giovedì 27 maggio 2010

Famagosta, il cimitero delle chiese


In visita nella città cipriota al confine tra la zona turco-cipriota e quella greco-cipriota. Una lezione di storia.

Strana città, Famagosta. Ha a che fare coi fantasmi, come quelli che abitano il quartiere sud della città, una volta abitata dai greco-ciprioti, e poi abbandonata in tutta fretta al termine della guerra del 1974, quando l’Onu decretò che quella zona doveva far parte della buffer zone, e che quindi la vita doveva essere messa tra parentesi in quelle strade. No man’s land, tutto è in preda alla polvere e alla lenta agonia delle cose umane e finanche delle pietre. Un’atmosfera da fine del mondo accompagna la passeggiata sul limitar della zona vietata. Si vedono finestre cadenti, antenne piegate, insegne sbiadite, calcinacci e polvere, a tonnellate.

Ma Famagosta vive di fantasmi anche nella sua parte più preziosa, quella racchiusa nella città storica, quella che all’epoca dei Lusignano era seconda solo alla grande Nicosia. Era uno splendore di architetture gotiche e di tracciati urbani sapienti. Era il porto principale dell’intera Cipro, dopo che già nel VII secolo gli abitanti della vicina Salamis erano emigrati, perché il loro di porto si andava irrimediabilmente insabbiando. Il nome di Famagosta è altresì legato inscindibilmente al nome di Marcantonio Bragadin, comandante delle truppe veneziane che tra il 1570 e il 1571 resistette per sei mesi all’assedio asfissiante dell’esercito ottomano, eroicamente non c’è che dire. Bragadin fu poi torturato e scuoiato. La sua pelle impagliata venne fatta sfilare dai vincitori sia a Famagosta che a Istanbul, prima di venire poi recuperata dai veneziani, che la seppellirono nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo.

Le tracce di quell’assedio si vedono nelle straordinarie conformazioni murarie che sono i resti delle grandi basiliche della città dei Lusignano e poi dei veneziani. A cominciare dalla antica cattedrale di San Nicola, che i vincitori ottomani vollero trasformare in moschea e dedicare al vincitore della battaglia contro Bragadin, Lala Mustafa Paşa. Le torri campanarie della costruzione – edificata tra il 1298 e il 1328 su un modello assai simile alle “consorelle” di Parigi e di Chartres –, erano crollate, e la volta era collassata. Vi aggiunsero uno strano minareto, ricoprirono l’enorme volume della chiesa con una struttura orizzontale e vi cominciarono a pregare. Risultato, un’architettura unica, tra lo splendore e la farsa, un simbolo comunque della difficile convivenza mediterranea tra cristiani e musulmani. Il sicomoro piantato dinanzi alla facciata della basilica-moschea pare dati al 1320. Ha visto tutto ed è sopravvissuto, a testimonianza della forza superiore della vita, oltre le guerre e le barbarie umane.

A far da corona alla basilica-moschea di San Nicola-Lala Mustafa Paşa, altre quattro o cinque vecchie chiese gotiche fanno mostra dei loro moncherini, più o meno ignorate dalla popolazione che ne usa gli spazi per ogni sorta di mercimonio o di divertimento. In particolare mi colpisce la chiesa di San Giorgio dei greci, e l’attigua chiesetta dedicata a San Simeone, che riesce ancor oggi a far immaginare quale grande connubio potesse esistere tra le forme tradizionali gotiche, di provenienza francese, e quelle più ortodosse, di origine greca. Il sole è tramonta, la tinta rosata dei brandelli di mura, delle scalinate divelte, delle aperture dell’abside, degli archi in precario equilibrio – ma da secoli – raccontano la vicenda di un popolo in costante precarietà e in perenne rinnovato equilibrio, un ponte a forma di isola.

Deambulo poi nelle rovine delle altre chiese diroccate oppure trasformate in moschea o museo: Santi Pietro e Paolo, San Francesco, San Georgios Exorinos, San Giovanni, la chiesa dei Templari… Nulla stupisce più, nulla pare strano. Anzi, una città che non ha voluto distruggere le tracce del nemico diventa quasi una speranza di possibile convivenza. Ma senza mai dimenticare che tale coabitazione deve e può articolarsi solo sulle macerie. Sorbisco un caffè turco – che a qualche chilometro si dice invece cipriota –, mentre un giovane armato di centinaia di cartoline mi si avvicina per vendermi qualche immagine di rovine. I turisti in questa primavera fresca hanno disertato Famagosta e così Mustafa – questo il suo nome – s’accomoda al mio tavolo, gli offro un caffè. Dopo i soliti convenevoli su Totti e la vittoria dell’Inter in Champions, gli chiedo a che epoca secondo lui la moschea di Lala Mustafa Paşa, che sta dinanzi a noi. Mi guarda sorpreso, e mi fa: «L’hanno costruita gli ottomani». Non riesco a convincerlo dell’errore storico; anzi, più vado avanti nelle spiegazioni più s’inorgoglisce nel reclamare l’origine turca e musulmana della costruzione. È evidente: non ci può essere dialogo senza conoscenza reciproca. Ma la conoscenza reciproca passa per il rispetto e per l’ascolto. In fondo Mustafa mi ha detto solo che quelle pietre ora sono turche. Il che è anche vero.

martedì 18 maggio 2010

Le antiche pietre della Thailandia


Mentre le magliette rosse mettono a ferro e fuoco il Paese e il vecchio sovrano tace, ripenso ad una visita alle più vecchie pietre della regione, quelle di Ayutthaya (gennaio 2007).

Il mese di gennaio in Thailandia è notoriamente il periodo della frescura, dei condizionatori spenti, delle ore più calde del giorno da sfruttare finalmente per vivere e non per sopravvivere, senza doversi rincantucciare in qualche anfratto fresco e ombroso. Sì, è così. Eppure quest’oggi fa un caldo intenso, sui 34 gradi, senza considerare che l’umidità accentua la sensazione di soffocamento. Ma è l’ultimo giorno che posso trascorrere in Thailandia, cosicché mi decido per una gita “fuori porta”, un’ottantina di chilometri a Nord della capitale, nelle pianure centrali del sud, collegate da una scorrevole autostrada. Un’ideale mèta di scampagnata, né troppo lunga, né troppo breve. Per pochi bath affitto un taxi condizionatissimo, il cui autista si offre di accompagnarmi ovunque e comunque: ha già redatto il suo piano di battaglia, l’itinerario perfetto per conoscere in poche ore il gioiello di Ayutthaya. Circuito troppo perfetto. Più mi avvicino al sito archeologico, più maturo la convinzione che luoghi come questi vadano affrontati con la necessaria tranquillità, con il dovuto rispetto per il luogo, l’attenzione alla storia, il rifiuto del puro consumismo turistico. Anche se la temperatura esterna già alle nove di mattina sembra dissuadere da ogni eroismo deambulatorio.

Acquistato un bel cappello bianco a falde larghe – indispensabile –, mi trovo subito sbarrata la strada da alcuni elefanti a uso turistico, condotti da giovanotti vestiti pittorescamente di rosso e di giallo; la prima foto è scattata, dinanzi a quello che forse è l’antico tempio più immortalato dell’intera Ayutthaya, quello di Wat Phra Ram, deliziosamente riflesso in uno specchio d’acqua in cui galleggiano ninfee colorate, quasi delle orchidee. Di fronte a me il prang bombato, quasi ovoidale, o piuttosto a forma di pannocchia ben panciuta, antico nei mattoni rossi che si sgretolano e nell’intonaco di cui restano pochi brandelli attaccati alla costruzione, quasi una scusa per ricordare come tutto sia transeunte a questo mondo, anche la gloria temporale, così come quella spirituale. In questo luogo, in effetti, s’intrecciano la storia della Thailandia e quella del buddhismo theravada, indissolubilmente. Fondata nel 1350 dal re Ramathibodi I che fuggiva da un’infezione di vaiolo nella non lontana Lop Buri, Ayutthaya deriva il suo nome dalla casa di Rama, Ayodhya, come viene chiamata nel poema epico Ramayana. Nel XVI secolo sembra che contasse più d’un milione di abitanti, ed era ammirata da indigeni e mercanti. Venne abbandonata due secoli più tardi, quando fu saccheggiata dai birmani che avevano invaso la Thailandia.

Penetro nel tempio: da subito capisco che qui troverò solo prato spelacchiato – seppur in questo periodo ancora leggermente verde – e spuntoni di rovine, brandelli di muri, escrescenze informi di vecchie forme abitative, qualche pezzo senza testa di statue del Buddha, accanto a stupa e prang votivi ancora relativamente integri, forse semplicemente perché, nella rovina generale dei regni e degli imperi, qualche anima pia ha voluto conservare almeno i più importanti di quei simboli religiosi. Il sudore cola sulla fronte, sul volto, sul corpo. Nel mio deambulare appena cominciato e già ansimante ho con me una piantina del sito che da subito mi appare assolutamente inaffidabile nella scala di riproduzione e nella localizzazione dei vari siti. Così, avendo più o meno studiato un percorso ellittico, mi abbandono all’istinto, o meglio all’avvicinamento a vista: gli stupa e i prang, come nelle nostre campagne i campanili, mi fanno da guida, mi indicano la buona direzione. Scorgo ad esempio, tre punte a ovest del primo tempio che visito. Le seguo, le vedo ingrandirsi ed emergere quasi dal nulla fino a occupare stabilmente il campo visivo: ecco il Wat Phra Si Sanphet, una meraviglia, ai limiti dell’antico Palazzo imperiale. Le mura sembrano essere state stritolate da un cataclisma, nulla è più perpendicolare al suolo, nulla ha mantenuto l’aplomb, nulla pare offrire punti di riferimento. I mattoni rossi paiono destinati a ineluttabile sgretolamento, polverizzazione, nonostante le protezioni dell’Unesco, per una gestione nel complesso discutibile: quando i danni sono eccessivi, si restaura reintegrando quel che manca.

Proseguo il cammino incrociando altri due o tre templi: Wat Ratchaburana, Wat Mahathat, Wat Thamikkarat. Attraverso ampi spazi in cui sono stati costruiti obbrobri architettonici, scuole palestre negozi, nel bel mezzo del parco, nei quali folle di bambini vocianti festeggiano il Children’s Day, istituito dal primo ministro uscente, un Berlusconi locale, per mostrare al mondo quanto la Thailandia voglia difendere la sua infanzia dalle accuse di pedofilia generalizzata, di sfruttamento, di amoralità. C’è aria di festa, al punto che le grida gioiose dei bimbi m’accompagnano nella scoperta del tempio Wat Mahathat, noto per un albero secolare nel quale una delle radici avrebbe miracolosamente preso le sembianze d’un volto del Buddha.
Dopo quattro ore di cammino sotto il solleone mi sento distrutto ma felice di aver trovato il bandolo della matassa di Ayutthaya. Mi concedo perciò un giro in barca, questione di girare attorno al centro della città, per ritrovare altri approcci, altre vie d’interesse e conoscenza. E di colpo mi trovo a contemplare uno dei più bei templi della città: ecco il Wat Chaiwattanaram, edificato dal re Phrasattong in onore della madre. Un elemento umano in un insieme templare che pare poco umano ora che è cadente, ora che l’impronta dell’uomo si confronta e si mescola a quella della natura. Così è di Ayutthaya, ovunque.

giovedì 13 maggio 2010

Fatima, smisurato sagrato


Il papa in visita in Portogallo si ferma a pregare nel luogo delle apparizioni mariane ai tre pastorelli. Reportage, 1986.

Perché la Madonna permette che i luoghi delle sue apparizioni siano nove volte su dieci deturpati dal commercio e dal pietismo architettonico? A Fatima non posso non pensare così, di fronte ad una basilica di fattura mediocre – ora stanno costruendo un enorme ostensorio sdraiato da 10 mila posti a sedere –, che chiude una piazza sconfinata grande due volte quella di San Pietro. La bruttura, o piuttosto il cattivo gusto, sembrano voler schiacciare i luoghi della manifestazione della femminilità più assoluta, della bellezza portata in Cielo. Così è.

Accedendo allo smisurato sagrato della basilica, una giovane si para innanzi a me e ai miei giovani amici, e con fare gentile eppur fermo ci invita a non avvicinarci ai luoghi santi dell’apparizione di Maria ai tre pastorelli: «Mi dispiace, non siete vestiti correttamente, siamo in un luogo santo». Che dire? Non abbiamo che calzoncini corti e maglietta, niente di scandaloso, siamo in vacanza. Sotto i baffi (per chi ne è fornito), a mezze parole, la rivolta dei giovani amici stenta a costringersi entro limiti accettabili.

Ci sediamo in ordine sparso sui muretti che cingono la più grande piazza del mondo, così dicono. Il nervosismo si ramifica in mille tic, sussurri, sbadigli. Chi aprirà il fuoco di fila? Manu, sporco e sudato, si allunga sul lastricato polveroso e grumoso: «Peggio per loro, oggi avevo voglia di andare a messa». Fred fissa il vuoto, il mento sulle ginocchia ritratte: «Non ho niente contro quella ragazza. Ma perché ci sbatte sul muso i suoi tabù puritani?». Isabelle sceglie il buonsenso: «Quasi quasi torno a discutere con lei; se fa la poliziotta del buoncostume avrà i suoi motivi». Di fronte all’atteggiamento distratto del resto della combriccola, si leva: «La chiamo».
Rosa, questo il suo nome, accetta l’invito, nonostante un francese approssimativo, mai sciacquato lungo la Senna. Gonna alle caviglie, camicetta abbottonata fino al colletto, fare compito, quasi timido, non è tuttavia intimorita dalla nostra banda di turisti scesi come un’orda vandalica dalla grande Francia della rivoluzione atea: «Da dove venite?».

Il sopore si dissipa per una domanda così semplice e inattesa. Si entra ben presto, brutalmente quasi, nel vivo del discorso: «Perché dissipi le tue ore a misurare i centimetri quadrati di pelle esposti alla tentazione del prossimo?», insinua Régis. «Non lo faccio per piacere – risponde Rosa –: è importante ricordare ai turisti che Fatima non è solo una meta turistica, ma un luogo dove Maria si è manifestata a tre bambini». «E ti sembra il modo migliore?», insiste Isabelle. «Non lo so, ma è un modo», sorride disarmante la piccola portoghese. «È vero, ma capisci che per noi, gente di altre culture, quest’atteggiamento rischia di provocare un vero e proprio rigetto della Chiesa? Da noi, ci si veste così d’estate e dov’è la libertà?», protesta Fred. «Forse hai ragione, ma i limiti esistono. In ogni modo, non voglio scoraggiarvi di partecipare alla messa. Non conoscevo le vostre intenzioni e non sarò io a impedirvelo», si scusa Rosa.

Entriamo nella basilica per assistere alla messa, percorrendo quasi vergognosi i lunghi gradini che abbracciano la basilica, senza capire granché‚ d’altronde. Poi scendiamo alla cappella, una sola vetrata attorno al luogo delle apparizioni, coronata da una selva di candele giallognole di ogni forma e taglia, combustibile di una multitudine di fiammelle cangianti. Una donna appassita struscia le ginocchia sul lastricato e sui gradini attorno alla cappella, inanellando monotoni circuiti penitenziali. Nella mano un’alabarda, uno stendardo, una bandiera: una minuscula e fiera candela. «Non ne sarei capace», confessa Jean-François. E accende per qualche decina di scudi una candelina giallognola: come quella della donna appassita.

mercoledì 12 maggio 2010

Vardzia, il condominio del XII secolo


Su "La Stampa" viene segnalata la scoperta di una necropoli nella valle del fiume Mtkvari, nella Georgia meridionale. In realtà nel Paese di necropoli ne esistono una gran quantità. Reportage del 2008 da una di esse.

Mai m’era capitato di visitare una città sotterranea così… aerea. Mai ero penetrato in così tanti vani underground, aperti su un pallido cielo afoso d’agosto. Mai avevo salito e disceso tanti scalini in un così breve lasso di tempo – non ce n’è uno uguale all’altro – nelle viscere della terra. Erano 3500, dicono, le abitazioni del sito, ma attualmente solo poco più di 300 possono essere visitate. Vale la pena di farlo, anche se Vardzia è troppo lontana dai tradizionali circuiti turistici: Batumi è a cinque ore, Kutaisi a sei e Tbilisi a sette, guerra permettendo, ovviamente, perché di questi tempi si rischia di vedere raddoppiati o triplicati questi orari ipotizzati.

Già l’approccio logistico, chiamiamolo così, alla città nella roccia incute un certo timore, per via dei 17 chilometri di strada sterrata che vanno affrontati con non poca pazienza e circospezione. Non incrociamo nessun’auto in questo tragitto conclusivo dell’avvicinamento, anche se siamo d’estate, di domenica e a mezzogiorno, timing di per sé ideali per il turismo. Il fatto è che la gente è siderata dalla guerra: c’è ben altro a cui pensare. La natura è superba, i guardiani sciatti ma tignosi con gli unici visitatori che noi siamo, il sole batte impietoso. Ma lassù m’attende un tesoro: niente ori – ovviamente ormai da secoli trafugati da tutti quei popoli che qui hanno fatto a turno il bello e il cattivo tempo – ma la continua entrata e uscita nel e dal mistero dell’umana condizione. Se all’inizio del XII secolo il re Giorgio III aveva progettato e cominciato a realizzare questo sito a chiari scopi militari, alla sua morte la figlia Tamara mutò radicalmente il suo scopo, trasformando il sito in un monastero. Se il re qui voleva concentrare e proteggere 50 mila soldati, la principessa trovò il modo di ospitarvi degnamente un migliaio di monaci, per quello che all’epoca era considerato il più grande monastero esistente al mondo.

Soldati e monaci: i primi volevano nascondersi dal nemico per meglio attaccarlo; i secondi, invece, volevano nascondersi dal maligno (il “mondo”) per meglio abbandonarlo. Due modi di nascondersi, in ogni caso. A Vardzia, in quell’epoca, la cosa era possibile e in fondo agevole per il fatto che dinanzi all’attuale parete tufacea traforata – trapuntata, direi piuttosto – si ergeva una sorta di immenso paravento. Dicono fosse alto quanto l’abitato previsto e largo una trentina di metri. L’ideale per nascondersi alla vista altrui e condurre nel contempo una vita relativamente libera. Ma il sogno fu ridotto ben presto in frantumi, letteralmente, perché la paratia di roccia non resistette al violentissimo terremoto che nel 1283 portò morte e distruzione in tutto il Caucaso meridionale.

Il complesso militare e poi monastico era stato completato solo vent’anni prima, dopo più di mezzo secolo di lavori di scavo e decorazione degli innumerevoli vani del complesso. Che, come riesco a capire, possedeva tutti gli elementi di una città seppure nella roccia, seppur verticale: abitazioni, mense, cantine per il vino, acquedotto che trasportava il prezioso elemento da tre chilometri di distanza, farmacia, depositi, negozi e chiese, cappelle e luoghi della cosa pubblica, piazze, quattro porte d’entrata, campanile e forni, fortini e santabarbara. Il tutto distribuito su tredici livelli, un’operazione architettonica non indifferente per l’epoca.

Al quarto livello scopro il gioiello dell’intero complesso di Vardzia, la chiesa dedicata all’Assunzione della Santa Vergine Maria, tutta affrescata – mi dicono che le pitture risalgono al 1184, ma in Georgia ho imparato a prendere tutte le cifre e tutte le date con le necessarie precauzioni –, anche se la visibilità e la riconoscibilità delle singole scene è più che difficile. C’è una Incoronazione della Vergine, naturalmente un’Assunzione, santi e sante, apostoli e profeti, scene bibliche. Tutte avvolte nell’aura di mistero creata dal tempo e dal fumo delle gialle candeline votive, dalla varietà di mani e pennelli, dal luogo stesso. E in fondo sogno e spero che nessuno s’azzardi a mettere mano a quest’opera d’arte, soprattutto se si trattasse di tanti, troppi restauratori georgiani che amano prendersi per nuovi Michelangioli!

Un monaco s’avvicina, avrà trent’anni – la barba è curata e le scarpe perfettamente lucide –; mi spiega che in una ventina di questi buchi vivono sette monaci che pregano quattro ore al giorno e ne lavorano otto, che coltivano i loro orti sopra le montagne, che producono un buon miele e che pescano eccellenti trote, che la vita non è facile lassù, che sì l’esistenza è bella e l’isolamento radicale, che ci sono sei posti letto per gli ospiti e che il governo non dà loro nulla, che Roma è lontana e non è il luogo dove Cristo ha preso dimora…

Ma non m’interessa più di tanto le sue parole, anche se il monaco pare onesto e gentile. M’interessano invece le scale celate nella roccia: quelle che conducono alla sorgente e quelle che permettevano di ripulire i pozzi di aerazione; quelle che permettevano di accedere alle cappelle più recondite e quelle che consentivano di ripararsi da eventuali invasioni… Li salgo e li discendo, quei gradini, trovando nel continuo andirivieni il senso misterioso del luogo: la vita è un continuo salire e scendere le scale del quotidiano e della storia. Le scale del senso della storia, come quella che si sta “facendo” proprio in questi giorni nella Georgia delle infinite guerre. Per qualche semplice fazzoletto di territorio conteso.

venerdì 7 maggio 2010

Intervista di ZENIT a proposito di "Sull'ampio confine"


Storie di cristiani nel Caucaso. Intervista al giornalista e scrittore Michele Zanzucchi, di Antonio Gaspari

ROMA, giovedì, 29 aprile 2010 (ZENIT.org).-

E' arrivato nelle librerie il volume “Sull'ampio confine. Storie di cristiani nel Caucaso” scritto da Michele Zanzucchi e pubblicato da “Città Nuova Editrice”. Si tratta di un libro utilissimo per capire la storia e le vicende di una delle regioni più conflittuali del pianeta. Michele Zanzucchi, giornalista e scrittore, Caporedattore del quindicinale Città Nuova, ha raccolto in questo volume quattro anni di viaggi nella regione transcaucasica e nella regione ciscaucasica. Un viaggio in cui l’autore racconta tante avventure, ma soprattutto incontri e visite. Visite a luoghi meravigliosi e drammatici, incontri con gente ricca di umanità, di ogni etnia, età, estrazione sociale, cristiani soprattutto ma non solo. Lingue, culture e rivendicazioni inedite, drammatiche e sconvolgenti, comunque intrise di un’umanità prorompente. E poi ci sono i cristiani tutti d’un pezzo che vivono la loro fede con impegno, talvolta nella paura, in ogni caso solidali con la loro gente. Per cercare di capire la storia antica dei cristiani e che cosa sta accadendo in quella parte del mondo ZENIT ha intervistato Michele Zanzucchi.

Quanti sono i cristiani nelle regioni del Caucaso? E quanto incidono nella vita sociale, culturale e religiosa delle varie nazioni che vanno dalla steppa russa fino al deserto iraniano?
Zanzucchi: È difficile valutare con esattezza il numero dei cristiani presenti nella regione, che come si sa è divisa dalla catena montagnosa in Ciscaucasia e Transcaucasia.
La prima è completamente in territorio russo, ed è composta da alcune province autonome (come la Cabardino-Balcaria o la Cecenia): solo l’Ossezia del Nord è a prevalenza cristiana, mentre le altre regioni sono essenzialmente musulmane; ovunque, però, si registra una forte presenza di agnostici e atei. Nella regione ciscaucasica i cristiani possono essere valutati in un milione circa, o poco più.
La Transcaucasia è invece composta da tre Stati indipendenti – Georgia, Armenia e Azerbaijan, più piccoli territori contesi –, le prime due delle quali sono essenzialmente cristiane, mentre nel terzo Paese la presenza cristiana è assolutamente minoritaria; nel complesso si può calcolare che i cristiani nella regione transcaucasica siano circa sette milioni.
Su un totale di circa 24 milioni di abitanti, i cristiani sarebbero quindi circa 8 milioni, un terzo. La loro presenza, tuttavia, è assai significativa dal punto di vista religioso, civile e culturale, soprattutto, ovviamente, nei Paesi a maggioranza cristiana. Spesso, purtroppo, i cristiani – e ancor più i cattolici – hanno comunità così esigue da riuscire a malapena a sopravvivere.

Ossezia, Cecenia, Georgia, Abcasia, Azerbaijan, Armenia, ecc. sono regioni e culture complesse, con una storia complicata. Qual è la testimonianza dei cristiani che ci vivono e che tu hai raccolto?
Zanzucchi: Le testimonianze raccolte dicono che il cristianesimo è duro a morire, seppure in condizioni spesso drammatiche: pensiamo alle minoranze nella regione ciscaucasica, talvolta, come dicevo, tutte impegnate semplicemente a sopravvivere. Le storie raccolte nel libro dicono di una fede provata ma salda, messa in difficoltà da alcune tensioni ecumeniche con i cristiani ortodossi e soprattutto da certe pressioni provenienti da fedeli di altre religioni. Ma va sottolineato come le tensioni nella regione siano essenzialmente di carattere etnico e politico, raramente di carattere religioso.
Mi preme sottolineare, inoltre, come i cristiani più di tante altre comunità sappiano fungere da collante, da fattori di coesione sociale e politica. Certamente, però, nella regione si scaricano tante e tali tensioni, anche economiche, da rendere difficile ogni forma di armonizzazione sociale e religiosa.

Quante di queste zone, una volta cristiane, sono ora di religione musulmana? E quali sono i rapporti tra cristiani e islam?
Zanzucchi: È soprattutto nella regione ciscaucasica, quindi in territorio russo, che si trovano regioni che, cristiane sotto gli zar, sono diventate musulmane negli ultimi due secoli: penso in particolare alla Cecenia e all’Inguscezia. In queste regioni la tensione politica è talmente elevata da fagocitare ogni altra tensione. Sì, i combattenti ceceni e ingusci spesso inalberano il loro simbolo religioso musulmano per combattere il simbolo religioso cristiano dei soldati russi, ma la dominante politica è indubbia.
È da notare come vi siano state infiltrazioni di fondamentalismo islamico arabo nella regione – penso ai salafiti e ai wahhabiti –, e che tali infiltrazioni si siano saldate con le tendenze terroristiche. Ma le popolazioni non hanno mai veramente assimilato il credo del radicalismo islamista. Basti notare il ruolo della donna in tutta la regione, considerato alla pari di quello dell’uomo.
In generale, comunque, i responsabili religiosi non hanno grandi problemi di convivenza, e anzi spesso operano congiuntamente, soprattutto in campo sociale.

Perchè la Chiesa d’Oriente non è riuscita a crescere, ed anzi ha perso influenza e presenza?
Zanzucchi: Va certamente distinta la situazione in Georgia e Armenia – dove anzi le rispettive chiese ortodosse hanno aumentato di molto la loro influenza dopo la caduta dell’Imperium comunista – da quella nella parte settentrionale della regione, in cui effettivamente le Chiese cristiane hanno avuto molte difficoltà a mantenere negli ultimi decenni un’influenza spesso imposta dal regime zarista con la forza.
Più in generale va detto che si nota come il comunismo abbia tramortito la gente, l’umanità della regione caucasica, come d’altronde in tante altre parti dell’ex Unione Sovietica. La gente normale fatica ad accettare le basi del pensiero e della fede quali la verità, la giustizia e la fraternità, vittime tra l’altro di un potente consumismo. Ho visto gente che abitava in case di fango e faticava a trovare il cibo, ma l’ultimo modello di cellulare ce l’avevano o il maquillage più ardito se l’erano fatto dipingere sul volto…

Perchè hai scritto questo libro?
Zanzucchi: L’ho scritto per avere incontrato nella mia attività giornalistica diverse personalità e gente comune provenienti dalla regione: tutte persone degne di rispetto e della massima attenzione. Il primo approccio alla regione, comunque, è stato provocato da un incontro sul dialogo tra le religioni promosso dall’Unesco, dal governo georgiano, dalla Chiesa ortodossa di Georgia e da varie organizzazioni cultural-religiose della regione, tra cui la galassia musulmana turca, di tradizione sufi, che fa capo a Fetullah Gülen.
Ho intuito come il Caucaso sia uno dei più importanti e pericolosi carrefour del mondo, dove si incrociano etnie (un centinaio), religioni diverse, culture antichissime, commerci… Studiare questi “incroci del mondo” è materia di grandissimo interesse per capire il presente e intuire qualcosa del futuro. Anche in campo religioso.
Debbo poi confessare di aver preso l’ultima decisione solo dopo essermi immerso nella lettura delle stupende memorie di Pavel Florenskij, la cui famiglia era un’esemplificazione della complessità della regione, tra l’altro fornita di bellezze naturali ineguagliabili. Ho lasciato un pezzo del mio cuore laggiù.

Quali sono le novità che hai colto? E quali gli insegnamenti da trarre?
Zanzucchi: Le novità? Tutto, in fondo, risulta nuovo rispetto a quanto ci è dato di conoscere qui da noi dai resoconti giornalistici, che per forza di cose sono rapidi e spesso non approfonditi. Purtroppo, la visione che noi abbiamo della regione è influenzata in modo totalizzante dalle tante situazioni di conflitto di cui si parla: Ossezia del Sud, Abcasia, Nagorno Karabakh, Inguscezia, Cecenia… La regione, invece, è ricca di quell’umanità eroica e profonda che nasce proprio dalle difficoltà. Non va certamente dimenticata la gravissima povertà che colpisce la massima parte della regione caucasica.

Insegnamenti?

Uno su tutti: il messaggio del Cristo è veramente universale, ed è la risposta agognata da tanti. Quando i cristiani riescono a dare una testimonianza concreta e compiuta, ecco che nella società viene piantato il seme della pace, che prima o poi germoglia.

giovedì 6 maggio 2010

Gran Bretagna al voto, nell'incertezza


Brown, Cameron o Cleggs? Tra poche ore sapremo chi ha vinto. E festeggerà a Piccadilly Circus... Visita del 2004.

Passeggiata notturna nel centro di Londra, popolata all’inverosimile da uno strano popolo della notte, come si dice oggi “trasversale”: razze lingue età stato interessi… Tutti insieme appassionatamente, su e giù per le scale del tube, intasati in pub che sembrano moltiplicare la loro capienza sfidando le leggi della compenetrazione dei solidi, teatri annunciati da code chilometriche, concerti d’ogni dimensione e qualità accompagnati dalle solite ondate di fischi ed applausi. Come a Roma, più che a Roma. Come a Parigi, più che a Parigi. Mi chiedo come mai la vita notturna sia stata una delle manifestazioni più riuscite della democrazia della fine millennio: chiunque ha finalmente accesso alle notti cittadine, anche chi non ha pecunia e che in una mezz’ora riesce comunque a elemosinare i denari sufficienti per un buon spuntino.

Osservo la folla che si accanisce sui gradini della fontana dell’Eros alato a Piccadilly Circus. Quasi tutti giovani, ma non solo. Stanno lì a far niente, a bene una canette di birra, a chiacchierare dell’ultimo album dell’ultimo gruppo all’ultima moda, a scuotere la testa al tempo della musica che arriva nella piazza come un vento costante da chissà dove. Ma anche a leggere descrizioni acculturate dell’esposizione di Hopper alla Tate Modern, oppure a conversare sulla vita e sulla morte, sull’escatologia e sulla protologia nella grande prospettiva dell’apocalisse dell’occidente. Guadagnare qualche centimetro quadrato in uno qualsiasi dei gradini della fontana ha del miracoloso. Eppure, guardando i movimenti della folla da lontano, ci si accorge che nulla è statico, che la massa umana segue le leggi dell’idraulica nell’adattarsi alle forme architettoniche e nel resistere alle pressioni esterne, o nel cambiare parte del proprio liquido composto dagli umani attirati da quei sedili.

Mi chiedo ancora che cosa faccia preferire questi gradini a quelli, ad esempio, della vicina Waterloo Square, sormontata dalla colonna della statua del Duca di York. Forse è il muro di pubblicità luminosa ad attirare tanta gente; forse l’incredibile incrocio di vie che versano fiumi di taxi neri e di autobus rossi a due piani in quell’angusto spazio; o forse ancora i teatri che si affacciano sulla piazza, in primis quello shakespiriano. O, perché no, la sottostante metropolitana, che erutta fiotti di passeggeri ogni qualche minuto. Fatto sta che i gradini sono sempre ricoperti da umane sembianze, mentre l’Eros alato continua a rimanere leggiadro e leggero, incombente sulla folla giovanile o meno. Forse, allora, è proprio quest’Eros scolpito nel 1892 per commemorare il mecenate vittoriano conte di Shaftesbury che attira tanta gente.
L’amore, l’eterna attrazione, l’infinito ricominciare, la sfrontata dimostrazione dell’umana mortalità e della sua inusitata eternità.