lunedì 25 marzo 2013

San Giovanni Rotondo, dove aleggia Padre Pio



Visita sotto la pioggia in uno dei maggiori centri di pellegrinaggio al mondo. L'oro e la fiamma.

Piove a dirotto. Il cielo lacrima senza pietà. I pellegrini battono i denti, cercano riparo sotto i portici, nei bar, negli alberghi. Paiono smarriti, desiderando solo raggiungere il luogo dove è sepolto San Pio, che però si fa fatica a chiamare così. Rimane Padre Pio, per tutti o quasi. Anch’io percorro il mio breve calvario sotto la pioggia, partendo dalla vecchia chiesa, quella ancora fissa nell’immaginario collettivo dei fedeli, quella dove tanti pellegrini ritengono che ancora sia conservato il corpo del santo di Pietralcina. Qui c’è il fascino del vuoto, ormai. 
Ma bisogna salire alla nuova basilica per trovare il corpo dell’uomo dalle stimmate aperte, la nuova e controversa chiesa edificata dal grande architetto Renzo Piano. Non a tutti piace, è ovvio. Personalmente, invece, la trovo particolarmente efficace e bella, costruita com’è con la bianca e porosa pietra d’Apicena, ai piedi del Gargano e al confine col Tavoliere. Il piazzale è imperioso e familiare nel contempo, con quegli ulivi che paiono rametti della Domenica delle Palme sventolati nel vento e nella pioggia di un mondo ostile. La basilica superiore è pura arte moderna, può piacere o non piacere, ma resta un capolavoro di linee e spazi e vuoti e pieni. 
Scendere alla cripta per la rampa dai lunghissimi gradini quasi appiattiti è esperienza di segretezza e di nascondimento, nonostante si sia accompagnati dai mosaici di Marko Ivan Rupnik, il gesuita artista che fa dell’oro e del rosso il trionfo dello Spirito su questa terra. Ed è un progressivo penetrare in questo mistero, fino all’apoteosi della sala dove riposa Padre Pio, tutta oro e fiamma, quasi un enorme abisso di luce e bellezza. Ringrazio il santo di Pietralcina per avermi consentito di essere al mondo. Una vecchia storia paterna…

lunedì 11 marzo 2013

Mostar, la luna pietrificata



La città del ponte più noto dei Balcani, distrutto dalla guerra degli anni Novanta e ora ricostruito.

Non c’è dubbio: Mostar – che non a caso significa “guardiano del ponte – vive dello Stari Most, il ponte vecchio, definito anche poeticamente “luna pietrificata”. Le sole vestigia interessanti, quelle dell’epoca medievale e ottomana, s’aggruppano, si cristallizzano, si affastellano attorno al ponte più noto della Bosnia e simbolo della guerra degli anni Novanta, che lo distrusse senza pietà né rispetto per la storia e per l’arte. Una storia lunga: nel XVI secolo era un importante nodo di trasporti e commercio dell’Impero ottomano. Nel 1557, Solimano il Magnifico ordinò la costruzione di un magnifico arco di pietra che sostituisse il ponte ligneo sospeso sulla Neretva, le cui oscillazioni spaventavano i viaggiatori. Il ponte fu terminato nel 1566 e ben presto divenne una delle meraviglie architettoniche dell’intera Europa. Nel corso della guerra degli anni Novanta, dapprima croati-bosniaci e musulmani-bosniaci combatterono fianco a fianco contro i serbi, ma nel 1993 presero a combattersi anche tra di loro, creando una linea di fronte che attraversava l’intera città. Due anni di combattimenti che distrussero non solo il ponte, ma anche la quasi totalità degli edifici storici della città. Il centro è stato poi ricostruito col contributo determinante dell’Unesco, visto che la città è iscritta nell’albo dei siti “patrimonio dell’umanità”.
Vengo da Medjugorie, un luogo di grande significato spirituale, al di là della veridicità delle apparizioni mariane, ma di assoluta insignificanza dal punto di vista architettonico e artistico, oltre che storico. È quindi con sommo piacere che, percorsi i trenta chilometri che separano la cittadina delle apparizioni dalla città del ponte, mi trovo dapprima nelle vie del fronte su cui due lati le vestigia crudeli della guerra sono ancora perfettamente visibili, e quindi alle soglie del quartiere centrale, con le sue in fondo modeste ma bellissime case di pietra e di legno che ricordano come da queste parti la frammistione e la contaminazione delle culture siano assolutamente normali. C’è dell’influenza turca, indubbiamente, a cominciare dalle moschee che paiono palazzi residenziali e dai minareti che svettano come fossimo a Istanbul; ma non mancano le tracce d’un medioevo più mitteleuropeo, fino a scorgere elementi che rimandano piuttosto al Sud della Macedonia attuale e a quella più antica, Grecia quindi. E che dire del ponte sospeso stesso, che è certamente debitore a certi parametri costruttivi romani, seppur con contaminazioni romane?
Attraverso il ponte, che ha conservato anche dopo la ricostruzione la pavimentazione originale, recuperata almeno in parte: lastre di pietra bianca poste nel senso della marcia e traversine della stessa pietra sollevate di 8-10 centimetri sulla sede stradale. Un modo di rendere percorribile il ponte anche nei rigidi inverni di queste parti – la città è coronata dalla neve che imbianca le sommità dei rilievi –, ma anche di annullare, o anestetizzare, la forte e insolita pendenza del ponte sospeso sulla Neretva. Mi siedo quindi ai tavolini di un bar, sotto la via dei commerci chiamata Onešćukova, con una vista mozzafiato sulla “luna pietrificata” e, dinanzi a una fresca e gradevole Sarajevska, la più nota birra locale, scrivo queste note nel relax più assoluto: per giunta la temperatura non è rigida e la pioggia non cade a torrenti, come il bollettino meteorologico prevedeva. E come sempre immagino la storia locale, dall’invasione ottomana alla terribile guerra recente. La Storia, quella con la maiuscola, spesso trova luoghi in cui cristallizzarsi, in cui tracciare parole spesse come le corazze, dense come il sangue e viscide come l’acqua piovana sulle pietre dello Stari Most. Luoghi dove le armi parlano, ma ancor più dove la cappa di tristezza della violenza lascia il suo marchio. Mostar è uno di questi luoghi, dove il sigillo dell’abominio è indelebile. Ma dove la storia si apre a nuovi scenari, dove è possibile gettare nuovi ponti e soluzioni impensabili. La ricostruzione del ponte, avvenuta nel 2004, ne è il simbolo, non la metafora.

venerdì 1 marzo 2013

Medjugorie, la salita alla collina delle apparizioni



A Bijakovići ci sono solo fango e sassi aguzzi. L'humus ideale per l'esperienza mistica.

Sono alla collina delle apparizioni, a Medjugorie. Io, incallito cristiano razionalista che pensa di poter fare a meno delle improvvise presenze di Maria su questa terra, mi ritrovo a scrivere queste note sui sassi fangosi della collina su cui è apparsa la Vergine ai sei adolescenti di questo borgo perduto dell’Erzegovina, che sarebbe rimasto nel cono d’ombra della Storia, se non fosse che quassù ci son stati morti per la sanguinosa guerra balcanica degli anni Novanta. Mentre ora qui di gente ne viene a frotte, e la cittadina ha moltiplicato per cento le sue case e i suoi abitanti. Non c’è assolutamente nulla di interessante da queste parti, salvo queste pietre nel fango che bisogna salire con una certa fatica per giungere al luogo delle apparizioni, le prime di Medjugorie. Perché poi più che il luogo è il tempo che sembra aver preso il sopravvento, visto che la Madonna appare ogni giorno alla stessa ora, le 18, almeno a tre dei sei adolescenti, ormai maturi, sposati e in giro per il mondo, emigrati come tanti figli di Bosnia-Erzegovina. Ed è più che altro interessante la salita scivolosa, più che il luogo un po’ kitsch dell’apparizione, con una statua della Madonna francamente brutta, in pietra bianca, circondata da una ringhiera di alluminio a forma di stella, mentre molto più interessante e gradevole appare il crocifisso ligneo, più in alto, una cinquantina di metri, brunito dal tempo e dalle mani dei pellegrini.Ecco, i pellegrini, gente normale, gente che non ti aspetteresti inginocchiati nei banchi di una chiesa, o in un altro luogo di culto. Gente che evidentemente ha bisogno, deve chiedere qualcosa, forse una grazia per sé o per qualcun altro, gente che recita il rosario o semplicemente sta, forse medita, con lo sguardo fisso alla statua della Vergine oppure al Cristo ligneo che sanguina resina e acqua e chissà cosa d’altro. Gente che magari ha speso 50 euro per comprare souvenir devozionali nelle infinite botteghe sorte ai piedi della collina, ma che qui, nel luogo dell’apparizione e nei suoi paraggi, non ha nulla da distrarsi, nulla da vedere, nulla da comprare, salvo il nudo spirito, la nuda anima che porta sempre con sé senza nemmeno rendersene conto. Gente che versa lacrime, singhiozza, prega, invoca, recita formule e formula recite; gente che dubita e che ricrede, crede o miscrede, poco importa, c’è una sorta di amnistia generale su questa collina schiacciata dalle nubi scure, cariche di pioggia, in questo uggioso febbraio. C’è una sorta di livellamento spirituale e sociale, generalizzato, le scarpe sono rosse e brune di fango che siano di marca o dozzinali, con la vibram che morde il terreno o coi buchi sotto la suola. Maria ha il potere di «scacciare i potenti dai troni» e di «innalzare gli umili», semplicemente stando, indicando il Figlio crocifisso, unico mediatore, mai dimenticarlo.