domenica 27 novembre 2011

Ritorno a Tunisi


È la terza volta che vengo a Tunisi, la prima nel dopo-Ben Ali, dopo quella “primavera araba” che tanta gente ormai preferisce chiamare “transizione araba”, se non addirittura “autunno arabo”. Oppure, per completare la revisione, “inverno arabo”.

Nell’aereo per tre quarti vuoto incontro il vescovo mons. Lahham, che subito mi dice: «È stata e resta una primavera araba, bisogna crederci e bisogna andare avanti con fiducia e speranza». Categorico.Sullo stesso volo notturno, un imprenditore turistico non è per niente dello stesso avviso: «L’economia è in difficoltà, i Paesi europei non ci danno una mano, presi nella grave crisi finanziaria, e così la gente finisce con il cadere nelle braccia degli islamici, che assicurano certezze, quelle che ci mancano come economia e come ordine pubblico. Poco importa che siano religiose, sono pur sempre certezze». Interviene nella discussione una donna cinquantenne, fresca vedova di un modenese, lei tunisina con doppio passaporto: «Non riconosco più il mio Paese, qui ormai non si è più sicuri di nulla. Abito a due passi dalla villa di Ben Ali, e posso dire che non c’è più né sicurezza né libertà come prima. Le donne sono sempre più col velo, i giovani imam barbuti non hanno più rispetto per gli anziani e vogliono insegnar loro come pregare. Siamo alla follia!».

Con le premesse del volo Roma-Tunisi mi accingo a trascorrere un sabato particolare. Avrei dovuto andare in Libia, ma il visto non è arrivato, e quindi mi ritrovo a trascorrere qui a Tunisi l’ultimo giorno dell’anno secondo il vecchio calendario arabo. LA città brulica di gente, i turisti sono quasi inesistenti, gli autoblindo controllano il centro città, ma la polizia in giro è molto rara. Effettivamente noto un bel po’ di foulard, di hijab e persino qualche burqa, in quantità decisamente maggiore rispetto al periodo della dittatura-soft di Ben Ali. I tradizionali capannelli di donne che passeggiano al centro sono sempre più misti, donne velate e donne a capo scoperto, nel rispetto delle rispettive scelte, ma anche segno di una progressiva divisione ideologica della società tunisina. Se non pare che vi siano grandi differenze rispetto al passato, le conversazioni tradiscono una forte tensione. Si parla all’infinito di “transizione”, anche alla radio e alla tv. Qui tutto pare in transizione, ormai, è quasi un ritornello.

I tassisti sono il miglior punto di osservazione della città, come sempre. Anche qui a Tunisi. Mi carica un ex-pescatore, ex-poliziotto, ex-operatore turistico ed ex-disoccupato. La sua Renault Clio è piena di strisci e di bozzi. Parliamo in francese, poi naturalmente viriamo all’italiano, lingua che possiede discretamente, nonostante non abbia mai visitato la Penisola: «Ho tre figli che studiano, debbo pure far vivere la famiglia! – mi spiega –. Quando l’economia va in crisi bisogna darsi da fare. Per questo ho dipinto la mia vecchia auto di giallo e mi sono messo a fare il tassista». Confessa senza particolare stati d’animo né tantomeno vergogne che ha votato per Hennada, il partito che ha vinto le elezioni per l’Assemblea costituente, e che si sta preparando a governare. Il partito che la stampa occidentale guarda con sospetto e che definisce «moderatamente islamico» e di cui si paventa un possibile irrigidimento verso un radicalismo sempre più integrista, con al riproposizione della shari’a, la legge islamica. «Ma non è vero – precisa il tassista Ahmad –, perché Hennada è il solo partito di onesti, non legati al passato regime e assai sinceri nelle loro espressioni. Gli altri partiti sono tutti compromessi, questa è la verità». Come il mio tassista circa la metà della popolazione tunisina la pensa così. Dopo quarant’anni di dittatura che assicurava comunque l’ordine, il caos è visto come la peste. Meglio un deficit di libertà e di ricchezza che di tranquillità sociale.

Effettivamente è un po’ schizofrenica la Tunisia di questi tempi. Assapora insolite libertà – oggi, udite udite, persino i poliziotti fanno sciopero, restando tuttavia al loro posto ma portando un bracciale azzurro in segno di protesta –, ma in fondo non sa cosa farsene, come gestirla, come occupare il proprio tempo. Serve tempo per una democrazia di stile arabo, o meglio di una libertà di impronta araba. Non è detto che debba corrispondere alla nostra democrazia parlamentare. I social network affascinano i giovani acculturati tunisini, li spronano a conquistare le loro libertà, ma nel contempo spaccano in due le famiglie, scavano fossati tra le generazioni, aprono nuove strade ma senza che vi siano i mezzi per percorrerle. In un caffè nel lungomare di La Goulette, al di là della laguna che bagna Tunisi, una giovane donna emancipata – sia nell’abbigliamento che nel vocabolario – mi confida il suo smarrimento, dopo essersi seduta al mio tavolino sua sponte, e un po’ sfrontatamente: «Sono disoccupata ma non posso essere nostalgica dei tempi di Ben Ali. Non sopporto Hennada e le donne col velo, ma in qualche modo invidio le loro certezze. Non sono né carne né pesce, non so chi sono. Mi consolo sorbendo un caffè sulla spiaggia, e sperando di incontrare un uomo italiano che mi sposi e mi porti al di là del mare».

lunedì 21 novembre 2011

Kronborg Slot, dove Amleto continua a dubitare


Uno dei castelli più celebri della Danimarca, nella Selandia nord-occidentale. Una visita che consiglierei a tutti gli euroscettici.

Lascio Copenhagen che la nebbia avvolge ogni cosa, ingrigisce l’erba e taglia la testa alle torri. Il piatto Nord pare ancora più piatto, e la nostalgia del Sud assolato mi sfiora anche solo per qualche istante. Il tempo d’imboccare l’autostrada e di puntare decisamente verso settentrione, per scoprire i castelli che rendono celebre e misteriosa la Danimarca. Una trentina di chilometri e la brezza del mare pare modellare cose e case con la sua salsedine e, in fondo, con il tepore della sua temperatura. Di che fare dubitare gli stereotipi del Paese nordico che trema di freddo e vegeta sotto la neve.

M’avvicino al luogo dove l’immenso Shakespeare osò ambientare il suo capolavoro, quell’Amleto che, volenti o nolenti, è diventato l’eroe, l’antesignano, il simbolo dell’uomo che dubita, del pensiero che s’attorciglia su sé stesso alla ricerca d’una soluzione. Nella sua irriducibile solitudine, nella sua universale vicinanza agli uomini e alle donne di ogni tempo, ma ancor più, forse, alle folle smarrite d’oggidì.

Al castello di Kronborg probabilmente William il poeta non vi mise mai piede. Ma tale era la sua fama, già all’epoca, che gli piacque ambientare in questa terra, al limitar del Freddo Mare, la vicenda del re vikingo, Amleto appunto, secondo quanto racconta la Historia Danica di Saxo Grammaticus, omicidio e vendetta, sangue e sentimenti, per immortalare l’umana predisposizione alla complicazione delle cose e alla costruzione di castelli non di pietra ma di carta, di pensieri vani, di mortalissime considerazioni. Certo, il mistero da queste parti pare proprio a suo agio, s’avviluppa attorno alle torri del castello, si nasconde nei mille anfratti creati negli interstizi delle mura e nei circuiti delle stanze segrete. Così come si cela nelle diverse trincee riempite d’acqua che proteggono il maniero e che arrivano fino al mare in una mortale fusione che nei fatti non ha mai luogo. Persino i cigni paiono evitare di mostrarsi alteri della loro fredda bellezza, per nascondere il grazioso capo e l’affusolato collo nell’acqua scura, nera, dei fossati, accentuando in tal modo la misteriosa angoscia che alberga da queste parti.

Un pallido sole riesce tuttavia a forare la coltre di nubi per ridare un po’ di colore alla pietra umida del castello, e delle casematte che l’attorniano, luoghi che oggi albergano artisti e artigiani, ma che una volta ospitavano le milizie poste a difesa del maniero, luoghi di fedeltà ed eroismo, ma guarda caso anche di tradimenti e vigliaccherie. La storia, però, ha la sua parte, quella vera, non quella della finzione letteraria: costruito per volere di Erik di Pomerania all’inizio del XV secolo, fu rimaneggiato da Federico II e da Cristiano IV e usato dalla famiglia reale danese con un certo timore, sì proprio così. Prefericano il vicino Fredriksborg Slot, più solare e pacifico. Come a dire che il dubbio alberga tuttora in queste stanze, come prende dimora ovunque il potere e l’interesse configgente si fanno strada nel cuore degli uomini, così come il vento e il passo umano si fanno strada nelle strette torri delle scalinate del castello, trovando in ogi gradino di pietra un ostacolo o un nuov slancio. Perché il dubbio si nutre di sé stesso e del suo costante salir di tono, di cambiar passo per trovare nuove sfide. O per precipitare nel baratro oscuro d’una scala a chiocciola scura e tetra, priva d’ogni plausibile riferimento alla realtà.

martedì 15 novembre 2011

Copenhagen, la città dove non si corre


Un weekend nella capitale danese ripone fiducia nel valore catartico del tempo.

Sarà che siamo di sabato, ma la città di Copenhagen pare proprio prendersela comoda. Siamo nell’industrioso Nord europeo, ma qui – a parte le ciminiere che al di là dell’Inderhaven fumano un po’ sonnacchiose, la mattina fredda ma assolata pare ospitare solo qualche raro deambulante: una mamma in bicicletta che trasporta nel carrellino anteriore il suo bebè che se la spassa come un mondo; una coppia avanti negli anni che passeggia nel parco del Rosenborg Slot come se stesse misurando la lunghezza del percorso verso il paradiso (o l’inferno, o più probabilmente il limbo degli agnostici); un giovane gay col suo minuscolo bulldog che cerca invano un caffè aperto; i patiti dello jogging del sabato mattina che sfrecciano magrissimi e atletici sulle mura ricoperte d’erba del Kastellet; le guardie intabarrate di pelo che fanno la guardia all’Amaliensborg Slot. E così via, gente che ama il mattino, che ama la luce, che ama la chiarità del sole che fatica comunque a salire sull’orizzonte, restando come trattenuto al suolo da un invisibile filo di nylon. Questa è Copenhagen. Anche.

Nella capitale danese colpiscono gli slot, cioè i castelli, e i parchi, in questa stagione dipinti dei colori brillanti ma caduchi dell’autunno declinante. Castelli per modo di dire, perché sono palazzi più o meno originali – da favola il Rosenborg, il più antico, immerso nel verde di un ampio parco curatissimo –, che testimoniano ovviamente più il potere che l’arte; ma che ormai, vista la loro natura obsoleta, servono da libro di storia e di politica, più che da luogi ove si amministra la cosa pubblica. Piace osservarli al sole, ammirarne l’armonia e la purezza delle forme, anche l’ingenuità di talune soluzioni architettoniche. E i parchi, da non tralasciare, perché è lì che la luce si fa limpida e chiara, visto che nei lunghi mesi autunnali e invernali in tante e tante strade i raggi solari riescono solo a spennellare i piani alti, che per questo qui a Copenhagen sono i piani nobili. Paiono perciò dei luoghi paradisiaci, i grandi parchi della città, dove si respira purezza e spensieratezza, dove la ragione della luce supera quella della tenebra, dove giocare coi bambini non è un optional ma un vero momento di gioia, dove giocare a rimpiattino con le ombre lunghe degli alberi diventa una semplice ovvietà.

Ma la luce si trova anche sulla sommità dei campanili, delle torri, delle antenne. Stupenda è la Rundetaarn, che ha una sua lunga storia, sin da quando Cristiano IV ne iniziò la costruzione, nel 1642. Ci si avvita sette volte e mezzo (209 metri di lunghezza) per salire i 35 metri della torre rotonda, inerpicandosi per la lunga rampa in mattoni posati di taglio. Un unico gradino che permetteva anche ai cavalli di salire in cima, trascinando le carrozze dei nobili, fino all’impennata finale, un centinaio di gradini appena, lignei e inerpicati come su una vetta di montagna. Dall’alto, dalla terrazza circolare che racchiude un osservatorio ancora in funzione, la città di Copenhagen appare nella sua frammentazione di bei palazzi antichi e gradevoli moderni building di vetro,di torri rivestite alla sommità di rame verde e di ciminiere pulite e discrete. In basso la gente cammina lenta, un fiume sonnacchioso di formiche ordinate.

E poi, last but not least, c’è la luce dei canali, sempre divisi in due dalla linea di demarcazione fra la luce e l’ombra, belli e colorati come il Nyhavn, che brulica di gente di ogni età in attesa di un caffè, d’un traghetto, d’un amore. La luce nei canali gode dei riflessi che si stampano sulle retine dei viandanti così come sulle facciate delle case che s’affacciano sull’acqua. La luce dei canali, appunto, canalizza la potenza della vitale energia atmosferica nella mediazione con l’abitato, opera d’artista e d’artigiano per un bene comune estetico. Le barche ormeggiate in città paiono incongrue presenze finché l’ubriacatura della luce non porta all’ebbrezza dell’ombra, in cui il principio di realtà lascia il posto al principio di creazione, visto che solo nell’ombra e nella penombra si può immaginare qualcosa d’altro rispetto alla realtà. O una realtà meno cruda e più vivibile.

Copenhagen è vivibile. E bene. Come dimostra la Sirenetta, come suggerisce il Rådhus, come gridano i bambini al parco Tivoli.

giovedì 10 novembre 2011

Bangkok, l'infinito oro


Continuano le micidiali inondazioni nella capitale thailandese. Viaggio nella sua bellezza, del 2008.

16 miloni di abitanti la città ce li ha tutti, come dimostra con la sua sola evidenza l’espansione dell’abitato: solo da un decennio o poco più s’è deciso di costruire quei grattacieli che ormai costituiscono le cattedrali del XXI secolo, steli tutte simili e tutte diverse erette al dio-consumo. Anche Bangkok sta cedendo alla moda, o piuttosto alla necessità dell’urbanistica da boom. Eppure ha conservato il pudore e l’intelligenza di farlo con moderazione, senza danneggiare il cuore antico della città che s’estende attorno alle mura del Palazzo imperiale, il Ko Ratanakosin, impareggiabile gioiello dell’arte thai, orgoglio nazionale e vetrina di un intero popolo stretto attorno al suo amatissimo monarca, Rama IX.

Per apprezzare la grandezza e l’intelligenza di Bangkok e dei suoi abitanti, m’avvicino al centro storico con circospezione, a bordo del battello pubblico da tre bath (neanche dieci centesimi di euro), che percorre da Sud a Nord, dal ponte Chao Taksin, la grande ansa del fiume Chao Phraya, che racchiude come nel palmo di una mano i tesori più preziosi della tradizione thai. Così mi accorgo, senza traumi estetici particolari, che qui a Bangkok la foresta di steli esiste da secoli, prima che gli architetti di fine millennio inventassero gli skyscreaper. Se questi ultimi sono dettati dalla contrazione dello spazio, quelli erano invece frutto dell’esigenza di contrarre il tempo, non per grattare il cielo, ma per blandirlo con le umane, umanissime richieste della gente comune, del popolo di Bangkok e della regione.

Le acque del Chao Phraya sono sempre mosse, quasi agitate, e il battello ondeggia fortemente, nonostante la sua mole non sia da moscone. Nella visione nautica, anche le steli ondeggiano vistosamente e sembrano voler aritmicamente farsi presenti ai voleri divini, con insistenza. Gli stupa, o chedi, questo il primigenio nome degli antenati dei “gratta-cielo”, sono in realtà dei “blandisci-cielo”; stanno eretti con la sapienza delle antiche storie e con la giovinezza dell’eterna rinascita. Che brillino d’oro o rilucano di maioliche floreali, che siano più o meno elevati, più o meno affusolati, in ogni caso raccontano un intero popolo e invitano alla gioiosa tensione verso il cielo degli avi, del mistero, del Buddha eterno.

Ecco il tempio di marmo, il Wat Benchamabophit, situato ai bordi del centro della città: da qui parte la mia perlustrazione dei templi più importanti di Bangkok, perché questo è il solo tempio aperto inuna mattinata di festa buddhista. Una scelta obbligata ma in fondo assai propedeutica, per cominciare da un luogo non affollato, direi protetto, in cui poter iniziare ad apprezzare le forme architettoniche della tradizione thai con calma, senza distrazioni. E allora apprezzo l’inclinazione perfettamente calcolata dei tetti, il loro concatenarsi nel reciproco rispetto, le piccole tegole smaltate di rosso e di verde, qualcuna di bianco, le decorazioni dorate onnipresenti e quella specie di rostri votivi che paiono spade sguainate, braccia levate al cielo, strane creature mezze umane e mezze animali dal collo sconfinato proteso verso l’alto. Il tempio, illuminato come da un bacio divino, è immerso in un ampio parco assai curato, diviso in due da un rigagnolo superato da cinque o sei ponti di metallo rosso, con un effetto cromatico superlativo. Gli alberi secolari sono numerosi e vengono onorati e venerati, direi vezzeggiati, viste le corone di fiori, i piccoli Buddha di pochi centimetri d’altezza che la gente depone nelle sue cavità.

Seconda tappa, la cosiddetta “Montagna dorata”, cioè il Wat Saket. C’è già più gente, la folla dei fedeli si fa nutrita e vociante. Silenziosa. Si sale per una settantina di metri di altezza, per una scalinata circolare dai gradini lunghi e irregolari, fino a raggiungere una terrazza sulla quale s’erge un luminosissimo chedi dorato, che dicono racchiuda le ceneri del Buddha, oggetto della venerazione di buddhisti tradizionali ma anche dei seguaci di alcune sette poco ortodosse. Dall’alto la città di Bankok appare una distesa informe avvolta da una massa oleosa che provoca un certo disgusto. Ma tale pastoia informe qua e là lascia trasparire la punta di uno stupa, i tetti di un tempio, le belle armonie dell’architettura templare. E così anche la Bangkok più banalmente consumista acquista una sua dignità.

Con un risciò a motore mi reco quindi a What Pho, il tempio che sta appena a ridosso del palazzo imperiale, il più antico e il più prestigioso della capitale. Qui il cambiamento di scena è impressionante, con una profuzione di strumenti votivi impressionante, volti a onorare l’immenso Buddha sdraiato che giace pacifico e sereno, accettando tutte le preghiere e tutte le fotografie che decine di migliaia di persone ogni giorno gli tributano. E tutt’attrono una vera foresta di stupa, in massima parte maiolicati, ma talvolta dorati o candidi, a segnare un concerto di forme e di suoni, di pensieri e di propositi che solo la divinità può dirimere, giudicare, valutare se non altro. Una scuola di massaggi thai, la migliore in asoluto, è ospitata nel tempio, a testimonianza della bellezza d’ogni traccia di umano che lascia trasparire il divino.

Ancora non oso entrare nel Palazzo reale, meglio attraversare di nuovo i fiume, e immergermi nel Wat Arun, in quello che appare un tempio dimesso ma che, all’avvicinarsi, appare uno degli assoluti capolavori dell’architettura templare della regione indocinese. Non è curato come altri, tirato a lucido, ma ciò sembra conferirgli una forza, una generosità e un’umanità che tanti altri templi non paiono aver conservato. La cosmologia indù-buddhista qui trova il suo massimo splendore attorno alla torre centrale, il prang, coi suoi livelli e le sue regole, le sue cosmogonie. I rivestimenti qui non sono dorati, ma rilucono delle mille e mille tessere di maiolica che arricchiscono le superfici del tempio della materialità rilucente della città.

Wat Phra Kaeo, il Tempio del Buddha di smeraldo conservato nel bot, che doveva superare in bellezza e grandezza i complessi templari di Ayutthaya e di Sukhothai. Finalmente le sue porte si aprono al pubblico. E allora è l’apoteosi della bellezza e della giustezza delle proporzioni, della perfezione delle decorazioni musive e di quelle invece murali, della disposizione urbanistica dei diversi templi e della esatta collocazione per catturare ogni minimo raggio di luce che s’avventura al di sopra del Palazzo reale. Il tempio reale appare la quintessenza della religiosità thai, e nel contempo il modello irraggiungibile e irraggiunto della perfezione architettonica. Forse altri templi in passato, in Indocina, hanno trovato la loro canonizzazione, cioè il loro canone; ma nessuno come questo, ancor oggi nel 2007, risulta così perfettamente riuscito da attirare solo un bisogno di silenzio. Assoluto, protetto dai demoni all’entrata dei templi.

giovedì 3 novembre 2011

Cinqueterre, toccare il mare con un dito


Omaggio a una terra che soffre. Note scritte nell'agosto 2011.

Toccare il mare con un dito e tuffarsi nel cielo disegnando curve e controcurve. Uan sottile scriscia di mare, un’ampia distesa di cielo. Confini sfumati. Insenature come cura, pendii come promesse, vegetazione come manto di clorofilla. La brezza disegna sollievo come un dondolio di onde. Gli abitati pariono ciuffi di convivenza e convivialità. I carrugi prolungano i tinelli domestici. La fontanella accanto alla chiesetta dispensa acqua e spirito. Una coppia mi offre un bicchierino di ciacchetà, e sincerità amorevole. Scale interminabili come protezione e come liberazione. Santuari, lassù, sul rilievo, delle cose e delle anime. Tormenti appacificati di sudore. Il pesce: anche la tenerezza è saporita d’erbe mediterranee. Cinque terre, cinque dita, cinque sensi. Da lì a là, non di più. La qualità è limitata.