaggisti, integrando baobab e cactus, aiuole fioritissime e palmizi, ulivi e abeti, in una commistione affascinante. C’è intelligenza e bellezza in questa Flower Dome.
Al termine della visita alle due hall, cercando di ritrovare la metropolitana passo sotto gli enormi funghi colorati che occupano buono spazio della zona dedicata al Gardens by the Bay: sono ancora parzialmente ricoperti di vegetazione, lo saranno nel giro di un paio d’anni, con delle tecniche di costruzione e di sistemazione delle piante assolutamente straordinarie. Una passerella aerea collega alcuni di questi funghi, con una vista stupenda sulle hall e su buona parte di Singapore.
Capito infine in un centro commerciale, in un mall, che vuole imitare Venezia, con tanto di canali, ponti e gondole. Kitsch, anche se di lusso. E mi dico che il grande disegno di Singapore è più efficace quando non si instupidisce nel neo-liberismo, ma quando s’arricchisce nel cercare di valorizzare quel che esiste, cioè la realtà e non la fiction.

giovedì 2 agosto 2012

Singapore, dove l'intraprendere è cultura


Nella città-Stato asiatica, la vita delle gente scorre come un grande fiume lavorativo, tutto impegno e guadagno. Ma c'è dell'altro, per fortuna.
Stupisce, Singapore, per una quantità di motivi. A cominciare dall’estrema pulizia che contraddistingue tutta la città, o quasi. C’è poi da registrare la qualità dei servizi offerti dalla municipalità, che è anche amministrazione statale, come il metro, che taluni qualificano come il migliore del mondo, forse non a caso. Singapore colpisce pure per la cura di ogni elemento naturale: le strade contano tutte sulla presenza di alberi, fiori ed arbusti, curatissimi, in particolare i rain tree, gli alberi della pioggia ombrelliformi. Persino l’asfalto pare curatissimo, viene il sospetto che lo spazzino di continuo, nelle larghe strade della città. Si nota pure la grande differenza tra il centro della città – svettanti grattacieli mescolati alle preservate e curatissime costruzioni coloniali – e i quartieri dormitorio della periferia, anonime anche se curate e brulicanti di gente.
Osservando poi la popolazione, si nota una profonda e inveterata mescolanza di razze, vissuta in un’estrema naturalezza. Colpisce anche il fatto che nei trasporti pubblici o per strada la gente di ogni età, ma ovviamente con una preponderanza giovanile, sono intenti a consultare o a giocare coi propri smartphone o tablet: i sorrisi sono praticamente inesistenti in pubblico. Scorgo solo una donna dai tratti somatici indiani che ride: perché sta vedendo un film sul suo telefonino! La gente sembra soddisfatta del proprio governo – esecutivo composto da sempre dalla classe imprenditoriale che domina lo Stato, che assicura servizi impeccabili e una grande sicurezza: dopo gi attentati degli anni Novanta, l’intera popolazione ha collaborato attivamente allo sradicamento del morbo terrorista, e ancor oggi ovunque appaiono cartelli che invitano alla collaborazione nella lotta all’insicurezza, con numeri verde sempre disponibili per le denunce anonime. Le ragazze appaiono anche qui le più influenzate dalla vena consumista: non solo perché usano i loro smartphone con una costanza e una tenacia quasi ossessive, ma anche perché paiono le fotocopie delle modelle di razza ed età indefinibile che imperversano nell’immaginario collettivo pubblicitario. A gambe nude, in short colorati, quasi tutte, ma senza scollatura. I ragazzi appaiono più trasandati e in fondo poco interessati all’estetica, molto più all’informatica.
Basta poco per accorgersi che la società è nei fatti divisa in tre: i ricchi, che non sono pochi, che vivono al centro o nei quartieri residenziali, che usano l’auto – si paga per entrare in centro con sofisticati modi di pagamento automatici –, che si servono nelle boutique di lusso, che non hanno problemi di conto in banca, che fanno studiare i propri figli nei collegi più esclusivi, quasi tutti europei. C’è poi la classe media, o medio-bassa, che abita nei casermoni delle periferie, soddisfatta di quanto viene offerto dal governo, integrata perfettamente, con interessi culturali piuttosto limitati. E poi gli immigrati – ormai superano il milione –, dediti ai lavori più umili, pagati comunque correttamente ma senza diritti particolari; abitano nei quartieri più lontani ed evidentemente inviano la massima parte dei loro guadagni a casa, nelle Filippine, in India, nel Bangla Desh, in Indonesia.