lunedì 29 agosto 2011

Cogne, scalino al Paradiso


A 30 chilometri da Aosta, nella valle che porta al Gran Paradiso. Per cambiare opinione su un luogo.

Dicono, i depliant turistici, che sia una scala al Paradiso, anzi al Gran Paradiso. Una scala composta da un solo gradino, e per giunta colorato di verde. Un prato. Io invece avevo un solo ricordo di Cogne, e per giunta libresco: un luogo tetro, da minatori, incassato tra le montagne, con un abitato poco invitante per essere stato costruito con pietra locale, poco ci manca che fosse del colore del carbone.

Finalmente mi si presenta l’occasione di visitare la valle di Cogne: dopo un’estate secca e bollente, senza una goccia d’acqua, oggi le cataratte del cielo si sono aperte e vengono giù, come dicono i vicini savoiardi, les cordes. Rischio di confermare la mia ipotesi, non quella della pro loco. Se non fosse per la mia ospite – inesausta e molto di più, moglie attenta e madre di tre stupendi rampolli, oltre che deliziosa scrittrice – penso che avrei girato i tacchi molto volentieri. Una tisana al tiglio nelle tenebre d’una terrazza di bar inondata dalla pioggia, una passeggiata alle cascate dove i tre marmocchi amano bagnarsi, qualche (suo) apprezzamento urbanistico (pertinente), conversazioni semplici ed elevate nel contempo, un incidente al piccolo Giacomo, con annesso rischio di una gita fuori programma al pronto soccorso di Aosta..

E d’improvviso Cogne si tinge di tonalità meno funeree. Finché, visitando lo scalino verde, per la graziosa – cioè piena di grazia – presenza dei miei ospiti, il sole appare, i ghiacciai si svestono del loro manto di nebbia, l’erba s’asciuga del suo acquitrino meterologico, il cielo si dipinge d’azzurro. E la valle di Cogne mi si svela col suo dover essere, quasi come la descrivono i depliant. La notte è flagellata dal vento e dalle ondate di pioggia. Sono gli occhi che viaggiano. Talvolta quelli degli altri.

sabato 13 agosto 2011

Potosí, l’argento


Viaggio in Bolivia/7 - 4100 metri per una città che ha vissuto d'argento, e che ora cerca un suo spazio nel Paese sudamericano.

L’arrivo a Potosí è spettacolare. Dopo aver percorso una decina di chilometri sull’ultimo altipiano che porta da Sucre alla città più alta del mondo (4070 metri per 150 mila abitanti), accompagnati dalla linea ferroviaria che collega le due città (7 ore di viaggio, tre volte a settimana) e che nell’ultimo tratto scorre parallela alla carreggiata asfaltata, d’improvviso appare il Cerro Grande, la montagna conica che sovrasta l’abitato, e poco dopo in basso si scorge una città del color della polvere, disordinata nella sua urbanizzazione, rutilante di gente e mezzi vari, colorata di mille follie cromatiche. Il traffico è caotico, ma come sempre si trova una soluzione anche per i più intricati ingorghi. Potosí conserva nel suo cuore – a valle la città commerciale, a monte quella dei minatori – un centro coloniale assolutamente fantastico, unico nel suo genere, conservatosi quasi intatto nei secoli. Al catasto si contano circa 5 mila edifici che datano alla dominazione spagnola, quindi tra il XVI e il XIX secolo, più o meno ben conservati, più o meno restaurati. Ma belli, coloniali, e per di più abitati, vissuti anche oggi, il che conferisce all’abitato un sentore di autenticità. I balconi chiusi di legno, naturale o colorato, sorprendono il passante con la loro grazia, e le mille storie di vicinato raccontate, anzi sussurrate e mai gridate. I portoni spesso e volentieri appaiono secolari, di legno con enormi borchie, trucchi estetici e di sicurezza. La città è convenzionalmente divisa in quadra, come tutte le città spagnole, ma senza quella regolarità che spesso le rende stucchevoli: ogni via ha qualcosa d’irregolare. Così ci si ritrova d’improvviso in piazzette deliziose, quasi miniature urbanistiche, mai regolari, adattate nei secoli alle esigenze delle singole abitazioni.

Tutti camminano a ritmo lento, l’altezza conta anche per chi ci è abituato, sotto lo guardo onnipresente del Cerro Grande, “montagna d’argento” che a lungo fu la principale fonte di sostentamento dell’impero spagnolo: si calcola che ne siano state estratte milioni e milioni di tonnellate di argento, a costo (piccolo dettaglio) di alcuni milioni di morti (le stime variano dai 2 agli 8). Le donne quechua, e qualcuna aymara, vendono come sempre accade in Bolivia un po’ di tutto, in un disordine-ordinato che comincio a conoscere e apprezzare. La luce è accecante, pura e limpida, il cielo grida d’azzurro e l’abitato sussurra i più vari colori: qui la fede è profonda e l’apporto umano sempre sottovoce. Il paesaggio è “rovinato” dai cavi elettrici e telefonici che sono stati tesi ad ogni altezza nell’abitato, creando conformazioni e intrecci assolutamente fantastici. Qua e là sorgono architetture moderne (quasi mai terminate) che gridano vendetta agli occhi degli dei di ogni religione: che ci fa un cubo blu, un cono rosso o un’ala gialla in un abitato antico come Potosí?

Oggi Potosí conta 15 mila minatori, che lavorano sostanzialmente alle stesse condizioni del XVI secolo. Abitano i sobborghi, hanno orari sfiancanti, muoiono presto, prima dei 50 anni, minati dalla silicosi, dall’alcol e forse anche dall’abuso di coca. Non si può pensare a Potosí senza tener in conto questa umanità sfruttata, ancor oggi, senza capire che essi ne sono stati la ragione iniziale e forse anche attuale, nonostante le vene di minerale puro siano in fase di esaurimento. Anche se i minatori di una volta cercavano di far divenire tali anche i propri figli, sempre numerosi perché erano fonti di guadagno, mentre oggi l’ambizione dei mineros abituati alla televisione è quella di lavorare per trovare un futuro diverso ai propri figli. Lavoratori che sono quasi tutti di origine indigena, ovviamente, ma che in qualche modo hanno trovato una conciliazione nei secoli con i conquistatori.

Visito uno dei tanti conventi della città, quello di San Francesco. Incontro un religioso da 40 anni quassù, padre Felice, viene da Viareggio: «È una città incantevole Potosí – mi confessa –, e non saprei più vivere altrove. La gente è amica, calorosa, è ricca di risorse umane». E la religiosità tradizionale? «Sono cattolici quasi tutti, anche se conservano i riti della propria terra, ma questo non va contro la loro cattolicità», conclude un po’ ottimisticamente, mi sembra. Il convento, oltre ad una serie di dipinti sulla vita del Poverello del XVII secolo, ad una rappresentazione della Sacra Famiglia in sombrero, e ad un enorme quadro catechetico sui sette vizi capitali, non ha ricchezze straordinarie. Salvo il tetto, sopra cui ci si può issare attraverso scale anguste e sconnesse, suggestive nella loro plastica irregolarità: la vista è straordinaria, e dimostra come l’intelligenza urbanistica degli spagnoli, coniugata alla convivialità indigena, abbia prodotto un vero e proprio capolavoro. Il Palazzo della moneta – museo che ripercorre la storia della città sovrapponendola a quella dell’argento –, la Torre dei gesuiti, la chiesa di San Lorenzo dalla quale un prete anziano mi caccia perché ho scattato una foto, il convento di Santa Teresa (all’epoca abitato da ricche ereditarie di nobili famiglie locali)… I grandi esempi del colonial più puro e antico si mescolano con l’indigenicità più spinta, in un connubio che è sudamericano ma è patrimonio dell’umanità.

domenica 7 agosto 2011

Tarabuco, il trionfo dei colori


Bolivia/6 - Tarabuco, il più bel mercato della Bolivia. Dove si capisce come possano convivere etnie diverse ma tutte indigene.

La strada da Sucre a Tarabuco è suggestiva. S’innalza da 2600 a 3200 metri, attraversando un paesaggio senza confini: le Ande. La vecchia linea ferroviaria, da quarant’anni in disuso, segue la strada e l’attraversa più volte, aumentando il mistero sul perché questo sistema di trasporti così utile e efficace già allora sia stato abbandonato, conoscendo lo stato delle strade boliviane. Poche sono le case nell’altipiano, piccoli fortini. I villaggi sono solo due in cinquanta chilometri. Frequenti edicole di morti sulla strada, muli e ciuchi, ogni tanto dei campesiño stanno appollaiati sul bordo della strada guardando l’infinito, mentre appare qualche tentativo di rimboschimento a base di eucalipto. Due sole piante attecchiscono veramente: la molle, spinosissima, e il chuci, una sorta di acacia. Le agavi non mancano, e così i cactus. Finché non si arriva a Tarabuco.

C’è del turismo, ormai, che fa lievitare i prezzi introducendo la logica della domanda e dell’offerta. Ma solo con gli stranieri. L’altro mercato, quello vero, gira ai ritmi di sempre, basato sul baratto. Apre prima e chiude prima. La stragrande maggioranza dei presenti, infatti, la mattina presto viene dalle campagne e dai villaggi vicini, per il mercato forse più suggestivo e in ogni caso più colorato di tutta la Bolivia. E allora è sufficiente dimenticare i miei simili – che arriveranno in massa verso mezzogiorno – e cercare di camminare nelle strade del paesello invaso dalle bancarelle. Quelle dove si vendono i sandali fatti coi pneumatici, gli altarini della tradizione religiosa quechua, le gelatine di frutta colorate come i tessuti, le mele e le arance accatastate in mucchi regolari, la carne esposta alle mosche e alle palpazioni degli acquirenti, i sacchi di foglie di coca, basilari strumenti di pesa e di calcolo… Tutto viene venduto, tutto viene contrattato, tutto pare una scusa per “mettersi assieme”, dopo una settimana vissuta dalla massima parte dei contadini in solitudine, o nell’isolamento delle loro povere case di fango che qua e là sorgono nell’altipiano. Questa gente è capace di essersi levata alle due della mattina per venire al mercato.

A Tarabuco si vive di commercio, ma soprattutto di convivialità. La gente delle campagne e dei villaggi ama conversare, sempre a voce bassa, sempre cordialmente, in capannelli che si formano un po’ ovunque, ai crocicchi come nei giardini della piazza principale, dinanzi ai bar improvvisati e a quelli per i turisti. Alle 11 suonano le campane, è domenica, c’è messa. Il prete celebra parte in spagnolo parte in quechua. L’orchestrina canta un po’ stonata, è un’abitudine da queste parti. Ai piedi dell’altare sono allineate casette in miniatura, quadri votivi e altri oggetti che la gente vuol far benedire dal sacerdote. E al termine della messa questi asperge tutti con generosità. C’è aria di fede, popolare.