domenica 31 luglio 2011

La cancha, il mercato più vasto di Bolivia


Bolivia/5 - Non c’è granché d’interessante a Cochabamba, salvo che tutto qui appare gradevole.

Non si è ancora sull’altipiano dei 4 mila metri di Potosì e La Paz, ma non si è nemmeno nella piana sub amazzonica di Santa Cruz. Il clima è più che gradevole, fa fresco di sera, ma di giorno si sta benone, anche in pieno inverno. La gente è mista, nel senso che è multietnica: ci sono i quechua del Sud e gli aymara del Nord, i guarani dell’Ovest, ci sono i bianchi e ci sono gli indios, ci sono stranieri e ci sono apolidi. Il centro è abbastanza ordinato, il traffico scorre tutto sommato assai regolare, le bancarelle non invadono tutto, i mercati sono simpatici e colorati, le donne, vere colonne delle famiglie boliviane dove nei fatti vive un rigoroso matriarcato, vendono qualsiasi cosa per la strada, debbono far mangiare i loro piccoli. Le nonne aymara, con le loro gonnelline al ginocchio, i polpacci sottili e i bacini ampi, ancheggiano buffamente nella strada, portando il loro cappellino a bombetta sulla testa dai capelli neri, senza un filo di bianco. La piazza principale, Plaza des armas, alberata e vivace, testimonia un’integrazione in fondo ben riuscita, mentre la gente discute, gioca a scacchi, si gode la frescura, sorbisce qualche suco. La Cattedrale metropolitana sta colonialmente semplice, quasi banale, ma la gente la ama nella sua essenzialità, senza troppi sfarzi. Sulla piazza dà anche la chiesa dei gesuiti, mentre appena a ridosso dello slargo stanno le chiese domenicana, salesiana e francescana, a testimonianza della “spartizione” ecclesiale tra i massimi ordini religiosi presenti nel Paese. La Chiesa è comunque presentissima, con più di 150 istituzioni, impegnate sia nel sociale che nell’evangelizzazione. Una corona di montagne protegge la città, qua e là spruzzate di neve, ma sempre dolci nel loro ergersi. Solo il Cristo redentore della collina … sembra voler imporre la sua presenza.

Ma Cochabamba va famosa anche per il suo mercato, che è proprio vasto. Si estende per nove quadra a nord della stazione degli autobus: qui partono e arrivano mezzi in più o meno buono stato che vanno anche in decine di ore in tutta la Bolivia, per pochi euro, e sono i mezzi di trasporto preferiti dai boliviani. È pomeriggio, e la luce è veramente forte, insolita, radente, chiara, troppo luminosa, troppo bianca, troppo sfacciata. Mi fanno male gli occhi. Poco male, meglio non esagerare, basta che mi guardi attorno per vedere la povertà, anzi la miseria di tanta gente che tutto mi passa e mi dico che non ha nessun senso lamentarsi.

Il mercato è immenso, e come in tutto il mondo, dove ancora il capitalismo non è arrivato con le sue schiere di liberi mercati, le botteghe si raggruppano secondo la merceologia: i calzolai, i commercianti di vestiti, quelli di frutta, quelli di carne, quelli di pesce, ma secondo un ordine che mi sfugge totalmente, perché accanto ai pescivendoli scopro i carpentieri e accanto ai verdurai si trova chi smercia… refurtiva! L’angolo più interessante dell’intero mercato è quello che riunisce i commercianti di strumenti votivi indigeni, aymara e quechua in particolare. Vi si trovano sorte di altarini monouso con appropriate offerte, minuscole casette e modellini di coppie separate, pesci e frutta e ogni altra sorta di reminescenze e ricordanze. Alzo lo sguardo, e mi ritrovo di fronte ala macabra scena di una sorta di conigli mummificati: mi dicono che si tratta di piccoli lama essiccati, che vengono usati come sacrificio animale nelle varie cerimonie delle religioni tradizionali. Ma il mistero che trapela da queste forme apparentemente superstiziose e retrive di religiosità m’interrogano, non posso giudicare in fretta.

In tutti i casi c’è grande dignità nei commercianti, che per l’80 per cento sono donne, tutte o quasi col loro cappellino, tutte colorate, tutte decise anche se riservate. E, incredibile dictu, c’è un certo silenzio, nessuno grida, nessuno cerca di attirare l’attenzione degli avventori possibili, se non sottovoce! Dignità.

mercoledì 27 luglio 2011

El Fuerte, che non era un forte


Viaggio in Bolivia/4 La nuova dizione di "Repubblica democratica di Bolivia" è "Stato plurinazionale di Bolivia". Un modo per dire che le civiltà in queste terre si sono succedute e accavallate nei secoli.

È un luogo che ha del fantastico. L’Unesco se n’è accorta e ha protetto il sito, inserendolo nella lista “patrimonio dell’umanità”. El Fuerte di Samaipata è issato a duemila metri di altezza, con una deviazione di otto chilometri per una strada fangosa sulla vecchia via tra Santa Cruz e Cochabamba. El Fuerte non è un forte, ma un’immensa pietra scolpita, in epoche antichissime: il sito fu abitato sin dal 2000 aC da varie civiltà, ultima delle quali fu quella inca, prima che arrivassero gli spagnoli.

Il vento soffia impetuoso, e sembra che voglia sradicare i pochi alberi che ancora resistono su questa collina un po’ isolata in mezzo alle altre montagne. Bisogna piegarsi per riuscire a salire il sentiero, peraltro ben tracciato, che in un quarto d’ora porta a una serie di belvedere di legno approntati per evitare che la gente rovinasse quel capolavoro dell’arte culturale e governativa delle tante popolazioni e dei tanti regimi che si sono susseguiti su questa pietra. Mi fermo ad osservare dall’altro le iscrizioni incise sulla pietra, insolite, difficilmente comprensibili, salvo nelle sue rappresentazioni di forme animali e nei più o meno identificabili luoghi di sacrificio e di preghiera. Studio anche l’orientamento, sempre stupefacente tra queste popolazioni andine, che avevano un vero culto per la Natura e per le sue forze, ma forti di una straordinaria religiosità: varie figure hanno scatenato le ipotesi degli archeologi sulla effettiva destinazione e sul significato di questi intagli nella pietra.

Attorno alla “pietra” gli archeologi hanno individuato in questi ultimi anni niente meno che 500 abitazioni, locali, uffici e templi, a testimonianza di un centro culturale, militare e amministrativo di non poco conto. Restano i muri sopra i quali con tutta probabilità si erigevano le costruzioni in legno dai tetti di paglia. Testimonianze straordinarie di una serie di civiltà che si sono sovrapposte ma non elise reciprocamente. I discendenti delle civiltà quechua, inca, aymara e dei conquistadores sono ormai “interculturali” in questa Bolivia così bella e sorprendente.

domenica 24 luglio 2011

Dove il Che se n'è andato


Viaggio in Bolivia/3 Passando a Vallegrande, dove il corpo di Che Guevara fu portato e fotografato dopo la fine della sua avventura rivoluzionaria. Un luogo di pellegrinaggio laico, di un uomo di cui va conservata la sete idealista


Piove come Dio comanda, una cosa molto strana in questa stagione. La gente del posto è stupita, e si protegge come può dalle intemperie. Appena arrivati - con Juan che mi ha guidato sin qui assieme a sua madre Reina, una rivoluzionaria a modo suo, che ha messo su con suo marito uno straordinario asilo a La Guardia, vicino a Santa Cruz - ci troviamo a mangiare in un ristorantino che è poco più di un garage, dove servono un pollo abbastanza buono, ma accompagnato da spaghetti veramente infidi. Accanto a noi siedono due uomini e due donne scurissimi di carnagione e per di più vestiti totalmente di nero, anche i cappelli che non tolgono mangiando. Mi spiegano che sono in lutto. Mangiano con dignità, un pasto da un euro a testa, guardando di sottecchi lo straniero che io sono.

Poi ci rechiamo al luogo che nei fatti è diventato un santuario laico al più rivoluzionari dei rivoluzionari del XX secolo, Che Guevara, che qui fu portato da La Higueira, dove era stato catturato e ucciso dai soldati boliviani, in combutta con qualche servizio segreto. Dietro l’ospedale, attualmente funzionante, la lavanderia dell’epoca è quella dove è stato lavato il corpo del Che, e dove sono state scattate da un fotografo locale delle istantanee divenute celebri, coi soldati in posa dietro il cadavere. La casupola e il lavatoio sono ormai ricoperte di scritte rivoluzionarie e graffiti metropolitani dei turisti in mal di rivoluzione. Commovente, a modo suo. Al di là di un prato d’un centinaio di metri, la morgue, l’obitorio dove poi il corpo del Che, lavato adeguatamente, era stato trasportato. Una scritta di Bertold Brecht completa lo scenario.

I sentimenti, lo debbo dire, sono stati all’inizio di curiosità. Poi, man mano che mi avvicinavo al luogo, ho avvertito come il rispetto crescesse, semplicemente perché da mille segni ho capito come il luogo sia meta di un vero e proprio pellegrinaggio, non tanto e non solo di turisti curiosi come me, ma anche e soprattutto rivoluzionari mancati, rinnegati, nostalgici, idealisti, teorici e poco pratici, pratici e poco razionali… Rivoluzionari di tutto il mondo unitevi? Forse. Ma soprattutto uomini e donne che in qualche modo nel proprio cuore hanno ancora un briciolo di speranza che il mondo possa cambiare in meglio, e che la giustizia trionfi. Certo, la violenza non è mai ammissibile, se non in casi estremi. Ma qui capisco che la più grande rivoluzione è la capacità di convertirsi. Ogni giorno.

giovedì 21 luglio 2011

Oro, foresta e gomme bucate


Viaggio in Bolivia/2 Seconda parte del reportage dalle Misiones jesuiticas nella Chiquitania.

Sant’Ana de Velasco Ripartiamo la mattina dopo una lauta colazione. Cavalli galoppano liberi come il vento, i telefoni quasi sempre non hanno connessione, le indicazioni chilometriche sono assolutamente inaffidabili e le cartine sembrano raccontare un altro Paese. Panorami sempre uguali e sempre diversi. D’improvviso un abitato, capanne di fango e casette di muratura, tutto molto lindo, anche certe abitazioni povere hanno il portico sorretto da colonnine lignee tornite. La piazza, Sant’Ana. La prima impressione è quella di un luogo da bambole, ma nella foresta, una rustica copia della chiesa di San Javier, più gialla, più piccola, col tetto più spiovente. Entro nella navata, una classe di giovani sta preparandosi alla cresima, sotto l’inflessibile direzione di un giovane seminarista che sa quello che vuole. Chiede e ottiene risposta, intona e viene seguito nel canto, cita Vangelo e poeti e santi, una lezione evidentemente imparata a memoria. «Non sono ancora in seminario – mi dice –, ma entrerò l’anno prossimo. Voglio andare a studiare a Roma. Qui la gente non è molto impegnata, bisognerebbe che facesse di più. Bisogna istruirla». Ha ereditato qualcosa del rigore gesuita. Visito la Chiesa: è parte della missione fondata nel 1755, ancora con il pavimento in terra battuta e il tetto di fronde di palme, è la più “autentica” di tutte quelle rimaste. Poco importa che la chiesa attuale sia posteriore alla partenza dei gesuiti. Lo spirito è quello. Dietro l’altare s’apre la sacristia, da sempre mi attirano i retrobottega. Ci sono vecchie statue, crocifissi, un magnifico tabernacolo di legno, tutto di legno. Un Cristo su sedia gestatoria mi osserva con uno sguardo un po’ stupito, fisso, attento alla sua missione. Poi vengo attirato dal clamore di un gruppo di bambini: appena fuori dalla sacristia, nel cortile della missione, sotto un immensa quercia una trentina di giovanissimi stanno preparandosi alla comunione, con una catechista meno decisa del seminarista, più dolce, più fraterna. «Mi piace fare la catechista – mi spiega –, perché così riesco a trasmettere quell’amore di Dio che ho sentito quando ho fatto la prima comunione». Abiti qui? «Sì, due quadra più avanti, con sette fratelli e mio padre, mia madre è morta». Dove studi? «Ho studiato a San José. Dalla settimana prossima mi trasferisco a Santa Cruz. Spero di potere tornare qui, perché non mi piace il rumore». La sua pelle scura dice un’origine india. La sua dolcezza dice che viene dalla natura amata. Rientro, l’organo suona qualche nota. Salgo i gradini cigolanti verso il ballatoio, la tribuna sopra la chiesa. Un uomo grosso e tarchiato accarezza lo strumento, restaurato di recente grazie al contributo dell’Unione europea. Un giovane organista francese ci raggiunge e suona Bach in piena foresta. Incantevole. Anche i cresimandi si voltano per vedere chi emetta tali note paradisiache. Fuori la piazza alberata ma non pavimentata come le altre conferisce all’ambiente una nota rustica e incompleta che sfiora la perfezione. Jorge mi dice che tra i suoi apprendisti, ne ha due che vengono da questo villaggio: sono i più disciplinati e i più impegnati nel lavoro. Non protestano mai.

San Rafael de Velasco Arriviamo dopo una ventina di chilometri complicati dallo stato pietoso della strada al borgo di San Rafael. È appena iniziata la messa domenicale. I banchi sono quasi tutti pieni, c’è attenzione appena distolta dalla nostra presenza: veramente gli stranieri da queste parti sono pochissimi. L’interno della chiesa mi appare subito incantevole: chiesa costruita tra il 1743 e il 1747, la prima ad essere costruita in Bolivia. Dettagli lignei e pittorici sono rimasti quelli originali, e si vede, anche se tutto è ripulito e restaurato di fresco, con una certa attenzione si direbbe. Salgo sulla tribuna che è solitamente presente nelle chiese gesuitiche della Chiquitania, dove è appostata una delle due orchestrine che offrono le musiche per la messa: se accanto all’altare ci sono i giovani, con tanto di chitarre e strumenti elettronici, nella tribuna cinque musici anziani suonano tamburo, violini, flauto e campanelle. Sono assai stonati e precari nella loro coesione di gruppo, ma mi appaiono una testimonianza della grandezza dell’opera culturale svolta da queste parti dai religiosi. Esco non dopo aver guardato attentamente degli affreschi, sulla parete centrale, che rappresentano deliziose rappresentazioni musicali, appunto, sotto lo sguardo fisso di un papa su sedia gestatoria di difficile individuazione, e lo sguardo invece dolcissimo di un Gesù bambino felice.

San Miguel de Velasco Nel circuito delle missioni gesuitiche della Chiquitania c’è una chiesa che richiede uno sforzo particolare per essere visitata, è quella di San Miguel de Velasco, che necessita di una deviazione di 35 chilometri (e 35 al ritorno). Ma dicono sia la più bella, artisticamente parlando, dell’intero circuito, e allora ci si sacrifica su una strada tra l’altro in pessimo stato. Nell’ampia piazza alberata – tutti sono spalmati di calce bianca alla base – s’affaccia quindi la chiesa della missione, un po’ rialzata rispetto alle altre, sospesa su una ventina di gradini che consentono anche di appianare il dislivello della piazza: il fronte della missione a nord è a livello della strada. Appare subito straordinaria, con le due figure di Pietro e Paolo – chissà perché – che spiccano per la loro purezza di tratto sulla facciata completamente ricoperta di affreschi di evidente stile indigeno, più che barocco. Appare da subito la meglio restaurata della regione. Costruita nel 1721 presenta stravaganze originali, come il pulpito dorato elaboratissimo e il campanile inserito nelle mura di cinta della missione, le cui sette campane sono ancora in uso. L’oro e il legno e la pietra: la luce, la docilità la sicurezza. Le tre qualità degli indios di questa Chiquitania, almeno mi sembra. La guida ci porta quindi in una scuola di scultura su legno, che occupa un isolato accanto alla Chiesa. È bella, Stanno scolpendo pannelli per una chiesa di tre metri su due, a soggetto evangelico, che costano mille euro l’uno. In Europa costerebbero venti volte tanto. Poi ci fanno passare nello shop… All’uscita la sorpresa: una gomma è bucata. Martin e Jorge la sostituiscono prontamente, dinanzi al ristorantino nel quale ci siamo rifugiati, ma bisogna passare dal gommista. Un’avventura, questa del gommista, con mezzi rudimentali, gomme mille volte riciclate, sotto la supervisione di tutti quelli che passano nei paraggi (scelte condivise!) e alla fine la scelta di una gomma che non è uguale ma solo simile a quelle che usa la nostra Nissan. Si riparte con tre ore di ritardo. Raggiungiamo San Rafael ma dieci chilometri più avanti di nuovo, passando un ponticello di ferro e legno, ci ritroviamo con un’altra gomma a terra. Che fare? Ci sono 100 chilometri di pista prima di San José… Si cambia la gomma e si avanza ad andatura molto ridotta, per evitare una foratura che ci costringerebbe in una situazione poco invidiabile, in piena foresta, con l’inesistenza di organizzazioni di soccorso o di semplici carri attrezzi. Jorge è estremamente guardingo. Arrivati ci dirà che la sua preoccupazione non era quella di rimanere a piedi nella foresta di notte, ma di poter finire in mano a qualche gruppo di disperati che nella zona hanno assaltato di notte alcune auto di passaggio. Oufff…

San José de Chiquitos Ed è così che arriviamo a San José alle otto di sera. Una cittadina modesta, polverosissima, nella quale decidiamo di arrestarci per la notte. Troviamo un alberghetto da quattro soldi, All’Hotel Victoria le stanze sono tutte disposte al piano terra, attorno ad un cortile che funge da sala d’accoglienza, da ristorante, da ufficio e da garage. Nei bambi ci sono… delle rane, e le porte-finestre danno su questo cortile rumorosissimo. Non c’è acqua calda. Ma siamo al riparo. La polvere s’è infiltrata dappertutto, le schedine di memoria della Nikon sono piene, così come i nostri occhi e i nostri cuori. San José des Chiquitos è l’ultima delle sette chiese del circuito delle missioni gesuitiche. Ma non è come le altre: i gesuiti qui misero piede nel 1740, e dieci anni dopo costruirono la chiesa. La missione conta quattro edifici disposti lungo il muro di cinta occidentale della missione: una prospettiva incantevole. L’interno è più simile alle altre chiese gesuitiche della Chiquitania, con profusione d’oro e decorazioni. Non è della stesse forme, delle stesse elaborazioni grafiche, e nemmeno dello stesso spirito. Ma è bella, bellissima nella notte che s’annuncia con la messa partecipata, con le porte aperte sulla piazza. Una Madonna all’ingresso della chiesa è stata addobbata, così come il Gesù Bambino che porta in braccio, da poliziotta, con tanto di cappello. Maria si lascia fare. L’indomani, ottimo caffè mattutino dinanzi alla missione gesuitica, a tratti illuminata da isolati raggi di sole che bucano la coperta di nubi. L’eleganza della costruzione è indubbia, anche se l’originalità rispetto alle altre chiese visitate è indubbiamente minore. Qui si coglie maggiormente quel che dovette apparire agli indios la discesa dei gesuiti nella regione, qualcosa come sarebbe l’apparizione di extraterrestri nella nostra Europa. Extraterrestri, sì proprio così: per gli indios la loro terra era la Terra intera, il mondo, i cui confini arano avvolti nel mistero del pantheon della loro religione ancestrale. L’architettura certamente aveva un ruolo di primo piano nell’evangelizzazione pianificata degli indigeni, che abitavano capanne di paglia e fango e vestivano (raramente) piume e tessuti vegetali. La funzione stupefacente – nel senso di rendere stupiti – dell’evangelizzazione era affidata in primis all’architettura, in secundis alla ritualità. Questa missione di San José è certamente servita all’uopo: ancor oggi gli alunni del collegio della missione che vanno a scuola alle sette del mattino nei loro vestitini tutti bianchi (è il primo giorno di scuola dopo le vacanze invernali) paiono colpiti da uno stupore simile di quello degli antenati, fatte le debite proporzioni.

martedì 19 luglio 2011

Le missioni gesuite del XVIII secolo


Viaggio in Bolivia 1/Le missioni gesuite del XVIII secolo in Chiquitania


Partenza all’alba, anzi prima Si parte alle cinque di mattina, per visitare le missioni gesuite della Chiquitania, una regione così chiamata perché i colonizzatori spagnoli erano rimasti stupiti dalla bassa statura delle popolazioni locali, che usavano tra l’altro costruire le loro case con porte minuscole. L’uscita da Santa Cruz, nonostante l’ora, è lenta ed esasperante, la città è molto vasta. È un’esperienza esaltante, come sempre, assistere al lento miracolo dell’aurora che muta in alba e poi in giorno pieno. La natura piatta e diradata della regione prende rilievo dalla luce centellinata eppure inesorabile. Si evidenziano gli alberi a forma di ombrello frondoso, i campi di soia e di girasoli si spennellano di chiarità, qua e là svettano i silos metallici. Attraversiamo il Ro Grande, lungo un ponte che ci permette di ammirare il blu del cielo che degrada in rosso e in giallo. Suggestivo. Poi la strada si fa dritta e monotona, come una fettuccia. Sale la temperatura e il vento scompare. Il paesaggio si muove dopo un centinaio di chilometri. La vegetazione pare rimpicciolirsi, schiacciarsi al suolo, la strada è tutta un saliscendi mentre il manto stradale diventa irregolare, talvolta fino a scomparire. Il cielo si riveste di un velo gibboso, a onde, suggestivo e esteticamente gradevole. È pieno inverno, in Chiquitania, e quindi la verzura s’imbrunisce. Da San Ramon a San Javier ci sono 42 chilometri.

San Javier, la sorpresa Chi è abituato al barocco non troverà nulla di straordinario in questa località, salvo che siamo in un buco del buco del mondo (non siamo alle altezze di Potosì e La Paz!). Salvo che qui nel XVIII secolo (erano arrivati nel 1609 nel vicino Paraguay, da dove si erano spostati nei dintorni) si era secoli addietro rispetto a tanta parte del mondo. Salvo che qui i gesuiti costituirono all’epoca una sorta di Stato autocratico, indipendente e teocratico, una forma di governo effettivamente unica: partecipazione e autorità, socialismo ma istituendo un potere forte. Tra l’altro, con un esercito ben attrezzato e organizzato, che da queste parti non aveva eguali. Gli spagnoli, che dapprincipio avevano promosso e favorito l’insediamento in America Latina dei gesuiti, li cacciarono poi, nel 1767, perché facevano ombra al loro impero coloniale e favorivano la promozione umana degli indios, cosa non certo gradita. La forma di governo esistente così sparì in fretta, più in fretta di quanto non fosse cresciuta: basta architetture straordinarie, basta musica barocca suonata dagli indios, basta governo guidato da tre gesuiti e da otto nativi eletti, basta dizionari spagnolo-chiquitano… San Javier era stato il primo insediamento della regione: fondato nel 1691, ben presto si sviluppò rapidamente finché nel 1730 giunse un prete gesuita svizzero, Martin Schmid, che vi installò una scuola di musica, un laboratorio di liuteria, altre attività artigianali. Soprattutto, progettò e realizzò la chiesa, costruita tra il 1749 e il 1752. Oggi questa chiesa, con le altre sei del circuito, è patrimonio universale Unesco.

Visitando il borgo di San Javier, e soprattutto la chiesa, è bene cancellare dalla propria memoria la storiografica europea, le nozioni di arte apprese da noi, cercando di cogliere l’originalità del luogo e delle sue forme, il tetto spiovente (forse qualcosa di svizzero?), le colonne lignee tornite, gli affreschi che tradiscono forme e colori indigeni assolutamente sconosciuti in Europa, e persino nel colonial. La regolarità delle forme architettoniche pare estranea alla cultura locale, ma nel contempo sembra che essa abbia in essa trovato un’accettazione da parte degli indios, che volevano la certezza di una qualche forma di governo. Di arte, comunque ce n’è, e tanta, a San Javier: un Cristo che trasporta la croce, una serie di affreschi a soggetto musicale, un chiostro incantevole… È oggetto di turismo, ormai, seppur rado, e il villaggio intero sembra vivere di esso e dei suoi proventi. Ma non ci sono turisti, o quasi, e quindi oggi a San Javier si sta benone. Si prova ad immaginare la vita al tempo dei gesuiti, la semplicità e in qualche modo la religiosità della gente. Quanto consenziente e quanto obbligata? Teoricamente chiunque poteva rifiutare il “regime” gesuita, ma nei fatti ciò sembrava poco credibile. E allora si medita sull’evangelizzazione e sul potere, sulla pericolosa attrazione tra temporale e spirituale, sulla clerico-centralismo di tanti tentativi d’innovazione sociale (ancor oggi molto evidenti in tanta parte del mondo).

Concepción, il villaggio largo Arriviamo poi a Conception con un’ora circa di auto, una strada gradevole. La terra s’è fatta rossa. In attesa della benzina, c’è la coda, a piedi ci avviamo verso la missione, ci dicono sia a una decina di quadra, d’isolati. Incrociamo la gente e la salutiamo, ricambiati affettuosamente. Entriamo nei negozietti, e i commercianti ci accolgono con calore. Una porta pare fatta a moduli: in basso, attraverso la finestrella degli animali, s’affaccia una bimbetta, mentre la sorellina fa altrettanto in una seconda apertura pi in alto. Le case per larghi tratti sull’affaccio stradale si ornano di portici. Una quadra è la piazza antistante la chiesa, imponente e gentile, assai simile nella forma a quella di San José ma in realtà assai diversa: la “cattedrale” è stata costruita nel 1709, ha una facciata affrescata sorretta da 121 colonne lignee scolpite a mano. Attorno alla chiesa si allunga l’imponente edificio della missione gesuita. Certamente era un gran potere che qui si manifestava agli indigeni. È mezzogiorno, e la missione è chiusa. Ci rifugiamo in un gradevolissimo ristorante, nel cui cortile un pappagallo fa le sue evoluzioni e le sue rimostranze vocali.

La pista in terra rossa. 155 o 164? Non si riesce bene a capirlo, e si comincia così a diffidare dalle indicazioni chilometriche nei rari pannelli indicativi della regione: sarà una costante del tour gesuita. Fatto sta che dura quasi quattro ore l’itinerario sulla pista di terra rossa (una striscia di vegetazione d’un centinaio di metri di larghezza è letteralmente ricoperta di polvere vermiglia) che collega Concepción con San Ignacio de Velasco, dove riposeremo la notte. Polvere che s’infiltra ovunque, alberi fioriti di giallo blu viola rosso, stagni ad ogni avvallamento, fauna ricchissima, soprattutto nelle diverse varietà di uccelli che individuiamo, tucani, pappagalli e aironi inclusi. I rari villaggi sono costituiti da capanne di fango e paglia, coi muri costruiti secondo quell’ordito tradizionale di canne e fango con cui la sapienza popolare ha saputo inventare abitazioni fresche d’estate e calde d’inverno. La povertà regna sovrana, si vive di niente. Diamo un passaggio nel bagagliaio del nostro pick up a una famiglia di una decina di membri, che non godono di alcun reddito. Solo un po’ di caccia e d’agricoltura, e i frutti della natura rigogliosa di queste parti.

A Santa Rosa de la roca, più o meno a metà strada, l’unico paese degno di questo nome lungo l’itinerario, ci fermiamo a comprare qualche bibita. Giochiamo a bigliardino con alcuni ragazzi, mentre una banda tradizionale di anziani (un paio di tamburi, una sorta di piffero, un tipo di armonica e un violino!) si reca suonando motivi tradizionali in una casa colpita da un lutto. I bimbi non sanno dove sia l’Italia, e nemmeno l’Europa. Sanno appena che cinquanta chilometri più in là c’è un posto chiamato Brasile. Sono analfabeti.

Poco oltre, in un villaggetto chiamato Villa Nucera, o qualcosa del genere, gli abitanti sembrano essersi trasferiti on the beach, ai bordi dello stagno che segue il grumo di capanne. Si bagnano come natura li creò. Penso ai gesuiti che nel XVIII secolo s’imbatterono in popolazioni ancora più naturalmente semplici che evangelizzarono, come si dice. Erano incivili? Sono incivili? I religiosi hanno portato la civiltà? Capisco come pochissimi boliviani si rechino a far turismo da queste parti, quasi come se le missioni gesuite siano un corpo estraneo alla loro cultura.

Sant'Ignacio de Velasco È collassata nel 1949, la chiesa di sant’Ignacio de Velasco, fu ricostruita in modo orripilante, tanto che nel 1974 fu abbattuta e ricostruita, recuperando buona parte degli elementi originari, di quella chiesa del 1748, che era la più grande ed importante della regione. Dall’esterno si capisce immediatamente come sia posticcia, dalla inguardabile torre campanaria costruita dalla follia architettonica al servizio di una male intesa evangelizzazione, residuo della chiesa degli anni Cinquanta. Scommetto dieci dollari che c’è qualche trucco francescano! Eppure la facciata della chiesa è affascinante, e mostra un restauro ben fatto. Qui a San Ignacio ha sede una nota orchestra da camera e sinfonica (purtroppo il festival di musica barocca è la prossima!): il fatto è che i bambini di queste parti hanno un’incredibile capacità di ascoltare la musica e di impararla a memoria. Hanno le dita adatte agli strumenti a corda, tecnicamente apprendono rapidamente a suonare e riescono a seguire il direttore con facilità.

Alloggiamo in un bed&breakfast chiamato “Casa Suiza”, proprietà di una donna svizzera che, col marito tedesco, si è trasferito da queste parti circa quarant’anni fa, perché aveva adottato un bimbo boliviano di due mesi, che hanno voluto far crescere nella loro terra. Anche quest’incontro inusuale racconta del fascino di queste terre, tra l’altro in parte popolate anche in questi ultimi anni da larghe colonie di mennoniti del Nord Europa. Il villaggio è quadrettato da strade in terra rossa. Vi si trovano piccoli locali che vendono poche mercanzie, mentre tanti grigliano la carne sull’uscio di casa e la vendono ai passanti. I cani, che da queste parti non attaccano mai l’uomo, occupano stabilmente gli incroci delle strade. La bellezza del tramonto s’infrange sulla precarietà dell’abitato.

Ceniamo con una bistecca immangiabile, ma «più che il dolor poté il digiuno». Poi ci rechiamo alla messa, preceduta dal rosario, senza grande partecipazione va detto. Alcune donne poggiano sulla balaustra dell’altare delle statutette della Madonna da benedire. Poi, al termine della messa, tutti a fare il giro della piazza, con tanto di ceri e abiti da chierichetti, portando la statua della Madonna del Carmelo, di cui oggi è la festa. Tutti, dai bambini, agli adolescenti, alle vecchiette. Tutti, bianchi e meticci, indios ed europei. All’interno della chiesa le meraviglie d’arte, più che a San Javier e a Concepción, si susseguono. Sono sopravvissuti, ad esempio, le colonne tornite, un Cristo del 1789, un Sant’Ignazio della stessa epoca.

mercoledì 6 luglio 2011

Calzada de Almadon, le isole che erano basi militari


All'imboccatura del Canale di Panama, un piccolo arcipelago è diventato penisola. Da avamposto militare, è diventato luogo di riposo.

Gli statunitensi sapevano il fatto loro, imperialmente parlando. Ovunque dove arrivavano sapevano scegliere per le loro basi luoghi paradisiaci, e non solo strategicamente importanti. Anche i francesi, gli inglesi, i tedeschi e persino gli italiani avevano saputo fare altrettanto, ma certamente il primato apparteneva agli statunitensi. Così è stato delle quattro isolette che controllano l’entrata nel Pacifico del Canale di Panama, isole dai nomi esotici: Naos, Culebra, Perico e Flamenco. Erano basi militari Usa, ma nel 1999 sono passate – assieme a tutto il canale – sotto controllo panamense. Ragione per cui stanno diventando un paradiso turistico, al termine di quella Calzada de Almador – una lunga e sottile striscia di terra, un istmo artificiale – che permette passeggiate incantevoli in cui si può ammirare non solo e non tanto il canale e le imponenti navi che vi transitano, quanto l’incanto del matrimonio a tre, tra cielo, terra e mare che qui a Panama ha trovato un luogo d’eccezione per essere celebrato.

Lo confesso, ho avuto il torto di percorrere la calzada al tramonto, dirigendomi verso un buon ristorante di pesce situato sull’ultima isoletta, la Isla Flamenco, quando la brezza marina finalmente ha ragione della terribile calma del giorno, 37 gradi centigradi e una umidità che riempie la bocca d’acqua. Ho torto, perché cresce la nostalgia per l’isola che non c’è, perché s’acquartiera nel cuore il sentimento di infinito che viene dalla comunione con la natura, quando questa s’inventa scenari paradisiaci. Così è di questa sera ineffabile – e mi dicono che sostanzialmente sono sempre così.

Le frittelle di gamberetti e il dentice alle erbe esotiche sono un degno corollario, un buon contorno alla meraviglia del luogo, ma non sono il piatto principale. Sono solo contorni, per il vero fulcro di questa serata: la comunione col perfetto equilibrio tra terra, acqua e cielo. Il sole calla definitivamente lasciando spazio al suono del vento che porta i rumori della foresta, da occidente. Quando la brezza spira da oriente, invece, porta invece il brusio della città vecchia. La mescolanza di queste due tavolozze di suoni pare la definitiva serenità.