lunedì 30 gennaio 2012

Monte Siepi, i nobili e le vigne


Accanto all'abbazia senza tetto, uno spazio misterioso e foriero di sorprese.

L’esperienza di San Galgano, l’abbazia senza tetto, la chiesa gotica che vive d’erba e di cielo, non può essere dimenticata facilmente. Abita lo spirito senza imposizioni ma senza tentennamenti, come un’evidenza. Poco importa la sto-ria ambigua e ben poco santa del sito. Quel che conta ormai è la bellezza creata dallo straordinario patto tra terra, aria e pietra: ognuna debitrice e creditrice alle altre due del giusto equilibrio. A vegliare sul sito, dall’alto di un colle d’un centinaio di metri d’altezza, sta una piccola chiesa, stile romanico del XII seco-lo, una rotonda con annesso presbiterio.
È qui che salgo lentamente, dopo la meditazione ai piedi dei muri di San Gal-gano, e dopo la comunione con la cultura e la natura del luogo che si sintetizza nella cucina del chiusdino. L’ascesa lungo un sentiero che costeggia una vigna ordinata e regolare, ingentilita dai roseti che segnano l’incipit del disegno dell’uomo che pettina la natura, è un avvicinamento al mistero del luogo, come scrive Franco Cardini: «Se poi, dagli imponenti ruderi, si sale alla “rotonda” di Monte Siepi, l’emozione e la perplessità crescono in proporzionale misura. L’enigmatica spada infitta nella roccia è un troppo forte richiamo simbolico, leggendario, staremmo per dire mitico e archetipico» . Sì, sotto la volta a cer-chi concentrici bianchi e rossi, sta una spada infita nella roccia, richiamo in-consueto per i luoghi al ciclo nordico di Re Artù. La storia è lunga, discussa e discutibile, Cardini cerca di “sistemarla” ma riuscendoci solo in parte. Ma a me non importa, qui si respira l’inquietante ed eccitante clima di antica leg-genda che riporta indietro alla Tavola rotonda, agli intrighi dei maghi e delle fantucchiere, alla straordinaria evocatività dei simboli della magia.
La porta della chiesa è sbarrata, dall’interno provengono i rumori e i suoni del-la liturgia, e della liturgia dei secoli andati. Anticaglie e cozzar di ferri, profumi d’incensi d’Oriente e salmodiare in latino. C’è aria di nobiltà, c’è mistero di sa-cralità. Tutto è sacro, qui a Monte Siepi, nulla è santo. La messa è finita, le porte si aprono e sciama un popolo di aristocratici, in crinoline e divisa, in mantelle e scarpe verniciate. Un po’ comico, come i nobiluomini dalle ampie mantelle rosse e blu che non esitano a mettersi in posa dinanzi alla spada nella roccia, e che rispondono con degnanza alle domande dei villici, come il sotto-scritto, che vengono ammessi nella riserva di simboli e segni della loro con-grega, delle loro confraternite. Ridicoli. Reliquie. Rampanti.

lunedì 23 gennaio 2012

King Fahd Causeway


Verso la misteriosa Arabia attraverso una delle opere d'ingegneria più impressionanti della fine del XX secolo.

È elettrizzante, anche se un’incognita lo è solo relativamente, l’idea di “toccare con la mano” l’Arabia Saudita, uno dei mondi più misteriosi e potenzialmente esplosivi che esistano al mondo. Vorrei arrivare, lato Bahrein, fino alla frontie-ra saudita percorrendo la metà di una delle opere ingegneristiche più impres-sionanti al mondo: il King Fahd Causeway. Qualche dato può dare un’idea dell’importanza dell’infrastruttura: 26 chilometri nel mare con una serie di viadotti a schiena d’asino, 12430 metri. che congiungono diverse isolette, ul-timata nel 1986 e costata all’epoca 1,2 miliardi di dollari.
È una lingua d’asfalto quella che si percorre ad andatura sostenuta, occupata da un traffico diradato, costituito principalmente da grandi camion a rimor-chio che trasportano merci in Arabia Saudita o che tornano in patria dopo aver scaricato in Bahrein o Qatar la loro mercanzia. Si sale e si scende, perché i lunghi viadotti paiono voler imitare le gobbe dell’animale più amato del luogo, il cammello ovviamente, e il suo cugino dromedario. In una dozzina di chilo-metri si giunge ad un’isola caratterizzata da due funghi identici: due torri, una del Bahrein, l’altra saudita. In mezzo a loro la frontiera, intasata di truck. Il lungomare permette di osservare i ponti ondeggianti che si perdono nelle brume dell’umidità del Golfo Persico. Come un lunghissimo serpente di mare che s’è perduto nei fondali del mare. Dall’alto della torre, invece, è la maestosi-tà dell’opera che appare evidente e che certamente è un vero orgoglio per que-sti popoli. Nonostante la sporcizia dei vetri.

giovedì 12 gennaio 2012

Moqattam, dagli chiffonier


Nell'Egitto che vota, visita al quartiere dove l'immondizia diventa un mezzo di sopravvivenza.

Quasi nel cuore del Cairo, sull’altro versante di una profonda ferita del suolo rispetto all’orgogliosa Cittadella, sorge un umilissimo quartiere – uno spazio, piuttosto, o un’ipotesi di convivenza – che da tempo ormai è nota anche al grande pubblico mediatico, per via dei santi contemporanei che qui hanno vissuto e vivono ancora, portando il loro servizio. Soeur Emmanuelle in testa. È questo il quartiere detto Moqattam, regno degli
chiffonnier, cioè di coloro che frugano nell’enorme attigua discarica cairota per trarne qualche piccolo o grande tesoro, in ogni caso una fonte di sostentamento, misero quanto si vuole ma pur sempre sostentamento. Per le famiglie del quartiere, che sono in massima parte cristiane, come testimoniano le sommarie luminarie natalizie che hanno voluto appendere nelle loro strade. Una storia che è un calvario: gli zabbaleen ne sono all’origine. Si tratta di una comunità religiosa della minoranza cristiana copta, che raccolgono la spazzatura del Cairo, da 80 anni in qua. Zabbaleen significa in arabo proprio “popolo della spazzatura”. Sparsi su sette diversi insediamenti della grande urbanità del Cairo, la popolazione zabbaleen è valutata sulle 70 mila unità. Il più grande insediamento è proprio Moqattam, ai piedi del montagne omonime, accanto a Manshiyat Naser, un insediamento abusivo musulmano.

Gli zabbaleen raccoglievano i rifiuti porta a porta ditero una piccola offerta. Poi riciclavano e riciclano tuttora fino all’80 per cento dei rifiuti raccolti. Erano famosi, gli zabbaleen, perché giravano per la città su carretti tirati da asini, mentre oggi spesso girano con vecchi camioncini. Gli zabbaleen costituiscono una comunità forte e affiatata, nonostante malattie, precarietà e promiscuità.

È indicibile la sporcizia del quartiere, anche se dicono fosse ben peggio qualche anno addietro. Non c’è cultura della pulizia, non può essercelo. Ma c’è una grande, profonda cultura dell’accoglienza tra questa gente. Una cultura ben più importante di quella dell’igiene pubblica. Chiedo la strada verso le chiese scavate nella montagna di cui ho sentito parlare. Lo chiedo a un uomo anziano vestito d’un caffetano che era bianco, secoli fa. S’apre in un sorriso sdentato, s’eleva sopra la miseria materiale per indicarmi con l’indice della mano destra sporca e raggrinzita una via in ascesa, una scalinata sbozzata e precaria. Ma non vuole lasciarmi andare, vuole sapere qualcosa, da dove vengo, vuole parlare, sentire la mia voce forestiera. Dirmi che Gesù è rinato. Raccontarmi in tre vocaboli che non capisco tutta la protologia e l’escatologia. Una lezione di vita e d’umanità. Umanesimo allo stato nascente, puro.

I bambini sfrecciano, s’arrestano, fanno capriole, chiedono un bonbon, mi prendono per mano e m’accompagnano dove non importa. Basta essere assieme. Un’altra lezione di presente assoluto. Un uomo mi presenta la sua piccola infagottata, mi saluta anche se non l’ho mai visto e se non lo vedrò mai più. Vuol sapere il mio nome, e lo ripete tre, quattro, dieci volte. Mi nomina, mi crea, come Dio. Gratuitamente.

Sopra l’abitato i cristiani che non potevano costruire le loro chiese, hanno con l’astuzia del serpente e l’innocenza delle colombe scavato nella roccia i loro luoghi di culto. E più la popolazione del quartiere di Moqattam cresceva, più allargavano quelle caverne artificiali. Oggi ospitano migliaia di persone. Migliaia di maestri d’umanità. Che poi la miseria crei abomini, che la disperazione porti alla morte, che la malattia diventi endemica non sono certo cose di poco conto. Ma, come scriveva Tagore, è proprio negli immondezzai che crescono i fiori più belli.