giovedì 27 agosto 2015

Kibera, la più grande bidonville d'Africa

Viaggio in Tanzania e Kenya/7 - Un'altro degli aspetti paradossali dell'Africa, di certa Africa. Ma con che diritto voler giudicare una situazione così complessa e variegata come la giustizia distributiva in un continente saccheggiato e impoverito da secoli?
 

La vecchia Nissan di Mada sembra non farcela più nelle lunghe salite delle highway locali. Ma siamo arrivati a destinazione, a Kibera, appena dietro la parrocchia di Guadalupe, in un quartiere residenziale. Ad annunciare Kibera è un albergo, l'Hotel Classic, una baracca dipinta di rosso e d'azzurro, dove finisce l'asfalto e inizia un altro mondo. Il mondo dei rifiuto, della provvisorietà assoluta.
Attorno all'unica strada asfaltata dello slum, si allungano dei veri e propri muri di baracche, in mezzo ale quali di tanto in tanto si apre un breve spazio, un metro o poco meno, che indica una via laterale, un budello che porta ad altre migliaia di baracche. Quei budelli sono ricettacolo di ogni cosa che vaghi nel mondo, fogne a cielo aperto, ma anche luogo di giochi, di litigi, di socializzazione. Aleggia ovunque un  odore acido di fogna, mentre la nettezza urbana è lasciata alla buona volontà dei singoli abitanti. Eppure nella via principale non mancano i negozietti di cosmetici e telefonini, segni di sogni consumisti in tutto il mondo. Ovviamente qui non c'è elettricità, né acqua corrente, figuriamoci se potabile! 


Per la strada passeggiano personaggi dalle facce inquietanti, talvolta leggo un'infinita invidia per il mio status di uomo libero bianco, ma anche uno sguardo inquisitore per vedere se posso essere oggetto di qualche sottrazione. Non tiro fuori la macchina fotografica nemmeno per sogno, i miei accompagnatori sono stati categorici. Non rischio tanto di venir derubato, quanto di beccarmi una coltellata. Eppure c'è una certa gaiezza in giro, i colori sono sgargianti, nonostante il marrone delle strade e di ogni cosa. Colgo sguardi di infinito amore. Non solo di donne. I giovani indossano magliette del Milan e del Barcellona, dalle baracche fuoriescono musiche a tutto volume. Un giovane uomo a gambe divaricate siede su una immensa poltrona in damascato rosa; accanto a sé ha una bacinella di plastica azzurra che ospita un quadro del Sacro Cuore, mentre dietro le sue spalle un immenso hifi sputa musica rap a tutto volume. E vicino a quest'uomo una giovane mamma con tre bimbi, già sformata nonostante l'età ancora verde, sbuccia un'arancia per i tre frugoletti mentre vende un mucchietto di arachidi in bottiglia. Dietro alla scena campeggia un Hotel De Luxe con una guardiana che si atteggia a pin up dall'alto dei suoi abbondanti cento chili. Ogni tanto si creano dei crocicchi attorno a una motocicletta, circola alcol, circola erba, talvolta polvere che non è eroina ma devastante droga chimica. Si beve un intruglio che si chiama changhà, alcol da canna da zucchero e chimica, si rischia la cecità e la demenza, se non la morte.
 

È qui che faccio conoscenza, attraverso i miei amici, con Nancy, una giovane donna che vive in una baracca infilata in una viuzza laterale di 2 metri per 3. Lamiera e qualche pezzo di plastica o di legno sono i materiali da costruzione: baracche bollenti d'estate e gelide d'inverno. E si sente tutto quanto accade nelle baracche vicine, non c'è possibilità di privacy, se non chiudendosi a chiave nel proprio loculo. La vicina di Nancy langue nel suo bugigattolo sparando musica rap e ubriacandosi. «Non si preoccupi, in fondo è una brava donna», cerca di giustificarla Nancy ai miei occhi, anzi al mio udito, perché ne colgo solo il respiro affannoso e sincopato a pochi millimetri da dove sono seduto, appena un foglio di lamiera. C'è un perfetto ordine nella baracca della giovane donna, ogni cosa è al suo posto pur nell'assoluta precarietà dei luoghi, del mobilio e delle suppellettili.
Nancy vi abita con sua figlia e con la nipote, che ha accolto a casa sua, si fa per dire, dopo la morte della sorella e del cognato. Abitava in campagna, come tutti o quasi gli abitanti di Kibera ed era venuta in città per lavorare come donna delle pulizie presso una famiglia facoltosa. Poi è rimasta incinta e non ha potuto più continuare a lavorare, mentre l'uomo che l'aveva ingravidata è sparito nel nulla. Nancy previene la mia domanda: «Sono rimasta e continuo a rimanere qui invece di tornare nel mio paese perché qui i miei due piccoli possono frequentare una buona scuola tenuta dagli italiani. Tra qualche anno potranno emanciparsi da questo luogo. Io cerco di guadagnare qualcosa lavando panni. C'è pure qualche associazione che ci fornisce di medicinali e quando c'è bisogno di un dottore riusciamo a trovarlo. Quindi preferisco stare qui». Ma non ti senti immersa nello squallore? «Io qui in fondo ho creato un mio angolo pulito nel quale vivo bene con i due piccoli. Basta stare attenti, basta pagare l'affitto regolarmente, basta non dare fastidio ai vicini e così riesco a vivere abbastanza bene». E non vorresti andare a vivere in un quartiere migliore? «Certo che sì, ma non so come poter guadagnare abbastanza per mantenere i miei figli e pagare un affitto alto. E poi ormai conosco tutti qui e fuori sarei trattata come una mendicante. Qui ho una mia dignità».