lunedì 27 dicembre 2010

Guglie, campanili e fortezze

A Segovia, nella città che ospitò Giovanni della Croce. In tempi difficili, mirare alle "notti" aiuta a trovare la luce. Visita del 2002.

Posta a mille metri d’altezza, su uno sperone roccioso tra gli avvallamenti creati dai fiumi Eresma e Clamores, circondata in tutto il suo perimetro da alte mura medievali, Segovia si erge imponente, quasi misteriosa nel suo profilo di guglie, campanili, fortezze. Senza saperlo, quasi ogni giorno ne vediamo una stilizzazione qua o là, perché la Disney per il suo logo ha scelto proprio l’Alcázar di Segovia. Insediamento degli areveci, fu conquistata dai romani nell’80 avanti Cristo, come testimonia il sorprendente acquedotto a tre arcate sovrapposte, vecchio di più di due millenni. Una lapide regalata alla città dal comune di Roma, sotto una lupa che allatta Romolo e Remo, ne sottolinea l’autenticità. Nei secoli fu conosciuta anche per la convivenza tra cristiani ed ebrei, a cui fu messa fine nel XV secolo: la sinagoga fu allora trasformata in una chiesa “cattolicissima”, prendendo il nome del Corpus Domini.

Mi avvicino a Segovia avvolto in banchi di nebbia che conferiscono al paesaggio della meseta un non so che di misterioso e ovattato. Fa freddo. A lato della carreggiata si scorgono pietre ordinate, le une sulle altre, a creare muretti divisori, e talvolta piccole ma incantevoli cappelle romaniche, coronate dallo svolazzare di inquietanti stormi di uccelli neri. Oppure pietre disordinate, levigate dal vento, frammiste a querce e lecci di dimensioni ridotte, per via delle intemperie e della calura estiva. Poi, improvvisi, spuntano a interrompere la linearità dell’orizzonte un campanile, poi una cupola, una torre, un tetto aguzzo. E d’improvviso eccola: Segovia, circondata dalle sue mura maestose; Segovia signorile e fiera; Segovia mozzafiato. Una nave, forse un’astronave, o piuttosto un astro. Un patrimonio dell’umanità, secondo l’Unesco.

A Segovia oggi mi metto sulle tracce di Giovanni della Croce, qui sepolto in una grande teca dorata attorniato dagli altri santi e sante carmelitani, dopo avervi trascorso gli ultimi anni della sua esistenza: morì ad appena 49 anni. Aveva incontrato Teresa di Gesù, ad Avila, che dista una cinquantina di chilometri, all’età di 25 anni, quand’ella ne aveva più del doppio. Ma, al di là della differenza d’età, in lui la santa riconobbe colui che le avrebbe permesso di estendere la riforma del Carmelo anche tra gli uomini: «Adesso posso incominciare», disse in quell’occasione.

Il sepolcro del dottore della chiesa si trova nel Monasterio de Carmelitas, ai piedi della maestosa Alcázar, che lui stesso contribuì a costruire con le sue mani. Il luogo è attraversato dalla memoria di tre santi fondatori: il primo è Giovanni di Mata, iniziatore dei trinitari, che acquistò per primo il luogo. Più tardi, visto l’insalubrità del sito, i suoi religiosi l’abbandonarono. A quel momento Giovanni della Croce lo riacquistò, ma per ricostruirlo più a monte, sia per motivi di salubrità, sia perché riteneva che si dovesse creare un luogo più degno, povero ma idoneo alla preghiera e alla vita comunitaria, per i suoi carmelitani. La storia non finì qui, perché dal 1836 al 1875, come si sa, in Spagna furono aboliti gli ordini religiosi. Terminato quel periodo, Antonio Maria Claret desiderò ricomprare il sito per i suoi claretiani. E ora il convento è di nuovo occupato da una comunità di carmelitani scalzi.

A guidarmi nella visita al monastero, padre José Damián che, dinanzi al sepolcro barocco del dottore della chiesa, tutto oro e marmi, mi porta a conoscenza di alcune delle pagine più belle del santo. E mi fa rivivere alcuni momenti significativi della sua vita, a cominciare dai ricordi legati al luogo: Giovanni della Croce scavava con le sue stesse mani le pietre che servivano alla costruzione del monastero, ma non trascurava l’apostolato, che svolgeva soprattutto nel pomeriggio, mentre la sera la dedicava alla contemplazione. Amava in effetti rifugiarsi sulla collina dietro il convento, in compagnia delle pietre, e ammirare fuori e dentro di sé nientemeno che la Trinità. Si racconta che, faceva sera, un confratello gli chiese perché si appartasse al calar del sole, percorrendo un lungo sentiero di gradini di terra, su quell’altura; Giovanni gli rispose che pregava, e che, se lo voleva, poteva accompagnarlo nella sua contemplazione. Ma ben presto quel frate si stancò della pratica ascetica, e chiese di ridiscendere per coricarsi. Cosa che quella volta fece anche il santo, per amore fraterno.

La vita nel monastero era fatta per metà di preghiera e per metà di amicizia fraterna. La vita comunitaria era forte, completa, come testimonia il fatto che nelle serate i frati potevano parlare tra di loro, per un momento di ricreazione comune, cosa assolutamente sconosciuta nei monasteri dell’epoca. Precisa giustamente il nostro accompagnatore che la “negazione” di cui Giovanni della Croce è indicato come il paladino, non era tanto ascetica, quanto mistica: l’amore era per lui la vera “negazione”, non la privazione fine a sé stessa. Non per niente la sua mistica è stata tra le più elevate mai conosciute.

Altro capitolo, quello riguardante gli scritti di Giovanni della Croce: i suoi seguaci presero sin dall’inizio l’abitudine di ricopiarli, per poterli poi meditare. Fu proprio questa continua diffusione che permise di ritrovarne degli esemplari anche dopo che una “persecuzione” nei suoi confronti, scoppiata all’interno stesso del suo ordine, portò alla decisione di distruggere tutto quanto egli aveva scritto. A questo proposito, ammiro in un oratorio accanto alla chiesa un quadro del crocifisso, che Giovanni amava molto, e davanti al quale spesso si ritirava in preghiera. Un giorno il Cristo gli parlò: «Cosa vuoi in cambio per tutto quello che hai fatto per me?», gli chiese. E lui rispose: «Soltanto patire e essere disprezzato per te». Da quel momento iniziò una persecuzione che egli però si rifiutò di definire tale, spiegandola invece così: «Queste cose non le fanno gli uomini, ma Dio per il nostro bene».

Giovanni della Croce era anche, come si sa, un grandissimo poeta. Con i suoi versi parlava di Dio senza nominarlo, usando un vocabolario comprensibile da tutti, più letterario che teologico. Si dice che Rafael Alberti, grande poeta spagnolo, comunista e ateo, a lungo in esilio in Italia e perciò nominato cittadino onorario di Roma, poco prima di morire sia venuto a Segovia. Si sarebbe fermato alla grata dinanzi al sepolcro, senza voler entrare nel tempio, perché sentiva già una comunione con Giovanni e quindi con il mistero di Dio.

Uscendo, c’è il tempo di salire alla chiesa della Vera Cruz, nel quale i Templari, e poi i cavalieri dell’Ordine di Malta, si ritiravano in preghiera nella notte precedente alla loro nomina. Dall’altra parte della stessa collina, invece, si scorge il Santuario de la Fuencisla. La tradizione racconta che una donna ebrea di nome Ester si fosse avvicinata al cristianesimo, pur osteggiata dai suoi. Giunsero ad accusarla falsamente d’adulterio, e la condannarono a essere gettata giù dal dirupo che oggi sovrasta la chiesa. Mentre cadeva, si volse verso la statua della Madonna che ornava il portale della cattedrale, allora vicinissima all’Alcazar, e gridò: «Madonna dei cristiani, aiutami». Uscì illesa da quel dirupo. Quella statua della Madonna, chiamata appunto Fuencisla, è ora conservata nel santuario.

mercoledì 15 dicembre 2010

Notre-Dame d'Afrique, Algeri, Africa


Riapre dopo lungui restauri la chiesa più nota dell'Algeria. Un segno di collegamento tra il Nord e il Sud. Nel segno del dialogo. Visita del 2005.

Lasciati all’immobile sguardo marino l’Ammiragliato e i Bastioni, lasciate le piazze popolate d’ogni età urbana e umana che dicono accoglienza e gioia d’esserci, la salita verso la collina del santuario di tutti gli algerini – cristiani e musulmani – è una catarsi di blu e di bianco, ancora. Notre-Dame d’Afrique sta, e basta. È lassù perché un vescovo cattolico l’ha voluta, nel lontano 1858, rispondendo a due donne pie che rimpiangevano la basilica lionese di Fourvière. Certamente. Ma sta lassù perché Maria-Mariam è il tratto comune delle due fedi qui professate, fors’anche più amata dai musulmani che dai cristiani. Bella la basilica non lo è, non lo è proprio. Ma sta, vestita di damascato da una mano kabyla e coronata dalla dorata scritta che incanta e stupisce: «Notre-Dame d’Afrique prie pour nous e pour les musulmans», Nostra Signotra dell’Africa, prega per noi e per i musulmani. Voglio fotografare la scritta dall’alto della galleria che ospita l’organo. Salgo una strettissima scala a chiocciola che pare africana anche nel colore, tanto è lisa e sporca. Ma lassù, tra l’aria stantia che sa di ceri arsi, di umidità e di salmastro, quella scritta voluta da mons. Pavy pare una profezia. Sarà quella donna a riunire le due fedi, nella preghiera comune e nella comune volontà di unire oltre ogni logica divisione. Africa ce n’è a volontà, su questa collina, non solo per la presenza d’algerini, ma anche per quella di tanti africani subsahariani che da queste parti studiano o lavorano. Il panorama è mozzafiato, come da Nostra Signora della Guardia a Genova, come da Notre-Dame des pecheurs a Marsiglia, come dalla casa di Maria ad Efeso… Maria-Mariam veglia su tutti i suoi figli.