venerdì 29 gennaio 2010

Il condominio di via Shogentsukova


Ancora un estratto dal mio libro sul Caucaso. Ho percorso tutti i piani di un edificio a Nalcik, capitale della Cabardino-Balcaria, uno spaccato dell'intera regione, che dimostra come la convivenza tra etnie e tra religioni diverse sia difficile ma possibile.

Natalia Belikh è una giornalista felice: lo dice e lo mostra con un largo sorriso quasi infantile, anche se i quaranta li ha passati. Lavora per la Cabardino-Balcaria Pravda, un giornale che ha cinque uscite settimanali, generalista, la voce del potere. Mi racconta di sé: «Sono russa – spiega –, ma con radici polacche, ucraine, cosacche ed anche locali. Ero medico pediatra, ma ho cambiato lavoro per una serie di circostanze: lavoravo sodo ma guadagnavo poco, solo 1200 rubli, mentre al giornale me ne offrivano 3000; mio marito, anche lui, lavorava molto ma guadagnava poco, perché è un uomo onesto, e di figli ne avevamo già due; infine, lavoravo con orari pazzeschi e rischiavo grosso, perché mi occupavo di malattie infettive. Avevo cominciato a scrivere delle note di pediatria per un quotidiano, proprio per sentire che il mio lavoro in qualche modo era utile alla gente. Un amico giornalista mi ha detto che quei miei pezzi erano belli, e che avrei potuto fare la cronista. Ed eccomi qui, ormai da sette anni».

Mi invita a casa sua. Fa sera. Ad accogliermi c’è il figlio minore Denis, un bellissimo bimbo di una decina d’anni, biondo come una pannocchia, intraprendente e creativo. Mi trascina a far conoscenza con le quattro impiegate di un negozio d’alimentari attiguo al condominio: qui presta servizio gratuitamente per esporre la merce sugli scaffali. Ci unisce il tifo per il Milan, ovviamente. Il condominio ha un portone verde di metallo che chiude male, è graffiato, mostra le saldature mal rifinite, ha due o tre numeri civici scritti e poi cancellati. I cardini girano a fatica, un paio di essi sembrano volersi sganciare dal muro. Le scale hanno una ringhiera metallica e i gradini in conglomerato hanno perso pezzi più o meno evidenti. I fili della luce e del telefono salgono e scendono senza logica apparente, s’agglutinano e si separano, si annodano e s’inerpicano, creando incredibili arabeschi sui muri. Le porte? Non ce n’è una uguale alle altre. Anche se da queste parti si lasciano spesso aperte. Qualche vetrata illumina la tromba delle scale. Il tutto avvolto in un intonaco dipinto d’un colore indefinibile, lo stesso che ricopre la facciata della casa: ogni inquilino ha ricoperto il proprio balcone con infissi o maioliche spaiate, o con grate dalle forme bizzarre.


Eppure questo condominio ha molto da dire a tutta la Cabardino-Balcaria, a tutto il Caucaso settentrionale, all’Europa, a tutto il pianeta. Addirittura. Perché qui non c’è quel melting pot alla statunitense che lascia tutto così com’è, né l’integrazione à la française che obbliga a cambiar di cultura, e nemmeno una convivenza londonian in cui si conservano le proprie abitudini sotto parvenze di egualitarismo. «Qui c’è reale integrazione», mi spiega Natalia. E, per dimostrarmelo, mi fa aprire le porte degli appartamenti.


Al quinto piano abitano due donne sole. Valeria è russa; il marito, che l’ha lasciata, è cabardo. Ha due figli a Rostov. Per 42 anni ha lavorato nelle ferrovie, si occupava di scambio di merci: «Qui a Nalcik si vive bene, perché la vita costa meno che nel resto della Russia, la gente è gentile ovunque e c’è molto verde. Non a caso la gente chiama Nalcik “la bella addormentata”. Nel condominio siamo veramente amici, come appare evidente ai funerali, alle feste, quando uno di noi ha bisogno di qualcosa. Se manca lo zucchero, qualsiasi coinquilino me lo darebbe». Valeria appare un po’ triste e sola: «Ma gli amici del condominio mi sono vicini. Quando c’è stato l’attacco del 13 ottobre 2005, mio figlio poliziotto mi ha telefonato ingiungendomi di non uscire di casa. Ma da Tamara sono andata lo stesso. Nalcik non è mica Grozny!».


Tamara, appunto, è cabarda. Ci accoglie nella sua decorosa camera da letto, profumata direi, dopo essersi trascinata fino alla porta: «Noi apriamo sempre a tutti», commenta. È malata Tamara, e molto, per un ictus subito due anni dopo la morte del figlio, deceduto per una leucemia contratta a Chernobyl, dove era stato mandato a lavorare per un anno e mezzo, come militare, allorché si era ancora nel primo periodo post-sovietico, assai confuso. E per giunta il marito l’ha lasciata quando s’è ammalata e immobilizzata. «Con l’aiuto dei vicini riesco però a muovermi, a fare qualcosa. Sono molto grata a tutti loro, sono diventati i miei familiari».

Sorride, Tamara, coi suoi denti neri corrosi dalla carie: «La vita è stata difficile, ma sono musulmana e credo in Dio. Lo prego e lui mi dà conforto». Racconta dello scoppio della guerra in Cecenia, nel 1994: «Mio figlio si trovava a San Pietroburgo, era a cena con amici. Al ristorante ricevette la notizia: ai musici chiese, pagandoli, di suonare una musica funebre. Gli amici s’inquietarono e lo rimproverarono, finché lui spiegò il perché di quel gesto. Un compagno gli disse: “Non vivrai molto a lungo se ti preoccuperai così dei tuoi vicini”. Ma quello che succede ai ceceni è anche per me un gran dolore, perché sono miei fratelli». Tamara mi mostra una foto del figlio: «Non ha voluto dirmi che era ammalato. Finché un giorno ho visto che prendeva delle medicine. Ho scritto il nome di quella scatola su un foglietto e sono andata dal medico per sapere di cosa si trattasse. L’ho saputo e ho pianto. Ma l’ho anche ammirato. Dio m’ha dato questo figlio meraviglioso e Dio me l’ha tolto. Lodato sia il suo nome».


Scendo al quarto piano; c’è un certo via vai nel condominio per via della mia presenza notata da tutti. Sul pianerottolo, appartamento n° 43, abita la signora Rosa, con i nipoti Kurmanda, Marika e Igor, balcari. I genitori dei bimbi sono fuori città. Rosa mi accoglie come fossi della famiglia. Mi offre tè e pasticcini nel salotto come sempre “tappezzato di tappeti”. «Bisogna dire che non viviamo male – comincia così –, perché non si può offendere Dio: ci sono ricchi e poveri da noi, e noi non siamo certo ricchi ma nemmeno poveri. Sono balcara, ma qui nella pianura mi ci trovo bene, a differenza di altri che non sono soddisfatti della loro vita». Crede? «Non vado in moschea, ma prego cinque volte al giorno, anche se durante il comunismo avevo smesso di farlo, perché non volevo contravvenire agli ordini del potere. I miei bambini erano piccoli, ma gli dicevo comunque che Allah è l’unico Dio». Il condominio? «Quando dei vicini cabardi sono partiti a vivere a Mosca, abbiamo tutti pianto. E non manchiamo mai ai funerali dei familiari, nella chiesa o alla moschea, là dove la gente viene accolta in cielo».


Terzo piano. Alexandr è russo mentre Svetlana, sua moglie, è cabarda. Sono gentili e riservati. Sono ancora innamorati, dopo 33 anni di matrimonio. Hanno un figlio che vive a Mosca, dove loro stessi hanno abitato fino a vent’anni fa, e un nipotino – inutile dirlo – amatissimo, come testimoniano le foto appese ai muri dell’appartamento semplice e ordinato. «Venivo qui in vacanza – dice Alexandr – e ho conosciuto mia moglie. Ci siamo sposati e lei non voleva vivere altrove che qui. Io sono ortodosso, lei è musulmana, ma non abbiamo mai avuto problemi, c’è parità assoluta. E anche nel palazzo: alle feste comandate degli uni o degli altri c’è un andirivieni nelle scale, perché ci si fa regali. Ci si intrattiene negli appartamenti di chi festeggia, si mangia, si beve, ci si raccontano le nostre cose, paure, vicende». Cabardi e balcari sono nemici? «Mai, mai, mai – mi fa Svetlana –. Il nostro popolo non abbandona chi è nel bisogno».


Lo scampanellìo nell’appartamento attiguo a quello di Alexandr e Svetlana resta senza risposta. Qui abita una coppia di ceceni, con i suoi tre figli. Ma in questi giorni sono a Grozny, loro città di origine. Prima di partire hanno lasciato un biglietto sapendo della mia venuta: «Ci dispiace, ma dovevamo partire perché la mamma sta male. Se fossimo rimasti, le avremmo detto che qui il portone può rimanere sempre aperto, perché nel nostro condominio la pace è l’unica legge. Ci vogliamo bene, non come accade dalle nostre parti».


Scendo al secondo piano. Due bimbetti hanno cominciato a seguirmi, ma le mamme li richiamano: «Lasciatelo lavorare, venite qua», li redarguiscono, seppur con divertita dolcezza. Suono un campanello appeso a un filo che sembra doverlo lasciar cadere da un momento all’altro. Elena e il figlio Mohammed, balcari, vivono qui. Il figlio, avrà quarant’anni, è un ottimo manuale, e ha reso armonioso l’appartamento. Lei era addirittura una principessa, la sua famiglia veniva dalle pendici dell’Elbrus. «Siamo qui dalla nascita – mi dice –. Mio papà era morto in guerra e due fratelli deportati erano morti di stenti. Ma non ho mai accusato i cabardi di vigliaccheria, questo no». Mohammed parla invece di politica, del Caucaso settentrionale: «A parte Ossezia del Sud e Cecenia, le cose vanno ormai abbastanza bene un po’ ovunque. Qui non può succedere quel che accade in Cecenia, anche se qualcuno cerca ancora di far sì che qualcosa salti per aria». Precisa Elena: «Mio marito era osseto, mio cognato è georgiano, mia sorella ha sposato un moldavo, mia cugina un daghestano, mia nipote un tedesco! Come possiamo farci la guerra quando siamo tutti parenti? E anche la religione non può scatenare la guerra; siamo musulmani, ma non sappiamo nulla di Islam. Ci ricordiamo di Dio solo quando c’è bisogno».


Dall’altro lato del pianerottolo ci sono Damal e Farisat, balcari, ultraottantenni, lui del 1926, lei del 1929. «Ho perso tre degli otto fratelli nella deportazione – mi spiega –, mentre io mi sono salvato. Poi ho lavorato per 16 anni in miniera e dal 76 sono pensionato per aver fatto un lavoro duro come il minatore. Ma non posso rimanere in panciolle e allora ho trovato un impiego alle Poste. Ho fatto cinque figli, 26 nipoti e pronipoti. Poi, 19 anni fa, mi sono risposato essendo rimasto vedovo, e sono sceso dalla montagna qui in città. Non mi lamento proprio della vita». Gli chiedo se abbia qualcosa contro i cabardi per via della deportazione: «Assolutamente no, perché i cabardi erano con noi e alcuni di loro sono pure stati deportati assieme a noi, perché scambiati per balcari. Quando siamo partiti hanno occupato tante delle nostre case, ma quando siamo tornati le hanno liberate in poco tempo. Le autorità ci avevano raccomandato di non pretendere la restituzione delle nostre abitazioni. Non bisognava far rumore. Ma quasi tutti ce le hanno restituite. Nel mio villaggio c’erano ancora 47 mila pecore, mucche a migliaia e 14 caseifici. Ci siamo rifatti una vita al ritorno». Il condominio? «La regola è aiutare chi è nel bisogno. La nostra casa è una famiglia unica». E la moglie annuisce.


La serata si conclude, ovviamente al quarto piano, a casa di Natalia, col marito Alexander e i figli Roman e Denis. Vivono in un piccolo appartamento senza pretese, che il marito carpentiere ha adattato in larghezza (un terrazzino) e in altezza (un mezzanino). Parliamo di tutto, dalle attese dei giovani alla sete spirituale della gente, dal loro matrimonio religioso non ancora celebrato (lui non crede, lei è cristiana, i figli sono battezzati) alla naturale tendenza della loro famiglia a fungere da catalizzatore del condominio. Mi mostrano foto di montagna, aprono il loro cuore con una generosità commovente. Loro, russi, sono il vero elemento catalizzatore dell’intero condominio. Roman racconta dei suoi studi a San Pietroburgo e della sua preferenza per la vita semplice di Nalcik rispetto a quella delle grandi città, piene di gente drogata, alcolizzata, violenta. «Meglio la Cabardino-Balcaria – dice –, pur con tutti i suoi problemi e la sua miseria».


Nell’attesa del sonno riparatore, mi tornano in mente alcune righe scritte da Joseph Roth nel suo Viaggio in Russia: «L’intera evoluzione del genere umano può essere osservata nel Caucaso in individui ancora viventi: il cammino dell’abitante primitivo delle caverne all’agricoltore sedentario, dal nomade bellicoso al mite pastore, dal cacciatore selvaggio al duchoborco pacifista, che è vegetariano per convinzione religiosa…».

mercoledì 27 gennaio 2010

La Shoah nel Caucaso

Ricorre oggi la "Giornata della memoria". Per onorarla, riporto quanto scrissi a Vladikavkaz, capitale dell'Ossezia del Nord, dopo la visita alla piccola sinagoga locale. Una vicenda che ho inserito nel libro "Sull'ampio confine. Storie di cristiani nel Caucaso".


Gliel’avevamo promesso, al rappresentante della comunità ebraica, che avremmo visitato la sua sinagoga. E così avviene dopo l’incontro col ministro della cultura. Così, in un’ala di un bel palazzo liberty in stato cadente, ma che conserva una sua vezzosa bellezza, veniamo introdotti in uno di quei mondi paralleli che ho cominciato a scoprire in queste terre del Caucaso settentrionale, dove etnie e religioni convivono e si scontrano con frequenza fuori dal comune.

Dapprima, nel cortiletto, rendiamo omaggio ad un memoriale che ha una sua dignità dedicato agli ebrei di Vladikavkaz caduti per la Russia durante la Seconda guerra mondiale. Il prof. Mark Petruscianski va fiero del memoriale, per la cui realizzazione si è battuto con determinazione per anni. Ci racconta che la comunità ebraica conta circa 1200 membri, quanti erano prima della rivoluzione comunista, ma con la differenza che all’epoca erano ebrei “puri”, al 100 per cento, mentre ora pochissimi sono quelli sopravvissuti “puri” alla marea della parità etnica e religiosa sovietica, ai matrimoni misti, alle partenze verso Israele, che ammontano a circa 800. La comunità ha offerto alla città medici, deputati, musicisti, scienziati.

Qui non c’è rabbino, ma i locali sono diventati sinagoga da quando il rabbino di Firenze, in Italia, ha consegnato loro dei rotoli della Legge assai antichi e consacrati all’uopo. La piccola sala di preghiera potrà ospitare una ventina di uomini e una decine di donne, separati da un velo bianco. Alle pareti e nelle bacheche si scorgono libri, gagliardetti del Maccabi di Tel Aviv, un Talmud tradotto in russo, orologi con le lettere ebree e le lancette che avanzano in senso antiorario, doni di altre comunità, argenti senza valore…

«Qui non c’è mai stato antisemitismo – mi dice il dott. Mark Petruscianski –, non ci sono stati pogrom. Abbiamo un buon rapporto con tutti, come testimoniano (purtroppo) i tanti matrimoni misti della comunità. Tra l’altro non abbiamo nemmeno la possibilità di cibo e bevande kasher, per cui siamo anche in questo uguali agli altri cittadini di Vladikavkaz». E comincia una stupefacente e sovietissima perorazione della causa dell’Ossezia del Nord e del suo presidente, con un servilismo che potrebbe sembrare disgustoso se non fosse che il mio interlocutore è “formattato” sul registro della ricerca assoluta della “conformazione” al volere del potere.

martedì 26 gennaio 2010

"Sull'ampio confine". Un estratto dall'Inguscezia


Dal mio ultimo libro (vedi post precedente) pubblico per gli amici del blog l'intervista con un politico ritiratosi a vita privata in Inguscezia, uno dei luoghi dove la tensione è maggiore in tutto il Caucaso. C'è gente stupenda da quelle parti!


2007. Mi trasferisco da Vladikavkaz, capitale dell’Ossezia del Nord, a Nazran, capitale dell’Inguscezia. Dodici chilometri in tutto e per tutto. Attraverso i territori di Prigorodny contesi tra osseti e ingusci. Gli uomini portano il copricapo bianco e le donne il velo. Nel paese di Čermen la polizia ferma il taxi per un controllo: ogni cinquecento metri una vettura pattuglia l’abitato. Poi la frontiera, le tracce della guerra vicina che per gli agenti è perfida, perché non dichiarata, perché colpisce l’esercito russo di stanza nella regione. Si vedono tank e fili spinati ovunque, il ghigno dei militari non è amichevole. La guardia di frontiera imbraccia un fucile gigantesco; scopre che sono europeo e s’apre in un sorriso alcolico e sdentato. Passata la frontiera, la città è subito lì. Discreta, anonima, non si capisce quanto interessata alla guerra e quanto a farsi i fatti suoi. Ma nell’aria la tensione è palpabile. Aleggia una presenza quasi demoniaca, da queste parti, forse quelle dove Lermontov – morto in duello a poche decine di miglia da qui, a Pjatigorsk – ambientò il suo poema intitolato, appunto, Il demone.

Per capire la situazione di questo lembo di Caucaso russo intervisto Asamat Nalghiev, uno dei più indipendenti e attenti osservatori locali. Lo incontro nella sua decorosa casa di campagna: vestito modestamente, la sua cordialità è evidente. È appassionato di musica lirica – ascolta Rossini e Verdi – e conosce bene i film di Antonioni, Fellini e Bergman. Gli chiedo qualche punto di riferimento. «Bisognerebbe parlare con la gente comune, nei villaggi – mi risponde –. Ieri è stato ucciso un soldato russo, ma in seguito a un pestaggio di innocenti operato dai militari, una donna è stata costretta ad abortire. I medici non comunicano dati oggettivi sull’entità delle ferite provocate sulla gente aggredita: non possono. Il resto è filosofia. Le complicazioni non sono nate oggi, né cento anni fa, ma all’inizio della colonizzazione del Caucaso. Da allora troppi ammazzano in nome di Dio». Si ferma, s’accarezza la barba di due giorni, si lamenta appena un po’ delle sue cardiopatie: «Non voglio e non posso sopportare troppe sollecitazioni, per cui mi sono ritirato a coltivare il mio orto – ammette –. Il mio nome significa “cittadino”, è un’etimologia turca, mi sta bene, visto che tutto quello che succede nel Paese mi fa male. Negli anni Novanta speravamo in un futuro democratico, ma la popolazione inguscia non è abituata a rispettare la legge russa, fatta da governi che non la rispettano».

Asamat Nalghiev è filologo e filosofo. Durante il comunismo, avendo rifiutato la tessera del partito, era stato costretto a lavorare come minatore nel Kazakhstan e in Jakuzia. Poi, una volta tramontato il socialismo reale, è stato eletto per un decennio deputato della Repubblica d’Inguscezia, assumendo anche diversi incarichi di governo. «Ma in tutta la mia vita ho letto – cerca di scusarsi per i suoi due “mestieri” – e, seppur in misura minore, ho dipinto. Questa è la mia ricchezza. Diocleziano aveva lasciato il palazzo per dedicarsi ai suoi pomodori. A chi cercava di riportarlo al suo ruolo, egli decantava la bellezza dei suoi cavolfiori. L’orticoltura è più interessante della politica, e la sera mi corico con la coscienza pulita».

Cerco di portarlo ai morti ammazzati, alle tensioni quotidiane. A fatica. Il centro del wahhabismo s’è spostato dal Daghestan e dalla Cecenia all’Inguscezia? «Negli attentati di questi ultimi tempi si trovano sempre le impronte dell’orso», mi risponde enigmatico. Cioè? «Non sempre i radicali sono i soli responsabili; anche le truppe di occupazione russe hanno le loro colpe. Che il “trasloco” dei terroristi abbia avuto luogo, non lo nego. Kadyrov in Cecenia ha eliminato le influenze religiose radicali: già suo padre, al tempo di Maskhadhov, aveva fatto fuori non pochi wahhabiti. Il potere inguscio ora è debole e la gente torbida si sposta dove può operare con impunità; se ci fosse ancora il precedente presidente, Ruslan Aushev, militare e cavaliere, questa emigrazione funesta non avrebbe avuto luogo. Aveva avuto il coraggio di trattare a Beslan coi terroristi, aveva combattuto in Afghanistan, non permetteva stupidi atti di libero arbitrio, non voleva che l’anarchia prevalesse».

S’interrompe, Asamat Nalghiev, filosofeggia nella sua mente: «Il nostro Paese è quasi al cento per cento schiavo di Putin. Questo ha dei riflessi pesanti, c’è una gran paura in giro. Per questo con voi nessuno parlerebbe, salvo chi ha molto sofferto e quindi non ha nulla da perdere. Come il sottoscritto. La paura provocata dallo stalinismo è tornata. Il presidente Ziazikov (defenestrato poi dagli stessi russi nell’ottobre 2008, ndr) è debole, non è amato e si piega al volere di Mosca». Perché tanti attentati contro i russi? «La Russia imperiale da molto tempo ha deciso chi nel Caucaso sia amico e chi nemico – ci risponde –. Il popolo inguscio è tra questi ultimi, anche per cause religiose. Ora prende piede lo sciovinismo. Il grande nazionalismo russo teme i nostri piccoli nazionalismi». Pace nel Caucaso? Come? «Per prima cosa, bisognerebbe che le autorità avessero una vera volontà di pace. I bolscevici avevano fatto qualcosa di buono, cioè avevano messo tutti allo stesso livello, volendo creare l’homo sovieticus. Ma oggi il potere non vuole più la pace». E gli ingusci, la pace la vogliono? «C’è un problema di revanscismo – ammette –. Vogliono ancora le terre tolte loro dai bolscevichi nel 1944, attualmente in Ossezia. Ma bisogna tener conto della realtà, non solo del passato. Il fondamentalismo islamico vuole farci tornare al VII secolo, ma così facendo entreremmo in un vicolo cieco. Va detto, a onor del vero, che è molto difficile gestire una società multietnica; è molto più facile gestirne una multireligiosa».

Parliamo delle qualità e dei difetti del popolo inguscio. «Montesquieu parlava di “determinismo geografico” – mi risponde –. Nel XVIII secolo l’impero russo aveva cercato di cancellare alcune etnie. Difficile scalzare però un popolo fiero come quello inguscio, con forti tradizioni culturali prima che politiche e religiose (siamo musulmani solo da 150 anni). Il popolo è regolato soprattutto da una legge non scritta, l’adat. Questo è in effetti uno dei limiti del Paese, che deve vivere tra tre corpus legislativi: l’adat, appunto, la shari’a e la legge russa. Tra questi codici l’inguscio sceglie di volta in volta quello che a lui conviene». La voce di Nalghiev prende venature epiche: «Voglio morire in questa amata terra. Ricordo i nomi dei miei antenati fino alla quattordicesima generazione: un inguscio che non conosca i suoi fino alla settima è una vergogna. Ma non abbiamo una storia scritta credibile; sì, qualcuno comincia a scribacchiare, ma la storiografia qui è serva della politica. Come altrove, d’altronde. Mi ha sempre sorpreso il fatto che nella civilissima Germania dei Goethe e dei Beethoven d’improvviso spuntasse un Hitler, o che nella culla dei Raffaello e dei Michelangelo vedesse la luce un Mussolini. Si capisce come le tradizioni democratiche in Europa non fossero allora stabili. Perché ora non darci tempo?».
Che rapporti hanno i musulmani coi cristiani? «Non esiste nessun problema di convivenza, anche se qui in Inguscezia ci sono solo un paio di chiese ortodosse. Certo, a volte il nemico russo appare anche cristiano… A me interessano poco i dati del passaporto, che invece interessano a chi ha una visione fondamentalista della vita. Guardo negli occhi una persona e capisco se mi è amico o nemico. Anche se è nemico, comunque, lo rispetto». Fa caldo, Asamat Nalghiev accarezza un cagnolino nero, poi riprende come un modesto Socrate inguscio: «Kipling era razzista quando scriveva del “peso che portano i bianchi”, cioè della missione di civiltà che i bianchi avrebbero avuto nei confronti delle altre razze. Ma chi ha mai chiesto loro di assumersi l’onere di questa missione? Gli indù? Meglio non prendere su di sé ruoli messianici. Le persone dovrebbero studiare sé stesse invece di insegnare agli altri la “vera” civiltà».

Che epitaffio vorrebbe sulla tomba? «Tolleriamoci gli uni gli altri. Non cercare di cambiare gli altri, ma cambia te stesso. Questo è cristianesimo e Islam insieme».

giovedì 21 gennaio 2010

"Sull'ampio confine". Storie di cristiani nel Caucaso

Un libro per capire una delle regioni più conflittuali del pianeta. Per leggere storie di cristiani che vivono la loro fede con impegno, talvolta nella paura, in ogni caso solidali con la loro gente.

Ho vissuto anche qualche avventura nel Caucaso, come quel 21 agosto 2008 , ancora in pieno conflitto russo-georgiano; mi trovai a varcare i numerosi posti di blocco dell'armata di Mosca al seguito di un convoglio della Caritas Georgia, per portare un po' di pane alla popolazione di Gori, la città natale di Stalin, occupata dalle forze provenienti dall'Ossezia meridionale. Bernard Henri-Levi, aveva appena scritto un reportage, rivelatosi incompleto e per certi versi anche falso, sull'occupazione sovietica della città, nella quale non era penetrato, contrariamente a quanto scritto. La realtà era diversa. Drammatica ma ben diversa.
Avventure, quindi, ma soprattutto incontri e visite: visite a luoghi meravigliosi e drammatici, incontri con gente ricca di umanità, di ogni etnia, età, estrazione sociale, cristiani soprattutto ma non solo...

Per i tipi di Città Nuova esce oggi un libro - Sull'ampio confine. Storie di cristiani nel Caucaso - che ho scritto in quattro anni di viaggi nel Caucaso. Ho percorso sia la regione transcaucasica (quella a sud: Georgia. Armenia e Azerbaijan, con le enclave del Nagorno-Karabakh, dell'Abcasia e dell'Ossezia meridionale), sia, assieme al collega portoghese Eduardo Guedes, la regione ciscaucasica (quella a nord: Cabardino-Balcaria, Ossezia settentrionale, Inguscezia e Cecenia).

Nel libro, cari amici che "passeggiate" nelle pagine di questo blog perennemente in movimento, troverete un resoconto di viaggi, dunque, ma anche tante storie, quelle della gente che ho incontrato in una delle zone strategiche del pianeta in cui la frammistione delle etnie, delle tradizioni e delle religioni è più intricata. Il tutto complicato dal disfacimento dell'Imperium sovietico e dall'emergere della Russia di Putin. Senza dimenticare gli interessi di altre potenze regionali o delle altre grandi potenze mondiali.

Buona lettura!








mercoledì 20 gennaio 2010

Sulla tomba di Craxi


Impressioni di una visita ad Hammamet, dell'ottobre 2007. La medina, il suq, l'azzurro del mare e quello delle imposte delle finestre...

Hammamet, un nome che per noi italiani è ormai indissolubilmente legato a colui che più d’ogni altro incarnò la stagione delle follie di tangentopoli: il Bettino Craxi nazionale che qui visse in contumacia – anche se lo statista preferiva parlare di esilio –, morì e fu sepolto. Pace all’anima sua, mentre il suo corpo riposa addossato alle mura della medina, sovrastato dal tricolore, nel piccolo cimitero cristiano che gode della musica delle onde del mare.

Ma Hammamet è anche altro, fortunatamente, visto che la città dà il suo nome al vasto golfo che scende fino a Monastir, la regione con le più belle e più bianche spiagge di Tunisia, tra le più incantevoli del Mediterraneo. Una città di mare, sabbia e pietra. Da qualsiasi lato la si prenda appare tale. Ma presa da terra Hammamet si svela miseramente come una qualsiasi città maghrebina un po’ trascurata, talvolta pretenziosa, talaltra assolutamente kitsch, nel disordine urbanistico tipico delle città dell’Africa settentrionale. Dal mare, poi, le fortificazioni della medina appaiono solo all’ultimo istante nella striscia verde di palmizi, ficus e olivi secolari, senza poter essere gustata dalla vista, così come dagli altri quattro sensi.

Hammamet va invece presa proprio dal lato del suo massimo fascino turistico, cioè dalla spiaggia. A piedi, rigorosamente a piedi, e da lontano, un’ora almeno di cammino. Perché Hammamet va guadagnata, respirata, ammirata, desiderata e infine sedotta. A un’ora di cammino, nell’arco tracciato dal golfo, la medina si confonde anche qui con la linea verde di separazione tra cielo e mare. Può apparire giusto un grumo ocra sulla linea continua della vegetazione. Il mare è allora più importante, e così il cielo, che nella mezza stagione assumono l’identica tonalità, quando il sole s’incaponisce ad avvolgere cose e persone. Ma anche quando il grigiore delle nubi si specchia e si tuffa nelle acque mosse del golfo.

Cammina cammina. Ben presto gli stabilimenti balneari scompaiono, perché la spiaggia si restringe; o, meglio, perché la sabbia sul bordo del mare è stata inglobata nei giardini lussureggianti delle ville dei potenti, tunisini e stranieri, famiglia Craxi in testa. I gradini che dalla spiaggia introducono a questi paradisi protetti da muri sono dipinti di bianco: quello immacolato della calce appena distesa sui mattoni; quello butterato dall’umidità e screpolato dal calore; e quello ormai confuso col color della sabbia e dei mattoni di sabbia. Gradini mai squadrati, mai a piombo, con angoli e spigoli arrotondati dalla calce misericordiosa, che li muta così in accoglienti ricettacoli della sabbia sospesa nell’aria e catturata dal fascino di quelle forme aggraziate.

È d’uopo passeggiare di mattina, presto, quando la frescura si trasmette dalla sabbia ancora compatta fino ai neuroni in cerca di lucidità e serenità, e lo sguardo può ancora spaziare leggero prima di affogare nel vapore pesante della calura. Il golfo allora pare un abbraccio della terra al mare, il tentativo fallito di contenerlo in uno slancio di filosofia universale che sfocia invece in accettata soteriologia. Pare un unico, sottilissimo gradino che dice alle acque di fermarsi, con grazia ferma, per accettare la loro liquidità definitiva, sopportare il limite della solidità della terra e dei mortali.

Un tè alla menta, seduto al caffè della rotonda, mentre i pescatori e le loro barche vengono assediati dai mattinieri tunisini in cerca di prelibatezze ittiche e allorché la brezza dell’Ovest scuote le acque del golfo, è un approccio quanto mai esistenziale ed efficace ad Hammamet. La medina, il suq, le imposte azzurre, le donne in nero, i venditori arrapati, la tomba di Bettino, le imposte dei bagni turchi dipinte d’impossibili colori, le bandierine tunisine e la facciotta leggermente inclinata di Ben Alì che festeggia i vent’anni di permanenza al potere, i gatti magri e spelacchiati, il mercante di fiori dipinti che sembra disegnato da Klee, le buche nelle strade, l’alcol vietato nei bar… Tutto ciò è secondario.

martedì 19 gennaio 2010

Un'altra tragedia nelle Filippine


Pochi hanno saputo, tutti presi come siamo dalla tragedia di Haiti, che a Manila si è consumata un'altra tragedia. A Baseco un incendio ha distrutto un'intera baraccopoli, lasciando senza tetto circa quattromila persone. Riporto le note della visita, nel marzo 2006, ad Intramuros, al di là della baraccopoli...

Fa una certa tenerezza visitare Intramuros, cioè il vecchio centro della città di Manila, delimitato da una cinta muraria assai scura per l’umidità (ed ora circondata da un esclusivo campo da golf, che ha preso il posto del vasto fossato-canale che la circondava), a protezione di qualche edificio in stato di semi-abbandono, almeno apparentemente: prigioni (quella dove è stato detenuto l’eroe nazionale José Rizal), l’abitazione (di José Rizal), il monumento (di José Rizal), il museo (di José Rizal), il diaporama (di José Rizal)… Non c’è nulla da ridere né da sorridere, perché i filippini qui trovano le loro radici - anche quelle coloniali -, le loro origini religiose e quelle politiche.

Da una terrazza si guarda verso il fiume Pasig, che trasporta immondizie d’ogni genere assieme ad isolotti di vegetazione aggrovigliata, portati chissà da dove. Oltre il fiume si scorgono quartieri di baracche, tirati su dai pescatori e dai marinai, e il quartiere cinese, che i filippini non hanno mai voluto integrare completamene nella città.

La cattedrale ospita un matrimonio, fiori a profusione, musiche solenni ed occidentali, vestiti di gran classe (almeno in apparenza). La facciata è architettonicamente modesta, ma qualcosa di accattivante ce l’ha comunque, una civetteria coloniale, direi. Più in là sorge invece la più antica chiesa di Manila, Sant’Agostino, che ospita anch’essa un matrimonio, ma meno sfarzoso, più modesto, coi mendicanti ch sono ammessi fin sul sagrato. La facciata, pur scurita e imbolsita dall’umidità, ha una sua forte dignità, giocata tra l’austerità e l’allegria. Eredità indubbiamente spagnole.

Accanto alla chiesa, poi, hanno restaurato alcune vecchie abitazioni coloniali, della stessa epoca, trasformate in musei e boutique e ristoranti. In un magnifico cortile si svolge un terzo matrimonio, celebrato dal sacerdote, anzi dalla sacerdotessa, di una qualche setta evangelica, tra una giovanissima e splendida filippina e un maturo uomo occidentale, forse un tedesco, di certo oltre la sessantina. I filippini sono semplici e talvolta ingenui, se non leggeri, per loro stessa ammissione. Salgo gli scoscesi e scivolosi gradini che portano vers una serie di terrazzine che danno sul cortile dove si sta celebrando il matrimonio, un ricco matrimonio a giudicare dall’abbigliamento della gente (la sposa è vestita da Christian Dior). Gradini consunti e mal restaurati, si vede lontano mille miglia dai materiali diversi usati. Ma arrivati in cima alle scale, ecco che si apre la vista della città, incostante, intrigante a modo suo, bella secondo chi l’ama, in ogni caso piena di contraddizioni, baracche e grattacieli.

Poi il lungomare, altri monumenti di Rizal, l’eroe pacifico e forte, l’oceano, la madre delle 7100 isole che compongono l’arcipelago delel Filippine.

lunedì 18 gennaio 2010

Ucraina in bilico


Il primo turno delle elezioni presidenziali in Ucraina ha dimostrato quanto il Paese sia ancora diviso tra filo-russi e indipendentisti. Una serata all'Opera di Kiev è una metafora della situazione politica. Visita sul luogo del febbraio 2009.

Serata all’Opera Nazionale di Kiev, memore di fasti pre e post-sovietici, nota soprattutto per il balletto classico. Qui la Fracci e la Cosi si sono esibite come étoile, con grande successo. Qui il sovietismo ha portato frutto, ha creato meraviglie sceniche e ha coltivato voci di grande bellezza.

È un perfetto punto d’osservazione quello dell’entrata all’Opera. Si scorge il popolo e l’aristocrazia, pellicce e giacconi da scaricatore, scarpe di capretto tirate a lucido e scarpe da ginnastica sfondate. Ci sono bambini melomani e donne con maquillage che paiono impalcature; intellettuali di mezza età in vena di carinerie con le ragazzine e maschi latini che portano nel bel mondo le loro prede.

L’interno del teatro non è cambiato di un pelo da cent’anni in qua. Hanno solo cambiato il velluto rosso porpora delle poltroncine, sebbene queste vivano e si nutrano ancora di polvere. Mentre le decorazioni sono antecedenti al periodo leninista, più simili a quelle dei teatri di Vienna che non di Mosca o San Pietroburgo. L’atmosfera non è delle più leccate – viene rappresentato il verdiano
Ballo in maschera –, ma ha un suo cachet, quasi una sua vena di raffinata normalità che, non lo nego, ha un suo fascino sottile.

Accanto a me è seduta un’intera famiglia – padre, madre, tre figlie, una zia – che pare essere composta solo da melomani. La figlia più piccola, una biondina tutto pepe che siede proprio nella poltroncina accanto alla mia, pare conoscere a memoria ogni passaggio dell’opera verdiana, tanto che spiega alle sorelle maggiori i passaggi più complicati della di per sé complicata trama del libretto di Antonio Somma. Con le dita, tamburellando sulla poltroncina dinanzi a lei, finge di suonare il piano. Il ritmo è perfetto.

Ma la sorpresa più inattesa – o forse nemmeno tanto – si presenta all’apertura del sipario. Sì, perché le scene dipinte dallo scenografo paiono una perfetta rappresentazione del neoclassicismo dell’impero brezneviano. Con il dettaglio perfido che le colonne sono pendenti, i soffitti sbilenchi, le prospettive semplicemente sbagliate. Ad arte. Operazione sapiente, senza dubbio, che svela l’indubbia perizia dello scenografo. E la sua nostalgia che s’evapora con lo sciamare degli spettatori alla fine della recita verso i tassì e le grandi suv che anche qui certificano il trionfo, momentaneo si spera, dello sregolato capitalismo alla Putin-Bush-Schroeder.

domenica 10 gennaio 2010

Corea, l'indipendenza e il genocidio


Visita alla Independence Hall of Korea, a Mokcheon, nel centro del Paese del calmo mattino. La lunga lotta di liberazione contro l'invasore giapponese, all'epoca autore di efferati delitti.

Non ci si aspetterebbe proprio di trovare, nel centro del Paese, a Mokcheon, vicino alla città di Cheonan, un complesso museale come quello della Independence Hall of Korea, il Museo dell’indipendenza. La scelta del sito non è tuttavia casuale. Qui infatti ebbe inizio il “Samil Movement”, una grande ventata popolare alla ricerca dell’indipendenza del Paese dagli occupanti giapponesi, il primo marzo del 1919: vi partecipavano intellettuali e contadini, militari e politici, un popolo intero, insomma.

Nevica, fa freddo, tutto è ghiacciato, i capitomboli sono frequentissimi, ma le scolaresche e le famiglie in visita sono tante: passano da un padiglione all’altro con compostezza ma anche con serenità, quella che viene riassunta in qualche modo nel nome stesso “Corea”, che vuol dire in effetti “Paese del calmo mattino”. L’accoglienza del museo è suggestiva: due enormi lance parallele a sfidare il cielo: si tratta del “Monumento alla nazione”, che non simboleggia in realtà qualcosa di bellico, ma anzi di estremamente pacifico come due mani – alte 51 metri – che si congiungono nella preghiera o come due ali d’uccello pronte al volo verso il cielo. In prospettiva si nota una grande costruzione che appare un tempio e la cima del monte sovrastante, lo Heukseong. La costruzione in realtà non è votiva, ma è la “Grande sala della nazione”, simbolo del museo: la nazione come la casa di una grande famiglia. Tra l’altro, la costruzione ha introdotto una nuova tradizione architettonica, il tetto alla Matbaejibung, che ha due sole calate, chiudendosi lateralmente con due perfetti triangoli. La hall ospita una enorme statua agli “Indomabili coreani”, che per 5 mila anni avevano sostanzialmente mantenuto la propria indipendenza, prima della tragica stagione del colonialismo giapponese.

Appunto, la stagione dal 1919 al 1945, quella che vide il dominio del Sol levante sul Calmo mattino è la stagione celebrata in questo grande museo. Una stagione che molti storici, non solo coreani, considerano quella in cui i giapponesi hanno perpetrato nei confronti del popolo coreano un vero e proprio genocidio. Qualcosa come 500 mila morti. E milioni di profughi, soprattutto in Manciuria e in Indocina. Non a caso nei padiglioni del museo – organizzato con estrema perizia e inventiva, con migliaia e migliaia di foto, documenti, oggetti, dipinti, rappresentazioni sceniche a misura d’uomo – si ripercorrono cronologicamente le grandi tappe della storia coreana per arrivare alla rievocazione delle più efferate violenze e delle torture inflitte dall’occupante giapponese al popolo coreano, fino alla liberazione del 15 agosto del 1945. Senza dimenticare, ovviamente, la ferita che si è aperta con la susseguente guerra di Corea, che dal 1950 al 1953 riportò la violenza e la disperazione nel popolo, fino alla separazione traumatica tra le due Coree. Separazione che è una ferita ancora sanguinolenta nel cuore di ogni coreano, nell’unico Paese al mondo che ancora vive separato in due parti. Non a caso, in chiusura del giro del museo, ecco che ci si trova di fronte ad un altro ardito monumento, il “Monumento alla riunificazione” che ospita un grande arco, o piuttosto di arcobaleno, e una enorme campana, la “Campana per la riunificazione”, che pesa la bellezza di otto tonnellate e mezzo per tre metri d’altezza. Il giorno della sospirata unità nazionale verrà suonata. Non prima.

Al termine dell’affascinante percorso museale, in cui ho superato con cautela centinaia di gradini innevati, incrociando gli sguardi di mille e mille persone piene di orgoglio nazionalista, ma anche temprati da decenni di separazione e desiderosi solo di pace e riunificazione, penso alla storia scritta dai vincitori, una storia poco credibile, perché racconta avvenimenti unilateralmente. I coreani hanno subito un genocidio? Lo credo. Ma alla fine del tunnel c’è sempre la riconciliazione, che dovrebbe portare anche alla riscrittura della Storia. Un piccolo monumento all’esterno del museo costruito dai giapponesi vuole proprio ricordare la necessità di una profonda umiltà della Storia e soprattutto dei protagonisti della Storia stessa.

sabato 9 gennaio 2010

DMZ, la paranoica linea che divide la Corea in due


Visita ad una delle zone più drammaticamente conflittuali del mondo intero. Mentre la dittatura nordcoreana tiene il mondo in sospeso con la sua minaccia atomica.

Seduto a riscaldarmi (fuori il gelo ha raggiunto i 12 gradi sotto zero) in un ristorantino sulla frontiera meridionale della zona demilitarizzata, di fronte al largo fiume gelato Imjin-gang e dinanzi a un ponte distrutto durante la guerra di Corea e ricostruito a duecento metri di distanza ma inutilizzato perché va verso Nord, rifletto sulla guerra. Anzi, sulla paranoia della guerra. Sono appena tornato da un giro nella DMZ (Demilitarized Zone): così i coreani del sud chiamano familiarmente la zona demilitarizzata, per loro un incubo, un orizzonte, un esame di coscienza perenne, oltre che una speranza lontana. Più precisamente mi sono recato a Panmunjom, nella JSA (Joint Security Area), la metà meridionale della “zona comune di sicurezza”, il luogo dove la DMZ, lunga 241 chilometri, sostanzialmente lungo il 38° parallelo, e larga 4 chilometri, si restringe fino ad una ventina appena di metri di larghezza, la misura di cinque baracche militari – tre azzurre e due grigie – nelle quali hanno avuto luogo gli incontri della MAC (la Military Armistice Commission, i militari amano le sigle!), sebbene in modo saltuario, per via delle alterne vicende e degli alterni umori che si vivono soprattutto nella Corea del Nord e del suo dittatore Kim Jong Il.

È stata evidentemente paranoia la guerra del 1950-1953, di cui l’attuale emergenza nucleare non è che una delle tante logiche conseguenze. È paranoia il doppio muro di filo spinato che spacca in due il “Paese del calmo mattino” e che sicuramente la stragrande maggioranza delle due parti della Corea detesta e vorrebbe che fosse abbattuto. C’è un progetto, o forse solo un sogno di tanti, a Sud come a Nord: che la DMZ, una volta ridonata al pubblico calpestio e terminata la necessaria bonifica dalle innumerevoli mine sparse lungo di essa, diventi un grande e originale parco nazionale, con un lungo sentiero che possa così unire il Mar di Corea con l’Oceano Pacifico, ricordando nel contempo proprio la paranoia della guerra.

Si va in visita turistica, si proprio così, nella DMZ, e questa già di per sé è una buona novella, perché ciò significa che la tensione tra le due parti è sopportabile. Certo, ogni visita può essere interrotta in ogni momento e raramente il tour alla fine risulta completo, perché per il minimo sussulto che viene dal Nord, anche un sospiro del dittatore malato, anche un dispaccio di agenzia su un presunto esperimento nucleare, ecco che tutto si blocca. La tensione è reale, in effetti. La tensione si tocca e si vede, la si avverte nei gesti secchi dei soldati della forza d’interposizione delle Nazioni Unite, l’UNCMAC, la si coglie nella rigidità assoluta delle procedure della visita stessa. Diciamo pure la paranoia, non la tensione. Come mai i coreani sono sottoposti a questa prova infinita del vivere costantemente sotto la spada di Damocle della bomba atomica, , della dittatura, della separazione “dia-bolica”? È una sfida e un mistero, che taluni speravano si svelasse vent’anni fa, con la caduta dell’Unione Sovietica e quella del Muro di Berlino. Ma non è stato così, per il fatto che il comunismo asiatico non è il marxismo-leninismo all’europea. È altro, come conferma l’attuale deriva capitalistica di alcuni di questi regimi, come quello cinese o quello vietnamita. Nel 1989 non è poi successo nulla, né nel 1990, nel 1995, nel 2000 e nel… 2010!

Il breefing nella sala d’incontro della JSA, alle cui pareti pendono delle immagini in bianco e nero del conflitto di sessant’anni fa, con gli orrori e le perfidie di ogni guerra. Il racconto che lo speaker di turno ci propone è quello di una cronaca di divisioni e di odio, maturata all’interno di uno stesso popolo, quindi coi contorni di una guerra civile, ma sotto le spinte contrapposte di giganti vicini e lontani della geopolitica di allora.

La visita più interessante si rivela certamente quella alle baracche militari azzurre – ad una sola a dire il vero, quella centrale –, che sono state deposte dalla diplomazia internazionale in questo strettissimo passaggio ravvicinato della linea di demarcazione che viene marcata da una parte e dall’altra da una sinuosa linea gialla che ha il senso di una diabolica separazione, ma anche di una speranza di pace, perché in questa baracca almeno qualcosa di buono la diplomazia è riuscita ad ottenere: ci si parla, a singhiozzo, ma ci si parla. La sala dei negoziati in fondo non è altro che una casamatta militare senza molto interesse. Si può farsi fotografare accanto alle belle statuine dei soldati Onu, ma non giragli attorno o rivolgersi loro con affetto o con rigetto.

Oltre le baracche azzurre si scorge un unico soldato nordcoreano, impettito a guardia di un edificio brutto e cadente, chissà da quanto non restaurato, cui è stato dato il nome di Panmun-gak, che vuol dire “padiglione dell’accoglienza”. Contrasta non poco con gli edifici della metà meridionale della JSA, di vetro, cemento e metallo, originali e anche ben congegnati dagli architetti, soprattutto la Freedom House, la casa della libertà. Paranoia nella paranoia, noi turisti siamo invitati a salire su una piattaforma che sembra un tempietto da dove – per tre minuti d’orologio, senza nemmeno un secondo di prolungamento – ci viene generosamente concesso di scattare tutte le foto che vogliamo (ma non ci sono concessi obiettivi superiori ai 100 millimetri…). La cosa più buffa è che ci tocca salire come militari, in fila per due, e su un percorso assolutamente scivoloso tanto è gelato!

mercoledì 6 gennaio 2010

L’Estremo Oriente e la crisi dell’Europa


Viaggiando tra Paesi in vertiginosa crescita economica, viene da riflettere sulla grave situazione economica, culturale e sociale che vive il Vecchio continente. Bisogna aprirsi per sopravvivere.

Ciò che stupisce nello sviluppo della Cina di questi ultimi decenni è l’incredibile vitalità che i cinesi riescono a mantenere in patria e fuori dai loro confini. Pensano in grande e pensano in fretta. Anzi, agiscono in grande e agiscono in fretta, arrivando solo ed eventualmente in un secondo momento a razionalizzare i loro comportamenti. È inutile pensare che i cinesi abbiano strategie commerciali e politiche a lungo termine: i loro obiettivi sono tutti a breve termine – tranne uno, conquistare il mondo –, e questo li rende duttili nelle loro scelte e quindi capaci di adattarsi in brevissimo tempo ai cambiamenti. Ciò viene confermato dal fatto che in fondo il corpus legislativo cinese è ancora di dimensioni molto ridotte, senza che tuttavia ciò provochino soverchi problemi. In fondo il business cinese è libero dai lacci e laccioli che legano il business europeo e, in misura minore, quello statunitense. Poche leggi, gestite invece da un esecutivo dalla vastissima libertà d’azione (Berlusconi sogna!), e dalle incredibili capacità propositive e repressive. Un governo che non va troppo per il sottile quando si tratta di reprimere o, al contrario, di promuovere movimenti sociali, attività capitalistiche, riforme sociali. A Pechino questa Cina si eleva come si alzano grattacieli
Penso a tutto ciò nell’aeroporto di Pechino, in attesa di partire per la Corea. È il quarto Paese d’Estremo Oriente che mi trovo a visitare in questo passaggio d’anno. Un mondo, è quello che sto visitando, che ha impresso un’accelerazione straordinaria all’economia internazionale. Sta cercando di trasferire anche in campo culturale e politico questa sua potenza creatrice, ma fa una certa fatica, assai più di quanto non sperimenti nel business. In questo senso l’Europa potrebbe dare un contributo straordinario all’intero sistema mondiale; se solo riuscisse a parlare con una voce univoca; se solo non pensasse di avere una netta superiorità culturale sulle altre civiltà del mondo; se solo non relegasse la religione ad accessorio del laicismo; se solo potesse immaginare che altre forme di gestione del potere, oltre alle nostre democrazie parlamentari (e mediatiche) potessero essere lecite, e anzi migliori della stessa democrazia in contesti diversi dal nostro; se solo non riducesse il pensiero ad una serie di “ismi” senza futuro. L’Europa sta morendo di scarsa natalità e di incertezza di pensiero e di azione. Per paura tende a chiudersi a riccio, pensando così di difendere le proprie prerogative e la propria ricchezza, oltre alla propria presenza altezzosa nello scacchiere mondiale. Demonizza chi è diverso da sé e non è capace di capire che invece dovrebbe aprirsi allo straniero, e che nell’apertura stessa potrebbe trovare la sua salvezza, una via di trasmissione della propria cultura, della propria civiltà, della propria grandezza. È riconoscendo la propria debolezza, la permeabilità delle proprie frontiere, che il Vecchio continente potrebbe salvare la sua propria stessa esistenza. Solo facendosi attenta e recettiva alla diversità altrui, solo mettendosi in posizione di umile disposizione potrebbe far sì che la sua cultura permei, nei suoi migliori valori, le culture che la stanno poco alla volta “occupando” con le loro immigrazioni di operai e contadini, ma in seguito anche di ingegneri, di medici, di informatici, di imprenditori, di intellettuali.
Di tutto questo mi viene da pensare dopo venti giorni trascorsi in queste terre di Estremo Oriente, alla ricerca di quel che si muove nello scacchiere mondiale. Qui tutto si muove, panta rei, qui nascono imprese che invadono il mondo in pochi anni di esistenza, qui si produce molto e si producono cose nuove. Qui si sta spostando la Storia, che non ha più come teatro principale di sviluppo le terre che si affacciano sull’Atlantico, ma quelle del Pacifico. Basta guardare la gente in questi aeroproti, in queste strade, in questi caffè, nei negozi e nelle metropolitane per capire che questa gente ha messo in moto energie enormi, e che ha trovato un modo di moltiplicare le singole forze in una condivisione di intenti reale e realistica. Che sia il business a muovere tutto o quasi è un dato di fatto, così come è certo che esso nasce dalle ceneri di un comunismo che in fondo ha conservato il suo lato totalitario lasciando per strada quello ideologico. Provate a parlare di “rivoluzione culturale” a Pechino o ad Hanoi: la vergogna si dipingerà sui volti dei vostri interlocutori.
Si pensa in grande, quindi, in Cina, in Corea, in Vietnam. Basti osservare lo sviluppo delle città, in particolare l’evolversi delle skyline delle metropoli. Da morire di stupore! Com’è possibile che le architetture più ardite, salvo forse qualche eccezione nei ricchi feudi del petrolio, ormai vedano la luce quasi esclusivamente in questi Paesi di Estremo Oriente? Selve di grattacieli dalle forme più ardite, interi quartieri distrutti e ricostruiti nello spazio di pochi mesi, enormi fabbriche che spuntano come funghi nelle periferie delle metropoli asiatiche. E via dicendo. Nulla sembra loro impossibile, le imprese più straordinarie riescono ad essere portate a termine in tmpi addirittura minori rispetto a quanto ipotizzato. Perché la novità è il motore della creatività della ragione, non la conservazione, non il perpetuarsi delle gerarchie stabilite di un potere che mira solo al mantenimento dei propri privilegi. Così vanno le cose in Estremo Oriente. Certo, lo sviluppo economico impetuoso degli ultimi decenni porta con sé disuguaglianze, ingiustizie, scompensi nella crescita economica tra zone urbane e zone rurali. Ma non si può concentrarsi su questi scompensi, denunciarli con la puzza sotto il naso senza vedere quel che invece funziona, senza rendersi conto di quel che l’Estremo Oriente crea. Siamo ad un bivio, ormai.

lunedì 4 gennaio 2010

Hanoi, la città che inventa i colori



Quattro passi nella capitale vietnamita, una città che sa creare un ambiente adatto all’elevazione dell’anima. Attraverso mille espedienti.

Comincia l’anno cristiano, ma anche ad Hanoi si festeggia alla grande. Una breve vacanza viene concessa a tutti dal governo, anche se totalmente priva di ogni riferimento al Dio fatto uomo: trionfa invece il contrario del mistero, e cioè l’evidenza del possesso. Materialismo. Così vanno le cose in questo mondo che pare voler fare a meno di Dio.

Piove, le strade sono caotiche al limite del blocco totale. Attorno al lago di Hoan Kiem, la municipalità ha organizzato una sorta di festival dei fiori, conferendo involontariamente alla città un po’ di quei colori che altrimenti quest’oggi umido e grigio non avrebbe. C’è folla, folla grande, tanto che è quasi impossibile camminare a un’andatura appena decente. Lo sport degli abitanti della capitale è oggi diventato quello di farsi immortalare coi telefonini dinanzi alle composizioni floreali. Gli stranieri sono quasi assenti, per cui più del solito ricevo le attenzioni della gente e la loro voglia di farsi fotografare assieme a me. Ci sono molti militari, sia a guardia delle “isole floreali”, sia a braccetto delle loro donne. Le loro divise verde abete e rosso scarlatto sono più verdi delle foglie e più rosse delle stelle di Natale.

In mezzo al lago si mostrano un paio di isolotti. Il primo, più piccolo, ospita una irraggiungibile torre grigia e nera, Thap Rua, la torre della tartaruga, certamente potrebbe essere curata meglio. L’altro isolotto, invece, è legato alla terra ferma da una delle più note attrazioni di Hanoi, il “ponte rosso” ad arco che pare voler sfidare la nebbia che sale dal lago e che pare voler avvolgere ogni cosa, ogni persona, ogni avvenimento piccolo o grande che sia. Un arco rosso sul quale grandi e piccini paiono volersi fare immortalare per l’eternità. Oltre il ponte, sul quale è più che complicato farsi largo, c’è uno dei tanti bei templi buddhisti di Hanoi, quello di Ngoc Son, il tempio della montagna di giada, che pure ha una sua storia che si estende dal XIII ai XIX secolo, e che celebra divinità della cultura cinese e di quella vietnamita: all’ingresso una sorta di obelisco è in realtà la rappresentazione di un pennello che serviva «per scrivere nel blu del cielo». Osservo la gente pregare, congiungere le mani almeno. E dubito che il buddhismo sia una filosofia, e non una religione. Il rosso rifulge ovunque, nonostante l’oscurità e la nebbia, malgrado la quasi totale assenza di luce artificiale. La gente prega e l’istante seguente si fa fotografare come se non ci fosse transizione possibile tra l’elemento cultuale e quello ludico della vita. Forse c’è molto da imparare da questa disposizione fondamentale del vietnamita del Nord. Anche se può sembrare irriverente, lo stesso fervore religioso lo trovo nella cattedrale cattolica, dedicata a San Giuseppe, a due passi dal lago Hoan Kiem, quest’oggi gremita di gente, è Capodanno e bisogna festeggiare adeguatamente. La gente vietnamita, nonostante i tanti anni di comunismo, nonostante l’invito ad un atteggiamento ateo, non ha potuto perdere il fondo naturalmente religioso del proprio pensiero e del proprio animo.

Proprio a nord della cattedrale, si apre la città vecchia di Hanoi, il quartiere chiamato “delle 36 strade”, in effetti nient’altro che un grande mercato nel quale convivono le più antiche tradizioni e le novità tecnologiche più spinte, in un miscuglio che conserva un suo indubbio fascino. Così le donne che vendono derrate alimentari – trasportate sui bilancieri più straordinariamente equilibrati del mondo, in un incredibile avanzamento che fa ondeggiare i pesi, permettendo un trasporto meno faticoso della merce – si alternano ai negozietti di computer e alle boutique di profumi all’ultimo grido. Una volta, come indica la toponomastica, le singole strade erano monopolio di questa o quella categoria merceologica, cosa che oggi ormai è un ricordo. Si scorgono tuttavia grumi di venditori di bambù, di abbigliamento, di ricambi per moto. Ogni commerciante cerca di attirare l’attenzione degli acquirenti potenziali, stranieri ma non solo, grazie all’esposizione il più possibile colorata della merce, con pigmenti naturali ma anche col supporto di schermi, iscrizioni, prodotti che di naturale hanno poco o nulla. Ne viene fuori un impressionante mix di colorazioni della realtà, che il grigiore del cielo non riesce certo a cancellare.

Il gioiello architettonico di Hanoi è però indiscutibilmente un tempio dal nome più che originale: il Tempio della letteratura. La sua storia lo spaccato della vicenda umana, politica e spirituale dell’intero Vietnam: eretto nel 1070 in onore di Confucio dal re Ly Thanh Tong, e poi modificato dai suoi successori. Fu “collego dei figli della nazione” e “casa dell’istruzione, fino a diventare “tempio della letteratura”. Ho appena finito di pranzare nella sala di un ristorantino “sospesa” sul luogo sacro: un festival di sapori forti, di verdure riunite in bouquet d’un verde ammaliante, di fondute di carne frutta spezie che non appesantiscono, ma al contrario esaltano la vitalità, col contributo finale del caffè alla vietnamita, denso di umori e gonfio di caffeina, una delizia. Con queste disposizioni favorevoli, la visita al Tempio dell’arte del leggere non può che essere “confucianamente” straordinaria. A cominciare dalla visione delle quattro vasche ingentilite dai fiori di loto, che accolgono il pellegrino-visitatore-turista invitandolo alla meditazione, all’armonia, alla pace dell’anima. Una vasca più grande, poi, “protetta” dalle insegne del Vietnam e della municipalità di Hanoi invitano a comunicare i propri sentimenti spirituali, culturali e letterari ad una lunga serie di steli appoggiate su 82 sculture di tartarughe che hanno un significato profondo: la natura perenne del sapere. Cerco di catturare il più vero senso di tali sculture scattando foto che però restano grigie, scure, senza vita, finché una bambinetta non si mette a cavalcioni della testa di pietra di uno di quelle tartarughe. E allora il suo sguardo furbo e la giacca a vento verde pisello e giallo canarino trasmettono la bellezza della bellezza, l’armonia della lettura e della vita. Segue la perla del tempio: il Van Mieu. Il legno delle quaranta colonne istoriate la fa da padrone sulla scena: rosso e di preferenza laccato, ma anche scuro e venato di naturalità e verde dei bonsai che punteggiano ogni luogo, creando mini- universi di stucchevole bellezza e di perfetto equilibrio della massa dei colori, delle forme, della sostanza. E ci sono pure i tetti a sfidare la verticalità e l’orizzontalità dell’equilibrio confuciano. Le ardite pendenze dei tetti, ingentiliti e resi sfrontati di coraggio estetico dalle decorazioni – sostanzialmente dei dragoni sinuosi e fiammeggianti che interrompono la regolarità delle linee dei tetti – trasmettono al filosofo deambulante il senso della necessità della mediazione tra Cielo e Terra. Sono i colori delle tegole – rossi gialli verdi, come sbagliare qui in Vietnam? – che annunciano l’assoluta distanza tra umano e divino, ma anche la imperativa necessità di una mediazione. Cos’era l’imperatore se non un mediatore? Troppo sbilanciato verso Terra, però. IL Cristo era atteso anche in queste terre indocinesi.

La visita ad Hanoi non può non trovare il suo termine e il suo completamento in quello che è il luogo massimo della “fede comunista alla vietnamita”, che non è certo marxismo-leninismo all’europea, né socialismo reale alla sovietica, nemmeno il collettivismo contadino alla cinese. È solo “comunismo vietnamita”, quello che ha il suo indiscusso iniziatore e leader in Ho Chi Minh, il “grande traghettatore”, lo “zio” di ogni vietnamita. In fondo anche i cattolici riconoscono la sua importanza nel processo di liberazione del Paese dai vari colonialismi, anche se certamente non sono poche le sue colpe storiche, le sue dimenticanze, i suoi vari momenti di debolezza e meschinità. Così è della storia. Ho Chi Minh è imbalsamato, reso alla sua gente nelle forme di un corpo preservato dalla distruzione dall’opera di sapienti esperti di chimica che ogni anno, per un paio di mesi, rifanno il maquillage alla salma. Il suo mausoleo, costruito con marmo di Danang, in puro stile moscovita-comunista sta al centro di un’ampia spianata in cui si svolgono le grandi manifestazioni del regime. Sta, annunciata da sette rosse bandiere comuniste, e accompagnato poi da altrettante bandiere vietnamite. Al centro una falce e martello, prima, e poi una stella, simboli gialli su sfondo rosso acceso. I soldati di guardia al mausoleo sembrano particolarmente impettiti e incorruttibili; ma, non appena capiscono di essere al centro del mirino dell’obiettivo della macchina fotografica, ecco che s’aprono in un sorriso che fa piacere a vedersi. Ancor più quando nell’inquadratura entrano due donne, protette dal classico copricapo a cono rovesciato dei vietnamiti, che curano dei grandi vasi di fiori gialli, più gialli delle stelle e delle falci e martello. E non può non far piacere che la vena iconoclasta abbia risparmiato proprio sul retro del mausoleo e di fronte all’immenso museo di Ho Chi Minh, il più piccolo tempio buddhista che esita in Vietnam, un piccolo edificio ligneo di culto buddhista sostenuto da una sola colonna, che una volta era di legno ed ora anche di cemento. La vicenda di Davide e Golia si ripete per l’ennesima volta, anche qui in Indocina.


venerdì 1 gennaio 2010

Dai montagnard di Kon Tum


Nell'altipiano centrale del Vietnam c'è un insolito concentrato di etnie non vietnamite, che la tradizione ha voluto classificare come "gente della montagna". Ma venivano dal mare... Bellezze e miserie di una vita grama.

Kon Tum è famosa in tutto il Vietnam per la presenza massiccia nella regione dei cosiddetti montagnard, cioè di popolazioni che abitano o abitavano la montagna, nella quale vivevano in modo quasi primitivo, praticando la rotazione dei campi (non delle colture) e l’incendio delle terre messe a riposo, che praticano una vita sociale assai naturale, coi loro riti e i loro culti. La loro origine è discussa, ma sembra che ormai ci si accordi sulla loro origine polinesiana, come testimoniano anche la morfologia della loro figura.
Sono stati oggetto d’infinite persecuzioni, la più antica delle quali sembra sia stata nelle stesse isole, da cui furono espulsi. Poi giunsero sulle coste vietnamite, dalla quali pure furono cacciati, costretti quindi a rifugiarsi nelle montagne, dove vivevano in forme associative assai originali, quasi di indipendenza da valle a valle. Negli ultimi decenni, poi, i montagnard sono stati spogliati delle loro terre, sfruttando il fatto che non avevano documenti e non potevano provare che quella terra apparteneva a loro. Ora pare che la situazione sia un po’ migliorata, ma ancora non si può star tranquilli.

La grande chiesa di legno di Kon Tum sembra un’assoluta incongruenza in quest’altipiano vietnamita in cui peraltro le abitazioni tradizionali stanno purtroppo per essere scalzate dall’orrido cemento di queste parti, mentre legno e bambù restano preda delle termiti, così come si trovano in natura. O, al massimo, vengono usati per cucinare. La chiesa di legno, anzi la “basilica”, è la testimonianza, assieme al seminario – oggi seminario minore – di una grande stagione di evangelizzazione della regione, ad opera in particolare dei missionari francesi delle Missions étrangères de Paris. Correva il 1919. Si affermò così da queste parti uno strano stile alpino-coloniale che, in fondo, non ha prodotto solo brutture…
Ed è attorno a questa chiesa, soprattutto alla “basilica”, che si riuniscono per le feste comandate, Natale in particolare, migliaia di montagnard, carichi della loro povertà e della loro indomita fierezza. Portano i loro volti che tradiscono le origini polinesiane, la loro pelle troppo scura per essere amata dai vietnamiti, portano le loro corporature tarchiate anche se in fondo magre, non si sa se per motivi genetici o di stenti. Portano i loro volti dai grandi occhi scuri.
Accanto alla basilica è stato costruito un orfanotrofio per i figli più sfortunati delle tante etnie che vengono semplicisticamente unite nel termine montagnard. Non solo gli orfani veri e propri – una volta perché i genitori morivano vittime della repressione governativa, poi per le gravi deficienze sanitarie di queste etnie sempre cacciate dalle loro terre –, ma anche per i piccoli abbandonati dal padre rimasto senza moglie che desidera risposarsi e che perciò ritiene più confacente al suo nuovo status l’abbandono della prole avuta con la precedente consorte. Sottosviluppo culturale, certamente; ma anche il risultato di una ininterrotta catena di sfruttamenti e colonialismi e quasi-genocidi di cui i montagnard sono stati vittime nei secoli della loro storia di sconfitti. Irriducibili sconfitti della storia, scritta come sempre dai vincitori di turno. I montagnard non hanno mai vinto.
Qui in Vietnam il principale mezzo di locomozione non è la bicicletta, come una volta, e non è ancora l’auto, perché l’economia del Paese non è ancora in grado di sostenere una motorizzazione di massa su quattro ruote. Sono le motociclette di cilindrata tra i 50 e i 150 centimetri cubici che invadono le strade delle città e sempre più anche delle campagne. Così quest’oggi con la mia fedele guida a Kun Tum, affittiamo due motociclette con autista per partecipare ad un paio di feste che si stanno svolgendo nei villaggi all’esterno della città. Abitati in cui vivono i montagnard, che hanno lasciato le valli più impervie verso il Laos e la Cambogia, che da qui distano una sessantina di chilometri appena.
Il governo ha costruito per loro la “casa madre”, cioè il “centro sociale”, le altissime abitazioni a palafitta ad un solo livello, ma con un tetto arditissimo che si alza verso il cielo per una ventina di metri, come un’immensa spatola ricoperta di foglie di bambù e banano intrecciate. In questo locale, che ora serve come luogo di riunione e di educazione, una volta i giovani maschi del villaggio che avevano raggiunto la maggiore età dovevano riunirsi lì e abitarvi fino al matrimonio, mentre le ragazze potevano rimanere nelle case della famiglia. Oggi in questi villaggi, accanto a questi “centri sociali di comunità”, quasi sempre si erge una chiesa di legno, perché i montagnard sono in massima parte cristiani, sostanzialmente cattolici. Non sono mai stati buddhisti: solo ora il governo vietnamita parla di duemila montagnard che avrebbero abbracciato la religione buddhista.
Oggi dunque seguiamo il fiume, in uno scenario di rara bellezza, dai verdi cangianti, dalle risaie di un verde nascente che commuove, dalla vegetazione che pare voler avvolgere ogni cosa col suo manto di madre e, talvolta, di matrigna. La polvere sospesa nell’aria è tanta, penetra in ogni anfratto fa pizzicare occhi e gola. Sulla strada passano donne coi bilancieri, il cappello a punta, oppure con le gerle, giovani a bordo di motociclette zigzaganti, bambini che trovano sempre nuovi trucchi per giocare, vecchi dalla pelle scura e raggrinzita che paiono meditare in ogni istante sulla fine della vita, nell’incertezza del presente.
È festa al villaggio di Kon Jori. Una piccola orchestra rumorosa e rockeggiante spara in aria note globalizzate (anche qui!!!), mentre sul piazzale ai piedi della capanna comune tutto il villaggio mangia e beve in abbondanza. Ingurgita spiedini e verdure grigliate, serviti su foglie di banano, e beve vino di riso succhiandolo da grossi orci da cui spuntano cannule di plastica a chi s’attaccano a turno tutti gli abitanti, uomini e donne indistintamente, ma non i bambini. Vengo invitato praticamente da tutti ad accedere alle loro tavole, ma mi nego, per ragioni di igiene (poveri occidentali che noi siamo, soffriamo di cronica penuria di anticorpi!) e per non fare ingiustizie. Ma accetto di scattare delle foto assieme, questo sì. C’è un’allegria che talvolta diventa euforia, se non addirittura ubriachezza. E pensare che il banchetto è appena cominciato! Come saranno ridotti tra qualche ora i montagnard?
Passiamo da un villaggio all’altro, e le case e la gente e le chiese paiono assai simili. A Kon Ktu il villaggio è posto subito a ridosso del greto del fiume. Anche qui si festeggia. Appena mi vedono, si fanno avanti alcuni uomini che m’invitano a sedere con loro, alla mensa imbandita con gli stessi cibi e le stesse bevande di Kon Jori. Mi fanno sedere tra un giovane uomo e una giovanissima donna: è la loro festa di fidanzamento, e quindi festeggiare per loro con uno straniero è doppia gioia. Il matrimonio, poi, lo celebreranno nella chiesa, tra qualche mese, tra qualche anno, chissa.
M’attardo poi verso la chiesa. In una casa di legno su palafitta, all’interno della veranda, una madre sta stendendo i panni. Sulla soglia della casa una bimbetta che avrà poco più di un anno si siede, appoggiandosi allo stipite. Non sorride, mi guarda mentre mi avvicino per scattarle una foto, fino ad arrivare ad un metro da lei. Non batte ciglio. È di una bellezza fuori dal comune, coi suoi occhioni enormi in cui mi rispecchio mentre le scatto le foto. Allungo la mano, me la stringe e la porta alla sua guancia. Mi odora.