giovedì 27 giugno 2013

San Leo, il castello, il borgo, i secoli



Nell'estremo nord del Montefeltro, una rocca sembra sfidare le leggi dell'equilibrio e della banalità.

Il borgo e il castello di San Leo segnano in qualche modo la fine del Montefeltro, quello straordinario territorio che si estende da Urbino fino ad una linea immaginaria che lega proprio San Leo a San Marino. La silhouette del castello è visibile da lontano, da una dozzina di chilometri, per cui il percorso di avvicinamento è una progressiva scoperta di uno sperone roccioso sulla quale l'uomo ha voluto edificare una delle meraviglie maggiori della regione. Ma non c'è solo il castello, avvicinandosi al sito si scorge anche la presenza del borgo di San Leo, un grumo di paese arrampicato sulle pendici dello sperone roccioso in un ripiano naturale che accoglie le sue meraviglie, e in particolare due chiese romaniche dell’XI e XII secolo che appaiono straordinarie nella loro armoniosa compenetrazione. Accanto a questi due luoghi di culto, la Concattedrale (del XII secolo, ma con tracce che rissalgono al VII secolo) e la Pieve di Santa Maria Assunta (dell’XI secolo, con tracce dell’VIII secolo), si erge una torre quadrangolare massiccia, evidentemente medievale, che viene curata amorosamente dalla popolazione perché è diventata un po' il simbolo del villaggio stesso assieme al forte che sovrasta l'abitato. Entro nella pieve, l'oscurità mi avvolge. Gli archi, la cripta, l'abside, i pilastri, i capitelli: tutto appare armonioso e misterioso. In effetti ci si sente avvolgere dal mistero divino, ma anche da quello umano. Sì, perché in questi rari luoghi si può immaginare il rapporto che esiste tra Dio e l'uomo, un rapporto sempre vissuto nell'oscurità della propria interiorità. E nello stesso tempo, uscendo dalla basilica, abbacinati dalla luce del sole, si capisce come il rapporto tra Dio e l'uomo non si consumi solo nel mistero ma anche nella luce, nella trasparenza, nella chiarezza dei rapporti e delle cose. Anche la Concattedrale riserva lo stesso trattamento al visitatore, anche se la luminosità interna è maggiore, e quindi il contrasto tra dentro e fuori è minore.
Visitato il centro storico di San Leo-che ha una storia importante: romani, bizantini, goti, franche e longobardi lasciarono qui le loro tracce. Nell’XI secolo i conti di Montecopiolo giunsero nel Montefeltro mentre nel Trecento i Malatesti riuscirono a espugnare la rocca. Nel 1441 il giovanissimo Federico da Montefeltro fu autore di un'intraprendente scalata del forte. Fu lui a edificare la rocca da Giorgio Martini. Viene naturale salire alla rocca, al castello, alla fortezza. Ma guai a prendere un'auto, una moto, qualsiasi mezzo meccanico. Al castello bisogna salire a piedi, si deve sudare, si deve capire come fosse anche all'epoca un'impresa salire quassù, e salire quassù voleva dire difendere il proprio popolo, rischiare la propria pelle, sangue, sudore e lacrime. Al castello, uomini e donne in costume accolgono il visitatore ricreando le atmosfere medievali tipiche del luogo. Tutti vogliono farsi fotografare con loro, c'è troppo turismo, ma il castello è sufficientemente ampio per poterlo girare con profitto. In particolare mi concentro nell'ala del castello dove fu detenuto Cagliostro, una storia particolare: massone, mago, alchimista e guaritore, morto quassù nel 1795.
Poi la discesa al borgo, dove è d'uopo un aperitivo fresco, per contemplare i vecchi muri fatti di pietra grigia che si sfalda a scaglie, conferendo all'insieme dell'abitato un senso di caducità e nel contempo di bellezza. Ammiro le poche scale che conducono ai palazzi, i gradini di accesso alle chiese, le soglie delle case. E m'immagino anche qui i soldati, le dame, i contadini a vivere una vita di stenti ma anche di gloria.

mercoledì 19 giugno 2013

Pesaro, o delle due fontane


Passato, presente e futuro in una città vivibile e positiva sulla costa marchigiana.

Pesaro non appare da subito di una bellezza artistica e architettonica particolare, provenendo come mi capita quest’oggi da luoghi straordinari come possono essere Urbino o il castello di Gradara, quello reso celebre da Paola e Francesco. Eppure Pesaro ha una sua dignità, una sua pulizia, una sua giustezza che da subito conquistano il viandante. Arrivo che piove, la gente si rifugia sotto i portici, passando radente alle case medievali, cercando l'ombrello del vicino se non ce l'ha. Sbuco in Piazza del popolo, sulla quale s’affaccia un Palazzo Ducale che tradisce la sua antica gloria, che va dal XIV al XV secolo. In Palazzo Ducale fa bella mostra di sé una fontana marmorea decorata con cavallucci ed altri esserini. L'acqua sgorga, si mescola alla pioggia e crea una cortina di goccioline sospese nell'aria che sembrano conferire al Palazzo Ducale un che di fatato, di fiabesco. La gente si accalca sotto i portici, beve lo spritz al bar, cerca di incontrare gli amici. 

È domenica, la gente passeggia, soprattutto nella lunga via, dedicata a Gioachino Rossini che qui nacque, strada che collega la Piazza del popolo al mare, al litorale di Piazza della libertà. Percorro il viale fino a che giungo a un'altra fontana, invece moderna, contemporanea, che consiste in uno dei grossi globi di Arnaldo Pomodoro, il grande artista marchigiano conosciuto in tutta Italia e anche oltre. È l’autore di quei mondi dorati e dentati, squarciati e nello stesso tempo integri nella loro forma, che ornano molte piazze italiane. Il mare comincia già ai piedi del globo, visto che la fontana e orizzontale, non ha getti ma solo un leggero fluire dell'acqua su una leggerissima pendenza. E mi rendo conto che la città di Pesaro vive tra passato e futuro, tra la fontana medievale e la fontana contemporanea sul mare. Mi chiedo dove stia il presente, e lo trovo proprio nella via che collega le due fontane, quello struscio, quella vasca dove uomini e donne di Pesaro, soprattutto i più giovani, cercano di socializzare, di combinare affari, di immaginare divertimenti e, se succede, anche di combinare matrimoni. La città rimarrà per me un simbolo del tempo, passato-presente-futuro.


martedì 11 giugno 2013

Cartoceto, il paese che scivola giù



Borghi d'Italia, il fascino dell'abitato che è fortezza e bellezza. Nelle Marche.

Sulle guide turistiche merita qualche riga appieno: borgo-castello sull’esempio di quelli che si diffusero nelle’poca delle invasioni barbariche. Ma, chissà, penso proprio che meriterebbe qualche paragrafo in più. Sulla via tra Fano e Fossombrone, Cartoceto – che bel nome onomatopeico, pare indicare qualcosa di accartocciato – è uno di quei borghi che ti conquistano il cuore, mettendo addirittura in dubbio i tuoi inveterati geni cittadini. Momenti in cui ti chiedi come mai tu perda i tuoi anni migliori nello stress urbanistico, senza riuscire ad immaginare che dopo una settimana trascorsa nel borgo ti metteresti a sognare solo la puzza e il rumore della città. Ma tant’è, il paesaggio è così raffaellesco nel suo incanto – il paesello è noto per il suo olio che sapientemente coniuga dolcezza e acidità – che rimanerne affascinato e conquistato è d’uopo, saresti un uomo insensibile e rozzo.
Arrivo a Cartoceto dalla strada alta, dal lato del Santuario di Santa Maria delle grazie, un modesto edificio in mattoni rossi che pure ha una certa vetustà – XVI secolo – ed il borgo mi par un imbroglio, tanto più che un bel tratto delle sue mura è franato a valle impedendo di percorrere l’aereo camminamento che da qui si dipartiva. Sarei tentato di abbandonare la partita e ripartire per Fossombrone immediatamente, quando m’accorgo che le viuzze del paesello sono particolarmente curate: sono solo ed esclusivamente scale che scendono, in pietra grigia, con le alzate in mattoni rossi, più o meno consunti, più o meno rossi, ma in ogni caso oggetto di una attenta manutenzione. Di gradino in gradino scendo a valle, chiedendomi dove mai sia il cuore del paese, al punto che mi chiedo se non fosse al santuario stesso, anche se la cosa m’appare un po’ strana… Finché l’arcano si svela, allorché sbuco su un tratto ancora aperto della cinta muraria e, in basso, ai piedi del muro bombato e possente, s’apre una piazza oblunga, al cui vertice inferiore pavesa un modesto ma decoroso Palazzo del Comune, con tanto di torretta dell’orologio e della campana, a dar un certo decoro all’abitato e agli abitanti. Poi tocca risalire.

mercoledì 5 giugno 2013

Recanati, la musica sull'ermo colle



Sulle tracce di Leopardi, su e giù per il suo universo sospeso sulle colline marchigiane.

Come potrei visitare Recanati senza fermarmi sull’ermo colle e tracciare segni sul bianco taccuino, segni di senso? Son qui, maggio è fresco, ha piovuto, tira vento, il crepuscolo s’immalinconisce e m’immalinconisce. E godo nel sostare e ripetere le parole del poeta, le sue musiche del Verbo. Non a caso scrivo queste note su un taccuino a pentagramma, le musiche suonano ovunque, qui a Recanati. Vengo da Casa Leopardi, da dove fuoriescono questa sera i gorgheggi, le scale, i solfeggi, gli esercizi tonali di una giovane donna, senza tratti, senza volto, solo voce e melodia. Mi sento come Giacomo il Grande, uomo dai tanti fallimenti amorosi e dagli infiniti amplessi platonici tra anime, tra corpi sublimati.

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,/ e questa siepe, che da tanta parte/ dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Recanati è uno strano paese, allungato com’è su un colle arcuato, sulla sommità del colle che pare una lama appena un po’ arrotondata. Da Settentrione a Meridione appare perciò un grumo, quasi una minuscola piramide di casette appollaiate le une sulle altre, mentre da Oriente e da Occidente ecco che sembra una lunga teoria di casette allineate sul crinale del colle. Bizzarro, ma non poco affascinante.

Io solitario in questa/ Rimota parte alla campagna uscendo,/ Ogni diletto e gioco/ Indugio in altro tempo: e intanto il guardo/ Steso nell'aria aprica/ Mi fere il Sol che tra lontani monti,/ Dopo il giorno sereno,/ Cadendo si dilegua, e par che dica/ Che la beata gioventù vien meno.

Il borgo di Recanati è pulito e ordinato, discretamente molle, viuzze che non riescono mai ad essere rettilinee, per via dell’orografia ma pure dell’indole dei suoi abitanti: basta ascoltare la parlata – musicale, eccome! – dei suoi cittadini per capire che qui di rettilineo e monotono ci può essere ben poco. M’immagino Giacomo il Piccolo in faticosa deambulazione, gobbo e timido, timoroso di ogni linea troppo dritta, ma pure dell’incertezza dell’urbanistica, delle scale e delle scalinate. Poi, d’improvviso, tra due file di case di mattoni rossi e di pietre bianche ingentilite da gerani rossi-tutti-rossi, s’apre lo sguardo sulla collina marchigiana, dolce e molle come tanti corpi di donne abbracciati alla terra. Colori teneri, rigati senza essere irregimentati, le vie di fuga delle silhouette muoiono d’amore sul colle che segue, in una sinfonia che un Pergolesi potrebbe forse scrivere in musica sui miei pentagrammi.

O graziosa luna, io mi rammento/ che, or volge l'anno, sovra questo colle/ io venia pien d'angoscia a rimirarti:/ e tu pendevi allor su quella selva/ siccome or fai, che tutta la rischiari.

Percorro di nuovo la dorsale del borgo di Recanati. Di perle ne scopro non poche: il Palazzo comunale, la Torre del borgo, la chiesa di San Domenico, la Pinacoteca comunale… Ma nel mio animo in questo concentrato di senso non restano i palazzi, restano le viuzze, le piazzuole, gli slarghi, le file di case che s’incurvano per seguire e per determinare la via. È qui che Recanati svela la sua natura: il piccolo che diventa enorme, il filo d’un sentimento che trova i caratteri dell’immortalità, una serie di fonemi che fa toccare l’infinito.

E come il vento/ odo stormir tra queste piante, io quello/ infinito silenzio a questa voce/ vo comparando: e mi sovvien l'eterno,/ e le morte stagioni, e la presente/ e viva, e il suon di lei. Così tra questa/ immensità s'annega il pensier mio:/ e il naufragar m'è dolce in questo mare.