giovedì 31 gennaio 2013

Mosman, il fiordo, di mattina


Viaggio in Asia e Oceania/3 - Alle porte della Sydney dell'Opera House e dell'Harbour Bridge, la modestia d'un borgo marinaro. 
Sydney. Arrivato in una serata di pioggia battente e di venti impetuosi per le propagazioni meridionali di un tifone che ha portato morte, inondazioni ed evacuazioni nella non lontana Brisbane, mi trovò a dormire da cari amici in una casetta deliziosa nel quartiere periferico di Mosman. Un quartiere di villette very British che al massimo hanno due livelli. Giardini curatissimi separano le abitazioni che hanno quell'eleganza discreta che non ha bisogno di molto per apparire di classe.
Dopo una notte accompagnata dal continuo ticchettio della pioggia battente, mi sveglio in un silenzio irreale, che mi pare tanto più strano in quanto è un giorno lavorativo dopo i tre giorni dell'Australia Day. Ma questa è la qualità di vita delle città australiane, eccellente. Visto che non piove, anche se il cielo è ancora nuvoloso e l'umidità superi il 100 per cento (sì, è possibile!), decido di gustarmi la vista della città, e in particolare il capolavoro dell'Opera House dal mare. Prendo così il traghetto da Mosman al Circolar Quai, il cui attacco si trova ad appena tre minuti d'auto dal mio alloggio. E così scopro che il quartiere di Mosman si eleva su un fiordo, uno dei tanti, della baia di Sydney, che penetra nella terra ferma per un paio di chilometri. Un piacere per gli occhi, per un mare placido su cui sono ormeggiate centinaia di imbarcazioni (paiono come le utilitarie che gli abitanti lasciano davanti a casa loro), e per colline punteggiate dai tetti delle villette o dalle loro terrazze. Abitazioni che con la luce mostrano, meglio che al buio e sotto la pioggia, la loro bellezza discreta e il loro standing. Anche qui l'effetto visivo pare voler presentare una serie di scalinate adornato da mille e mille vasi di fiori e di piante.
La navigazione porta lentamente, direi quasi dolcemente, ad accarezzare le pendenze che portano all'acqua, in un continuo sorprendersi per la discreta bellezza del luogo. Poca gente stamani usa il traghetto, forse è già al lavoro. Qualche anziano, qualche mamma, qualche bambino. Il faro arriva in pochi minuti, e dopo il faro… l’Harbour Bridge e l’Opera House. Un incanto che scaccia quello di Mosman. Ma non del tutto.

giovedì 24 gennaio 2013

Melbourne, la città più vivibile al mondo in Vespa


Viaggio in Asia e Oceania/2 - La capitale economica dell'Australia è grande, è bella, è ospitale. Per la sua origine e la sua multiculturalità pacifica. 

Non mi sarei mai aspettato di visitare quella che è stata nominata “la città più vivibile al mondo 2012” in Vespa! Eppure è successo grazie all’amico Luke, che ha una passione per lo scooter Piaggio. Così, lasciata la sua casetta che fa tenerezza nel quartiere di Richmond, abbiamo intrapreso un lungo tour per la grande città del sud-est dell’Australia su due ruote, un mezzo che da queste parti francamente è molto poco usato: le distanze sono tali da queste parti che non è né prudente né pratico usarlo. Melbourne, cioè 4 milioni di abitanti: fondata nel 1835 dal figlio di un galeotto, tal John Batman, che comprò (più o meno) la terra per pochi soldi dagli aborigeni Kulin, già vent’anni più tardi era diventata una grande città grazie all’irrefrenabile flusso d’immigrati provenienti dal mondo intero, e alla fine del secolo era la capitale industriale e finanziaria dell’Australia. Poi fu fondata la capitale di Camberra – per risolvere la rivalità con Sydney , nel 1927–, sfuggì alla distruzione della Seconda Guerra Mondiale e nel 1956 ospitò le olimpiadi. Melbourne è anche famosa per la mutevolezza meteorologica: qui in 24 ore si può passare dai 15 ai 40 gradi!
L’ingresso al centro è imperiale: superato il delizioso Como Park (quanti spazi verdi vedrò nella giornata!) e attraversato il fiume Yarra, che sostanzialmente divide la parte industriale della città da quella residenziale, ecco che appaiono le silhouette dei grattacieli del centro. Ma in primo piano appaiono le modernissime forme bianche, quasi estrose creazioni artistiche, dei templi dello sport, la passione più straordinaria e totalizzante che abbiano gli australiani. C’è il grande stadio circolare, da 100 mila posti, del cricket e del football australiano (Melbourne Cricket Ground); c’è lo stadio del football nostrano (Aami Park); e c’è pure quello dell’atletica (Olimpic Park); ancora, l’aula coperta per tanti altri sport e per i concerti (Melbourne Sports & Entertainements Centre); e infine gli stadi del tennis (Rod Laver Arena, The Oval e Hisense Arena). È il tempo degli Australian Open di Tennis, ed ovunque si vedono gli inservienti, gli atleti, gli addetti alla sicurezza, tutti vestiti d’azzurro.
Passata la sbornia d’architettura sportiva del Melbourne Park, una rampa stradale, una vera autostrada, scavalca di nuovo i meandri dello Yarra per arrivare ai piedi dei grattacieli. Una vista che impressiona. Ma che ben presto ridiventa normalità, allorché cominciamo a percorrere in Vespa, e poi a piedi, le grandi vie commerciali del centro (Swanston Street, Collins Strette, Mall…) e quelle più piccole che dovevano fungere solo da vie per i servizi, ma che poco alla volta si sono trasformate esse stesse in vie commerciali più a buon mercato per i commercianti e più familiari per gli acquirenti. Stradine che ospitano anche una gran quantità di bar coi loro tavolini posti al centro della via pedonale, dove si consuma gomito a gomito, in un’atmosfera semplice, un po’ retro e un po’ dandy, ma contemporanea e sempre in movimento, multiculturale, multirazziale, multireligiosa, multitutto.
I monumenti? Sì, visito le cattedrali cattolica, anglicana e luterana, il Parlamento dello Stato di Victoria, la Flinder Street Station, la Torre dell’Old Magistrate’s Court, il grattacielo Eureka e quelli Rialto. C’è Little India, Chinatown e il quartiere italiano. Tutto bello, tutto ben tenuto, un tocco di architettura vittoriana, un po’ di neogotico, un briciolo di neoclassicismo, molto modernismo… Ma non sono i monumenti che fanno Melbourne, né le belle strade, né i negozi, né l’arredo urbano. Melbourne è vivibile perché la gente vive in pace, pare non avere la fretta dei newyorkesi, la superbia dei parigini, la trascuratezza dei romani, l’altezzosità dei londinesi… Qui si vive perché si è venuti fin quaggiù per lavorare fianco a fianco con gente di altre culture e altre nazioni, per stare all’aria aperta, godere della vita in comune, far sport e sudare per il benessere. Per vivere bene. E ci si riesce, a Melbourne. Anche girando in Vespa.

martedì 22 gennaio 2013

Johor Bahru, la città inafferrabile


Viaggio in Asia e Oceania/1 - Finché non afferri la mano di uno dei suoi abitanti, e allora capisci il perché di un centro di un milione e mezzo d'abitanti, la terrazza della Malesia su Singapore.

Difficile afferrare una città come Johor Bahru, che vive della vicinanza di Singapore, attraverso il braccio di mare – lo stretto di Singapore –, e quindi della buona posizione economica, come retroterra della grande metropoli anglo-sino-malese, che continua a svolgere la sua funzione di Svizzera dell’Asia meridionale nonostante le qualche difficoltà economiche del momento.
Difficile afferrare una città percorsa, quadrettata direi, da autostrade a tre o quattro corsie, che la circuiscono ma anche la trafiggono, al punto da impedire lo sviluppo di un vero centro della città. Pare di dover conoscere solo i pannelli stradali che riesci a ricordare, e poco altro, qualche raro tempio indù che appare al di sotto di uno svincolo, le torri degli alberghi della città, spesso piuttosto pacchiane e mai veramente completate.
Oggi il buon amico Adrian, cinese che possiede un’avviata fabbrica di cibo surgelato, ci scorrazza nel centro della città, anche se bisogna dire che per via del traffico oggi assai difficile, non riusciamo a compiere che poche delle visite previste, e per giunta di corsa. Ma tant’è, non è che Johor Bahru abbia grandi attrattive. Fotografo in effetti un modesto tempio indù, un altro di religione baha’i, la moschea reale del sultano Abu Bakar, qualche palazzo in stile coloniale (britannico, ovviamente), un paio di musei ospitati in vecchie abitazioni della metà del XIX secolo, candide e percorse da rigurgiti europeistici, una dozzina di grattacieli esteticamente potabili, purtroppo inframmezzati con scarso senso storico alla parte più vecchia della città, e appunto il centro storico. Che si riduce a poche stradine trafficate e disordinate che uniscono Little India, Chinatown, concentrati malesi con qualche tocco di singaporianesimo, una chiesa cattolica neogotica dedicata a Notre Dame.
Non c’è anima nel centro, perché la città ne ha non pochi di centri, purtroppo coagulatisi attorno ai mall, ai grandi centri commerciali dove rivivono i vecchi borghi di shophouse, cioè le case a due livelli con al piano terra il negozio protetto da una breve tettoia che si unisce a quelle dell’edificio che la precede e dell’edificio che la segue, e al piano superiore l’abitazione. Colori sgargianti mal coordinati tra di loro, nere tracce di umidità, insegne disordinate e spesso pacchiane, luminarie tra il natalizio e il kitsch… Questo è il centro di Johor Bahru. Nulla d’importante. Salvo che dopo qualche momento di indecisione mi accorgo che in fondo non si sta male nella città, che i punti di riferimento non mancano, che il milione e mezzo di persone che la abitano sono fieri della loro urbanità, che i ristoranti sono buoni, che la gente ti sorride, che anche sotto la pioggia ci si diverte a passeggiare…
Johor Bahru è inafferrabile finché non serri la mano di un suo abitante. Allora abiti la città e l’apprezzi come una stretta di mano familiare. Appunto.

martedì 15 gennaio 2013

Ribeira de Paúl, i tornati in verticale



Viaggio a Capo Verde/4 - Nell'isola di Santo Antão, camminando verso il mare lungo le valli scoscese e ardite scavate dalle "ribeira"


Appena lasciata la Cova de Paúl e la sua insolita agricoltura da cratere, una stradina in acciottolato sale verso la corona di rocce del vulcano che fu. Un soffio impetuoso pare spingere tutte le nubi del mondo attraverso quella ferita della roccia. Roccia che, appena indossata la giacca a vento e varcato il passo, si rivela una parete a strapiombo: come si farà per scendere a valle? La nebbia impedisce di vedere al di là di una dozzina di metri, ma il rassicurante acciottolato ormai vuol dire strada sicura, magari faticosa, ma sicura. Ed è così che, passo dopo passo, tornante dopo tornante, quando la nebbia si dirada mi ritrovo alcune centinaia di metri più in basso: sotto ci sono tornanti in numero infinito, mentre sopra ci sono sempre tornanti, ma in numero, questo sì, finito. La vegetazione appare verdissima, i fiori, seppur piccoli, non mancano, e pure non pochi uccelli, anche di ragguardevoli dimensioni, volteggiano nell'aria al di sopra della mia testa, in compagnia di vette e pinnacoli così aerei da far paura. 

Mi chiedo in quale paradiso terrestre mi trovi. Ma mi sbaglio, perché ben presto al di qua e al di là, al di sotto e al di sopra della mia posizione geostazionaria appare il lavoro dell'uomo, il duro lavoro dell'uomo, che in queste contrade vuol dire coltivazione di terre da riporto in terrazze minuscole sorrette da muretti a secco talvolta straordinari. Così come fuori dal comune sono i muri di sostegno della via che sto percorrendo in una discesa ripidissima, sostegni che vengono controllati quasi giorno dopo giorno e riparati con rapidità e costanza, visto che lasciar passar del tempo, anche pochi giorni, può voler dire vedere andare in malora secoli di lavoro comune, di bene comune. 

La valle della Ribeira de Paúl splende ora in tutta la sua superba seppur modesta bellezza. L'abitato è diffuso: sì, si notano tre o quattro grumi di case un po’ più consistenti, ma pare di avere a che fare con un presepio napoletano estivo: più ampio è, più case ci sono. Le coltivazioni si fanno precise e curate, più verdi. Tra le terrazze appaiono le ben note canaline che distribuiscono equamente l'acqua accumulata nelle stagioni delle piogge, ma anche in misura minore nella stagione secca, nei giorni come oggi in cui le nubi che si abbarbicano alle vette distribuiscono comunque un po' di umidità. I depositi d'acqua si fanno più ampi e la portata dei canali non è dà poco, perché siamo in cima a tutto il sistema d'irrigazione: in fondo, cioè a Vila das Pombas, arrivano solo poche gocce. Finché, tra banani e canne da zucchero, cavoli di tutti i colori e papaye ormai mature, si arriva alla strada carrozzabile – che è solo una via in acciottolato più larga e meno pendente di quella che mi ha portato sin qui –, ma non è che la civiltà dia fastidio. Si, le musiche e i cellulari sono quelli della globalizzazione, ma il paesaggio no, e la gente è sempre cortese e affabile. Attraverso quattro o cinque villaggi dainomi originali – Chã Manuel dos Santos, Chã João Vaz, Passagem, Boca de Figueiral, Eito –, finché la piana costiera, poche centinaia di metri nella foce della ribeira, annuncia il mare. Che anche oggi pare arrabbiato.

giovedì 10 gennaio 2013

São Pedro, il vento e il farol



Viaggio a Capo Verde/3 - Uno dei pochi paeselli dell'isola di SãoVicente, isola senz'acqua dolce, o quasi

São Pedro è un buco di paesello divenuto famoso nel mondo intero (si fa per dire) per una semplice sigla: VXE, che è poi l’indicativo dell'aeroporto internazionale di São Vicente, inaugurato appena tre anni fa, e dedicato a Cesária Évora, la musa della morna. Ma è più conosciuto col suo nome originario di São Pedro. Si tratta in realtà di un capannone giallo e grigio tutto nuovo, al bordo di una pista da brivido che s'incunea tra due vicine catene montuose. Vicine è dir poco, perché sono praticamente attaccate al nastro di asfalto. São Pedro conta la bellezza di 215 anime, un caffè in piazza e altri due (almeno hanno l’insegna) all'interno dell'abitato, un palazzo comunale che è poco più di una catapecchia, una dozzina di barche coloratissime, un gazebo metallico per vecchi e bambini, una ventina di cani randagi (ma del numero non sono sicuro), undici case intonacate e dipinte (le altre espongono gli orrido foratini di cemento, poco, e di polvere di lava, molta, con i quali sono stati edificati) e una giovinetta che veste di giallo e di verde, che potrebbe rappresentare la Madonna nel presepe natalizio del villaggio.

Sono arrivato a São Pedro in aluguer quando il vento è così forte che gli atterraggi degli aerei sono stati sospesi e le barche sono state tratte a riva: oggi non si pesca dice l’autorità portuale dell’isola, che dicono inflessibile. Così la dozzina di aitanti giovanotti che di solito svolge il mestiere di pescatore è costretta a terra. In due o tre gruppetti ingannano il tempo maneggiando i loro cellulari, fumando sigarette fatte a mano, scherzando e ridendo o, ancora, svolgendo operazioni contabili particolari: enumerare i delfini che guizzano nel mare spumeggiante. A quanto capisco nella nostra fantasmagorica conversazione in globish, se tutto va bene riescono a guadagnare ciascuno 500 scudi al giorno, cioè 5 euro. Pescando di tutto, soprattutto tonni, orate e aragoste. Vorrebbero emigrare, come tutti i giovani capoverdiani, ma non sanno nemmeno dove potrebbero recarsi. Ormai i loro padri tornano dagli Stati Uniti e dall'Europa con le pive nel sacco, mentre anche qui arrivano i cinesi. Non capiscono più come va il mondo: una volta c'erano i Paesi ricchi e quelli poveri. Loro erano i poveri e andavano dai ricchi, e guadagnano e facevano poi arrivare i loro figli nella terra d'elezione. Oggi non è una più così. 

Scendo alla spiaggia percorrendo una scala che fu di cemento ma che ora è fatta di sabbia scivolosa con qualche incrostazione di cemento. Sabbia che turbina ovunque, mentre il verde e il blu del mare, anzi i verdi e i blu, farebbero urlare qualunque pittore, e mentre il candido faro della Ponta do farol, appunto, crea uno stupefacente contrasto cromatico. Il sole brucia la pelle, nonostante il vento fresco. I colori delle barche sulla spiaggia, una di esse addirittura fosforescente, pessimo tributo alla modernità, invitano all'estasi cromatica, mentre gli spruzzi delle onde trasformano l'aria da secca che era in umidissima. Chiudo gli occhi, ma l'autista dell'aluguer suona il clacson, sta per ripartire. E fino a sera non ce ne saranno più.

mercoledì 2 gennaio 2013

Ribeira Grande de Santiago, dove si vendevano gli schiavi



Viaggio a Capo Verde/2 - Fu la prima città fondata da europei nei tropici...

Avevo letto che sarebbe la città più bella della grande isola di Santiago, la principale di Capo Verde. Ed effettivamente debbo riconoscere che è così. Dopo un lungo ed inatteso itinerario per raggiungere la città più antica costruita dagli europei al di sotto dei tropici per via del rifacimento dell'intera arteria, a sette chilometri dalla meta bisogna inoltrarsi nel brullo paesaggio dell'isola percorrendo una carrareccia rivestita del classico acciottolato importato nelle isole dai portoghesi , si arriva dall'alto in un ambiente che ha del fiabesco, con una insenatura che incanta per il mare blu cobalto, la terra arsa, i tetti rossi di laterizi rinnovati di recente. Riviera Grande de Santiago è patrimonio dell'umanità secondo l'Unesco, e non poteva essere che così. Scrivo queste note seduto ad un tavolino del Bar Pelourinho, tra galline che starnazzano, grida d'infanti, ammiccamenti innocenti di uomini e donne della pelle proprio scura. Si capisce come si possa perdere la testa da queste parti e decidere di installarvisi. Osservo la colonna del pelourinho, gogna o berlina che il governo portoghese installava in ogni città conquistata per affermare il proprio potere: gli schiavi ribelli venivano incatenati a questa colonna, che a ua lunga storia, perché fu rimossa e poi reinstallata dopo lindipendenza.

Ma la visita in questo angolo incantevole delle isole di Capo Verde non poteva che cominciare dall'alto della Forteza Real de São Filipe costruita nel 1953 dagli spagnoli, che nel 1580 avevano sottomesso i nemici portoghesi (fino al 1640). La vista è incantevole da questi impressionanti bastioni di cui restano solo, appunto, i bastioni, e una cisterna centrale, realizzata nella forma attuale nel 1720. La vista dell'insenatura è assolutamente unica: le rovine della cattedrale paiono imponenti nell'abitato, ma minuscole nell'orbe terracqueo che da qui si ammira. E l'abitato pare alternare rovine e gioielli senza soluzione di continuità. Nella profonda valle che penetra nell'interno verso Nord, spiccano i tetti rossi del monastero di São Francisco. La discesa a valle, lungo la strada in acciottolato:i muri di sostegno sono pittati di bianco, conferendo ai tornanti qualcosa di fiabesco, allorché allo svoltare della via d'improvviso appare una figura slanciata, due occhi che ridono e sorridono, a me, anche a cinquanta metri di distanza; e l'avanzare reciproco, fino ad incrociarsi, pare una danza della vita senz'altro scopo che il sereno appagamento della brama estetica.

Scendo alla spiaggia, scura e in fondo modesta, seppur capace dattirar gli sguardi. Attorno a una dozzina di barche tirate in secco, quattro o cinque ragazzetti giocano a una sorta calcio e di pallanuoto insieme, tra spruzzi e risate, tombole e risorgenze, mosse da rugbyman e altre da fiorettisti. Alcune istantanee resteranno nella mia minuscola storia. Salgo poi alla chiesa dedicata a Nossa Senhora do Rosário, che fu cominciata a costruire nel 1495 e che possiede un campanile largo quanto la facciata stessa: si trovano tracce gotiche nelle cappelle laterali, pietre tombali del XV secolo, dipinti scuriti dal tempo e dallincuria. Si respira colonial assoluto, direi. Sapre un pertugio nella muda, una scala a chiocciola. Malandatissima. Non so come, ma salgo fino alla terrazza sommitale, sbucando in un cielo azzurrissimo ricamato di palmizi che svettano flessuosi. Incanto. Poi torno al mare percorrendo rua Banana, una stretta via dai muri imbiancati che proteggono casette dipinte in modo sgargiante, quasi sfacciato, se non fosse che qui non potrebbe essere che così. Si sfiora la perfezione a Ribeira Grande de Santiago. Secca in questa stagione, e quasi sempre. I suoi abitanti sono anchessi secchi nei corpi, ma le loro anime paiono opulente di generosità. Solari.
Dicembre 2012