lunedì 30 novembre 2009

Il treno saltato per aria verso San Pietroburgo


Nel 2005 presi un treno tra Mosca e San Pietroburgo, in tutto simile a quello fatto saltare in aria dai sette chili di tritolo che hanno divelto le rotaie in un tratto in cui il convolgio viaggiava a 200 all'ora. Come al solito si invoca il fantasma ceceno. Scrivevo in quella fine di giugno 2005...

"Aurora" è il nome del treno che, in cinque ore e quindici minuti, mi porta da Mosca a San Pietroburgo: "Aurora", forse per ricordare che lassù non troverò mai la notte. Un’esperienza che rischia d’essere affascinante. Le carrozze sono assai vetuste, ma pulite e corrette. Il pasto è un picnic gradevole, ma il personale fa il muso. Qui è la norma. Il vagone, purtroppo, viene occupato manu militari da una compagnia di turisti italiani, che fortunatamente, comunque, non paiono troppo rumorosi e strafottenti.

Fuori dal finestrino scorrono infinite distese di boschi e laghi e villaggetti che paiono da fata ma che, a ben guardare, nascondono a fatica le tracce della povertà. Il sole resta sempre alto, mentre la pioggia s’alterna al sereno con rapidità sorprendente. Chissà perché Pietro il Grande ha voluto fondare la sua città sul Mar Baltico. Spero di scoprirlo. Intanto mi godfo questi lunghi rettilinei in cui il treno dell'Aurora corre beato, anche se strattonando i poveri viaggiatori a destra e a sinistra, al punto da mettere in dubbio se resterà sulle rotaie.

giovedì 26 novembre 2009

Bucarest e le tante "Francesca"


Esce oggi il film "Francesca" del rumeno Bobby Paunescu, uno spietato racconto sulle miserie e i dolori delle centinaia di migliaia di rumeni emigrati in Italia. Leggendo le critiche al film, ho ritrovato certi accenti di un reportage da me scritto dalla Romania nel 2005.

Il terremoto del 1977 fu la scusa buona: il presidente Ceaucescu, allora beniamino degli occidentali per i suoi sorprendenti scarti dalle posizione del grande fratello sovietico, era ormai entrato nel gorgo della pazzia del dittatore. E, come tutti i dittatori, cercava disperatamente qualche progetto architettonico faraonico che ne perpetuasse la memoria. Il terremoto gli offrì il pretesto per radere a suolo interi quartieri secolari, tracciando sulla cartina di Bucarest una serie di viali che persino nelle dimensioni volevano imitare i boulevard parigini, Champs-Elysées in testa.

Così volle e così fece il sanguinario Ceaucescu. Impiegò spropositate risorse tolte di bocca alla gente, sottratte alla loro sopravvivenza e non al loro superfluo, per rimanere nella storia. Ma non ebbe il tempo di vedere realizzato il “suo” capolavoro, un palazzo immenso, secondo come volume solo al Pentagono. Lo avrebbe chiamato Palazzo della repubblica socialista di Romania, al culmine della lunghissima pista di avvicinamento del Bulevardul Unirii, interrotto solo dalla smisurata piazza omonima, sotto la quale nascose niente meno che il fiume di Bucarest, il Dâmboviţa.

Per realizzare questo spropositato progetto, il dittatore sacrificò opere d’arte sopraffina, chiese e palazzi e caravanserragli. Risparmiò solo un quartiere, il vecchio centro storico, pur deturpandolo con edifici in puro stile real-sovietico. Così si può ammirare l’Hanul lui Manuc, un edificio in pietra e legno in puro stile rumeno, edificato all’inizio del XIX secolo, e miracolosamente conservato intatto, accanto all’edificio della Banca centrale o della Polizia municipale che fanno orrore alla vista.

Torno a Bucarest 25 anni dopo la mia prima visita, allorché le ferite urbanistiche erano ancora oscenamente aperte, macchiate di fango e di macerie. Fuggii dalla città dopo poche ore appena, trascorse a cercare un senso nel non senso. Oggi Bucarest è cambiata: il palazzo faraonico è terminato, mutando il proprio nome in Palatul Partlamentului. In fondo esiste di peggio, e le sue proporzioni tradiscono stranamente una certa armonia. Ma la città schizofrenica lo è ancora, e lo resterà per un pezzo ancora, perché le amputazioni sono state troppo profonde per non lasciare cicatrici orribili alla vista.

Sarà un caso, o forse una coincidenza, ma questa anomalia di fondo mi si manifesta nell’assoluta follia dei suoi gradini. Nell’hotel che mi ospita, le scale hanno dimnensioni insolite, innaturali e imprevedibili, tanto che un bel ruzzolone me lo sorbisco anch’io. Persino nel mini appartamento che mi ospita trovo due gradini ingiustificati contro i quali sbatto regolarmente con gli alluci. Per strada non c’è un marciapiede che abbia la stessa altezza di un suo simile: si va dai due centimetri scarsi al metro abbondante. I gradini della scalinata che conduce al patriarcato, poi, fanno a gara nell’apparire uno più originale dell’altro, quasi fino a giungere alla sfericità. Il centro storico, ancora, vive una nuova effervescenza, conoscendo l’ebbrezza di qualche nuova boutique e di una manciata di bar alla moda.

Ma le sue strade composte di grossi pavé paiono lastricate ad arte per impedire una deambulazione pressappoco regolare. Entro in un cortile, al seguito di una banda di ragazzini di strada che sniffano colla, con la scusa di scattare qualche foto. Trovo lo sfacelo di un cortile che una volta doveva essere un incanto ligneo, ma che oggi è un antro di sudiciume e di abbandono. Una scala porta al ballatoio del primo piano, quello dove sopravvive uno dei ragazzini: su ventisei gradini, tre soli hanno conservato un piano pressoché liscio.

Vedo poi un centro commerciale che pare sugli standard europei. Scale mobili funzionanti, signore e signori c’è da non crederci. Salgo fino al quarto piano, quello dell’abbigliamento maschile. Faccio poi per scendere, ma le scale mobili discendenti sono bloccate, e i gradini metallici ballonzolano sui giunti, mentre i mancorrenti sono a tratti assenti, ogni volta trenta o quaranta centimetri…
E la gente? Triste, e lo capisco: come si può tirare avanti una famiglia uno stipendio di 150 euro al mese e i prezzi simili a quelli italiani o francesi? Come ritrovare le radici culturali che il “conducator” aveva sistematicamente recise? Come nutrire speranza quando la sola molla di progresso sociale pare la corruzione?

Ripenso ai gradini schizofrenici di Bucarest seduto in uno dei pochi luoghi d’incanto della città, proprio l’Hanul lui Manuc, legno e grazia e pulizia. I giovani e gli adulti che si possono permettere di offrirsi un caffè a questi tavolini sembrano più spensierati. Mi trovo a conversare con quattro di loro: tre sono decisi ad emigrare in Italia o in Germania. Saliranno e scenderanno altri gradini più regolari. Ma non è detto che trovino più senso alla loro vita.

mercoledì 25 novembre 2009

La Belarus' che Berlusconi troverà


All'inizio della prossima settimana, il premier si recherà a Minsk, primo leader occidentale a visitare il Paese governato con mano di ferro da Lukashenko. Nello scorso aprile ho visitato questa nazione che stenta ad emergere economicamente, politicamente e socialmente. Quattro passi in un museo all'aperto, a Dudutki, che, parlando del passato, dice molto del presente.

Un borgo insignificante nella campagna bielorussa tutta uguale, sempre mimetica a sé stessa, senza fantasia. Senza sussulti e colpi di genio. Non per niente anche queste lande erano e sono il granaio d’Europa. I piccoli abitati tradiscono il troppo inveterato vizio dei popoli dell’Est: l’incuria, l’incapacità di terminare i lavori, il rifiuto di considerare l’esistenza del bene comune. Trasandati sono i borghi rurali bielorussi, e trascurati sono i campi, raramente coltivati a dovere: meno delle lande ucraine o georgiane, più di Cechia e Ungheria. Il tutto è aggravato dalla continuazione di un regime per certi versi dittatoriale, qui in Belarus’, caso praticamente unico in Europa, ormai.

Per tutto ciò, i bielorussi hanno bisogno di ritrovare le loro radici, le loro tradizioni, fossero anche quelle della terra, delle coltivazioni tramandate dai nonni, delle celebrazioni liturgiche, delle professioni artigianali del legno, del ferro, del cuoio. Dudutki è il risultato di tutte queste esigenze messe assieme. È la ricostruzione d’un borgo tradizionale della campagna bielorussa, con la riesumazione di vecchie tradizioni artigianali e pastorizie, la ricostruzione di una fattoria gestita secondo criteri ecologici, con maneggi, visite guidate per le scolaresche, ristoranti che offrono solo cucina tradizionale bielorussa.

In un capannone di legno sono esposte auto e moto della prima metà del XX secolo. Mentre nel vicino negozietto un fabbro produce candelabri e decorazioni di fattura grossolana, commovente per una passione che coltiva senza avere dinanzi a sé mdoelli adeguati. Tutto quello che produce è di sua fabbricazione, e anche ideazione, o quasi. Accanto, delle gentili giovinette producono manufatti artigianali di paglia e di rafia: uccellini, cestini, braccialetti, sottobicchieri. Ancora, una donnona baffuta offre agli avventori vodka con cetrioli conservati in salamoia e grosse fette di una sorta di pancetta di maiale, accompagnando il tutto con un cucchiaino di miele, nella totale assenza di grazia e gentilezza. Ma, poco male, i vicini sono allegrotti per le bevute, ma aperti e curiosi.

E poi i cavalli e le carrozze, i puledri che fanno impazzire i bambini e le marmitte per cucinare gli stufati, e gli abiti tradizionali delle contadine e gli strofinacci di lino, le vecchie radio e un giradischi degli abbi Cinquanta, utensili di varie professioni artigianali, tappeti tessuti nelle case, vecchie uniformi, antichi paramenti, ninnoli e collane delle nonne, la macchina da scrivere di un giornalista ammazzato dalla mafia e le sue cianfrusaglie, qualche mobile di sessant’anni fa, trine delle bisnonne e icone degli antenati.

Dudutki mostra il lato più onorevole dei bielorussi, lo sforzo di ritrovare una tradizione per troppo tempo sepolta, il desiderio di ritrovare la propria identità come patria e come popolo. E nel contempo mostra quanto il nuovo possa sotterrare di nuovo il vecchio, se non proprio l’antico, se appena appena non si sta attenti al pericolo del sotterramento di tutto quanto non è consumismo.

martedì 24 novembre 2009

Armenia e Azerbaigian si parlano, buona notizia


A Monaco di Baviera sono continuati i colloqui tra le delegazioni armena e azera per risolvere il rompicapo geopolitico del Nagorno-Karabakh, "enclave" armena in territorio azero. Visita alla città di Shushi (2007), che riassume in sé il dramma di una regione da secoli vittima di conflitti e vendette.


Le distruzioni della guerra e della violenza, persino del genocidio, non mi sono estranee, da tempo ormai: ne ho viste e conosciute abbastanza per riuscire a coglierne il lato diabolico, l’attrazione delle rovine che non permettono di capire quale stupidità sia l’eliminazione di anni, decenni, secoli di storia, di lavoro, di ingegno. Pochi istanti di dia-ballo, di separazione, e il sun-ballo, il simbolo, sparisce, lasciando al suo posto il nulla della morte senza speranza, il suo non-senso. Detto questo, quel che vedo a Shushi supera ogni mia immaginazione. E mi ferisce.

Nella visita al Nagorno-Karabakh – enclave armena in territorio azero – avevo chiesto ai miei accompagnatori di poter fotografare almeno una moschea distrutta; così, giusto per far la mia parte di giornalista imparziale, la solita illusoria pretesa di obiettività. A Stepanakert, la capitale di questo Stato che non è ancora tale, ho solo intravisto qualche casa distrutta in lontananza, così come nel lungo tragitto tutto curve tra la frontiera armena e quella del Nagorno-Karabakh – il corridoio detto di Laçin, ribattezzata dagli armeni Kashatrak –, ma nulla di straordinario, più o meno quel che avevo visto a Srebreniça, con le case dei musulmani bosniaci disossate dai cristiano-ortodossi serbi.

Shushi si trova a dieci chilometri da Stepanakert, sulla montagna. Vi si arriva d’improvviso, non avendo scorto dal basso nulla o quasi della città, solo qualche scorcio dei muri della prigione e un monumento insolito: un carro armato, piccolo, quasi minuscolo, ma che nella posizione in cui è stato issato – sopra una curva della statale – pare un irraggiungibile panzer. Sulle fiancate porta dipinte quattro croci… È il primo carro entrato a Shushi per sancire la vittoria degli armeni sugli azeri. Un simbolo.

Le mie guide mi accompagnano dapprima alla Cittadella del paesello (così di primo acchito mi sembra che sia), una modesta cinta muraria che però viene magnificata nelle sue qualità difensive e offensive. Di interessante trovo solamente, sotto un paio di volte a tutto tondo, degli affreschi slabbrati e ammuffiti che decantano alcuni episodi epici della civiltà nativa del Nagorno-Karabakh. Poi saliamo di qualche decina di metri – in Mercedes, svp, qui non si può percorrere a piedi neanche una dozzina di metri, sono l’ospite d’onore – e inizia una progressiva scoperta che mi lascia senza fiato. Scopro una città, una grande città, in rovina. Poco alla volta me ne rendo conto: prima un vecchio palazzotto che le mie guide si affrettano a dire appartenere alla comunità armena, saccheggiato nella guerra del 1914, o per meglio dire, nel genocidio di quegli anni. Poi ecco un minareto tozzo, ancora rivestito con le sue mattonelle originarie, anche se un po’ sbeccate. Sopra la sala di preghiera qualche cupoletta tiene ancora, mentre altre sono sprofondate e tutto appare bruciato e saccheggiato.


Questa moschea azera, invece, è stata distrutta nella recente guerra del 1992-1994, così come le altre due grandi moschee che scopro più in basso, quelle dell’Iran e quella dell’Arabia Saudita. Due moschee che dapprima non riesco a vedere, perché mascherate da un enorme palazzone residenziale, totalmente rovinato e bruciato, almeno all’apparenza. Mi avvio sull’ampio viale alberato che porta alla moschea dell’Iran. Tutto è distrutto: una scuola, un teatro, un ufficio comunale, abitazioni, bagni pubblici, sale sportive, una scuola di ballo.


Due anziane signore malmesse in salute e con gli occhi bastonati, strette nei loro abitucci a fiori scoloriti e lisi, mi osservano scattare foto. Le interpello. Sono armene, rifugiate qua a Shushi da Baku, dove vivevano con le rispettive famiglie, fino al 1992, quando fuggirono con alcuni parenti. Altri erano rimasti laggiù, nei cimiteri abbandonati dagli armeni, saccheggiati e devastati dagli azeri. «Dove vivete?», chiedo loro. Mi indicano uno dei palazzoni semidistrutti. Guardo bene: in effetti qualche appartamento sembra essere stato riattivato in un modo o nell’altro, con cartoni, lamiere arrugginite e legni di recupero, in modo assolutamente provvisorio, ma da ben 16 anni! «E come si vive qui a Shushi?». Allargano le braccia. «Meglio a Baku o a Shushi?». «Meglio lì, economicamente, meglio qui per la sicurezza». «Volete tornare a Baku?». Sbarrano gli occhi: «Mai». Poi una delle due mi chiede qualche spicciolo.

Avanziamo. Spostiamo una rete metallica arrugginita che funge da cancellata della moschea azera: ed eccoci nel recinto del luogo di culto, o per meglio dire di quel che resta di esso. Salgo i gradini semicircolari ed entro nella grande sala di preghiera, che conserva una sua dignità e bellezza, nonostante ogni suppellettile, ogni infisso e ogni decorazione sia stato sistematicamente divelto e distrutto, strappato, sminuzzato. O venduto. Seguo poi la mia guida e mi avventuro su per le buie scale a chiocciola del minareto orientale. Le uniche fonti di luce sono le feritoie provocate dai colpi di mortaio che sedici anni fa erano stati sparati verso la moschea. Forse proprio da quel carro armato che ora accoglie i visitatori all’entrata della città…


A fatica raggiungiamo la sommità del minareto, spogliato dai parapetti lignei e pure di parte del tettuccio metallico. Mi chiedo se reggerà anche quest’oggi: sto attento a dove metto i piedi. Finché alzo lo sguardo. No, non ci credo. Dapprima mi rendo conto di quanto estesa sia la città, e me ne rallegro. Ma pochi istanti più tardi mi rendo conto che la maggior parte di tale distesa abitativa è costituita da rovine. Solo un occhio addestrato saprebbero distinguere quelle azere da quelle armene, quelle della guerra del 1914 e del susseguente genocidio da quelle del tentativo comunista di ridare una facciata decente alla città facendo tabula rasa di tutte le macerie a colpi di bulldozer e di pale meccaniche, nel 1960. E da quelle dell’ultima guerra del 1993. Desolazione.
Esco tra le macerie, e poco alla volta riesco a riconoscerne i diversi tipi. In un cortile giace ancora un piccolo blindato, preda ormai della vegetazione, divenuto com’è ricovero di uccellini e rettili. Insegne divelte, mobili fracassati, gradini scheggiati, la cornetta di quello che era un telefono, piatti frantumati, una radio sforacchiata da colpi d’arma da fuoco…


Un po’ depresso, mi avvicino lentamente a quella che sembra la nuova chiesa ortodossa. C’è movimento tutt’attorno. Da lontano colgo la presenza come d’un nugolo di mosche nere, che ben presto si rivelano Rav e Mercedes e Bmw tutte nere, nel bisogno delle zone di povertà e guerra di apparire, di pavoneggiarsi, come da noi fanno i bulli di paese. Qui, invece, lo fanno tutti quelli che possono. Si celebra un matrimonio, la sposa in bianco, le donne curatissime e colorate e profumate, spesso in modo esagerato, sfacciato. E tradizione qui vuole che, dopo il matrimonio, ci si faccia fotografare coi convitati un po’ ovunque nella città.


Tutti in macchina, quindi, a strombazzare e a fare bravate, a fermarsi d’improvviso in mezzo alla strada per farsi fotografare ovunque, quindi anche in mezzo alle rovine. Forse è un bene, il simbolo che ovunque e comunque la vita continua e si è capaci di dimenticare anche le peggiori nefandezze subite o inferte. Ma azeri e armeni non potranno più vivere insieme, come mi spiega anche il vescovo armeno-apostolico, per almeno quarant’anni almeno.


Nel 1914 Shushi contava 90 mila abitanti (85 mila armeni, 3 mila stranieri e 2 mila musulmani) ed era la terza città del Caucaso, dopo Tbilisi e Baku. Contava teatri, borse, terme, grandi hotel e raffinati ristoranti, la fama di una città chic. Nel 1993 era ridotta a 18 mila abitanti: erano stati circa 8 mila gli azeri uccisi o fuggiti e 2 mila i profughi armeni d’Azerbaijan giunti quassù per sostituirli. Oggi la città ha quindi 12 mila abitanti e non è più la capitale del Nagorno-Karabakh. Ma ha una distesa interminabile di rovine. È un mausoleo a cielo aperto alla stupidità del conflitto etnico.


venerdì 20 novembre 2009

Algeria, l'orgoglio di una nazione


L'Algeria si è qualificata per i mondiali dopo una violenta battaglia sportiva, legale e politica, nello spareggio in Sudan. Orgoglio nazionale che ho trovato per le vie della casbah di Algeri, nel 2005.

Non potevo partire da Algeri senza aver visitato quella casbah che tanto ha colpito l’immaginario collettivo degli europei, soprattutto dopo il film di Pontecorvo, checché se ne dica ancor oggi una delle pagine più eloquenti sulla genesi e sulla fine del terrorismo di matrice araba e musulmana. La prendo dall’alto, la casbah, non per evitare le faticose ascensioni per le infinite ed irregolari scalinate che rigano l’abitato come grafi del gigante dell’urbanistica, quanto per semplici motivi di sicurezza: mi hanno sconsigliato di avventurarmi in quell’abitato senza prendere un minimo di precauzioni: niente borse, niente macchine fotografiche, niente abiti ricercati… La discesa – peraltro priva di ostacoli, nonostante alcuni sguardi non proprio amichevoli, pochissimi d’altronde rispetto a quelli schietti e amichevoli – si rivela una corsa in un tempo che sembra essersi immobilizzato e rinchiuso nella notte dello sviluppo economico. Dalle finestre calano tappeti e tendaggi e tessuti, per la necessaria aerazione dopo notti di familiare promiscuità – anche una dozzina di persone per stanza –, incrementata e dilatata dai soldi che non ci sono e dalla politica che fa sparire i proventi del petrolio.

La casbah è l’accavallarsi di commerci e mercimoni, illeciti in massima parte, sdoganati dalla corruzione del regime e dalla miseria della quotidianità. È il trionfo dell’esposizione della pelosità rituale maschile, e dell’occultamento di quella erotica femminile, finché durerà l’ignobile sfruttamento dell’ignoranza da parte di tanti tristi figuri nelle moschee. La casbah è soprattutto l’aggrovigliarsi dei pensieri e delle preghiere d’un popolo alla ricerca di sicurezze che non trova, infiammandosi in sentimenti di rivolta ed in istinti di sottomissione, rapidi ad esaurirsi come una corsa a precipizio giù per la rue Arbadji, o lenti a scoppiare come l’ascesa vertiginosa della rue Rabah.

La casbah non è un quartiere, ma un sondaggio politico e sociale alla vigilia di un’elezione bulgara. L’influenza dello “spirito della casbah” va ben al di là della Piazza dei martiri o della Grand Poste; si estende ai quartieri che più hanno mantenuto il loro carattere popolare, coniugato in questi ultimi decenni con un fondamentalismo primario privo di costrutto religioso. Così è, ad esempio, nei quartieri alla base della collina del Makam Ech-Chahid, il memoriale dei martiri, Hamma e Belcour. Sono due quartieri adiacenti alla Piazza del primo maggio, che nel 1991 aveva visto l’uscita a vita pubblica del Fis, con scioperi e sit-in, finché non intervenne l’esercito coi carri armati, mettendo così a fuoco quelle polveri che spegneranno solo sette-otto anni più tardi. Era l’epoca in cui scorrazzavano per le strade di Algeri auto strombazzanti occupate da barbuti che inalberavano i vessilli del Fis e il libro del Corano aperto in segno di sfida.

giovedì 19 novembre 2009

Il peso della farfalla (e della vita)

L'ultimo piccolo-grande libro di Erri De Luca.
«A un bracconiere prima o poi un inciampo arriva, gli tocca un processo, a lui no. L'alpinismo gli era servito a migliorare le sue vie di fuga. Saliva per disperdere le tracce, un alpinismo opposto a quello degli scalatori che lasciano segnali di passaggio, pietre ammucchiate a segnavia, chiodi in parete, in cima le croci. Non capiva le croci: senza il crocifisso erano una firma di un analfabeta, in fondo a un atto della geografia. Sulla punta Miara del gruppo del Sella c'è invece appeso un Cristo in legno di tre metri. Esposto alle materie, ferma a braccia aperte, come una diga, il tempo, che non precipti a valle tutt'insieme».

70 paginette, la storia del vecchio, imbattibile bracconiere e del vecchio re dei camosci, irraggiungibile. La metafora della vecchiaia, sulle ali di una farfalla. Le pagine di un napoletano appassionato di montagna, e delle montagne dell'anima. Un consiglio di lettura.
(Erri De Luca, "Il peso della farfalla", Feltrinelli)




mercoledì 18 novembre 2009

Sotto Istanbul, la basilica-cisterna


Mentre Giorgio Napolitano visita la Turchia, ripenso alla Yerebatan Sarnici, la "basilica-cisterna" costruita dai Romani, che pare una metafora di tanta politica internazionale, che in superficie ha una dimensione trasparente, ma sotto terra vive in un'altra dimensione.


Istanbul. Una delle sorprese più straordinarie che sia in questa città già di per sé straordinaria, la trovo sottoterra, a due passi da Haghia Sofia. È la Yerebatan Sarnici, meglio conosciuta come “Basilica cisterna”. Si tratta di un’ampia cisterna bizantina, la più imponente della città, il cui aspetto ricorda più un palazzo che un sito destinato a raccogliere l’acqua. Costruita da Costantino, fu poi ampliata per raccogliere l’acqua proveniente dagli acquedotti di Adriano e di Valente. In origine la cisterna era sorretta da 336 colonne alte otto metri, suddivise in 12 file di 28 elementi ciascuna, quasi tutte ornate con capitelli corinzi del V secolo, e sostenenti delle volte di mattoni a spina di pesce, che si riflettono nelle ferme acque sottostanti.


Scendo i gradini scivolosi che portano alla cisterna. Gli occhiali si appannano per l’umidità, così come l’obiettivo della macchina fotografica. Una sapiente musica classica turca giunge alle orecchie, rimbalzando sulle superfici marmoree, invitandomi a una deambulazione che promette grandi sorprese. Ma la prima visione è di quelle che non dimenticherò più. Avevo già visto delle fotografie del luogo, ma non vi coglievo una grande differenza rispetto alle mille basiliche già viste in giro per il mondo. La realtà, invece, sconvolge ovviamente la vista, ma anche il tatto (per le superfici umide), l’udito (per la musica), l’olfatto (per l’odore delle muffe) e persino il gusto (per l’aria pregna di acqua). Perché nascondere una tale bellezza sotto terra? Mi dico che proprio questo nascondimento ha permesso la sua conservazione.


Mi avventuro nelle passerelle sapientemente attrezzate tra le colonne, per lasciar scorgere le diverse prospettive. Poco alla volta, nella semioscurità, mi accorgo che ogni colonna è diversa dall’altra, ogni capitello è assolutamente originale, ogni decorazione è unica. Il fatto è che la provenienza delle colonne era già varia, era tutto frutto di un recupero da templi e palazzi antichi, più antichi. E ciò conferisce all’insieme quella bellezza che viene solo dall’unicità dei manufatti, dalla similitudine che non diventa mai uniformità. Qui nessuno stampo è stato usato, qui non c’è stato spazio per i narcisismi delle simmetrie assolute.


I basamenti di un paio di colonne, che rappresentano delle meduse capovolte o reclinate, paiono quasi un’intrusione dell’arte figurativa in qualcosa che ha assolutamente bisogno di non essere figurativo, per via delle prospettive e delle geometricità dell’ambiente sotterraneo. Eppure anch’esse ricordano che in questo luogo celato alla vista dei passanti non si può dimenticare l’elemento umano e nello stesso tempo il suo creatore divino, non si può dimenticare che l’acqua è l’elemento essenziale di ogni uomo e della sua vita. Ma mi conforta che l’uomo sia stato capace di creare una tale bellezza e di nasconderla, quasi che la bellezza sia qualcosa che di per sé ha valore, anche se nessuno mai la vede. Anche Dio, che è bellezza, nessuno mai lo vede in faccia.

martedì 17 novembre 2009

La Serbia orfana del patriarca Pavle


La Serbia piange il suo patriarca ortodosso, morto alla veneranda età di 95 anni. Era salito alle cronache internazionali nel 1999, in occasione del bombardamento di Belgrado da parte dei missili Usa. Avevo percorso la Serbia in quell'occasione, da Nord a Sud. Cronaca di una breve sosta in un monastero ortodosso del Sud.

Tornando da Niš l’autostrada è interrotta di nuovo. Usciamo a un tiro di schioppo dal Monastero di Ravanica, eretto dal principe Lazzaro, il più popolare monarca della Serbia medievale, che trovò la morte - guarda caso - nella terribile battaglia di Kosovo Polje, che aprì la strada ai musulmani. È sepolto qui. La travagliatissima storia del monastero è il riassunto dell’esperienza dell’intero popolo serbo.

Nell’oscuro e affrescato nartece, un monaco intona tetre preghiere contro Satana. Due monache, prostrate a terra, sottolineano le invocazioni con stridule voci d’oltretomba. All’uscita l’uomo in nero, giovane ma austero, ci intrattiene: «Ormai i veri serbi si contano sulle dita della mano: o ci convertiamo, o dovremo ancora patire. Sono tutti ormai nelle mani di Satana: in Kosovo rubano, uccidono, stuprano, non rispettano i comandamenti». Cita l’Apocalisse a piene mani: «Dobbiamo tornare alla purezza di Cristo, convertirci, ritrovare la fede. La gente ha sofferto, ma invece di tornare a Dio cerca di dimenticare». Se ne va, rifiutando una foto. Avrei voluto mostrarvi quegli occhi profondi e terribili. Come quelli di un’icona.

Ma di giusti in Serbia ce ne sono ancora, li puoi incontrare ovunque. Come quella coppia di Musla che, non toccata direttamente dalla guerra, si accorge però che tanti hanno i figli al fronte. Che fare? Il conforto e piccoli aiuti materiali. Poi nasce l’idea di legarsi con una catena di preghiere: mezz’ora l’uno, 48 persone, per tutto il periodo del conflitto. Sarà un caso, ma nessuno di quei coscritti viene ucciso. E quando uno di loro tornava, veniva portato in chiesa: la vita era una grazia.

O ancora Jovanka, quella donna che ha una famiglia di quattro figli da portare avanti. Il marito è un reduce di Vukovar: quattro mesi trascorsi in inferno - «non potevo, sparare sui ragazzini croati» -, finché il comandante non li istigò a disertare: «Non è una guerra questa, è un orrore», si giustificò. Esilio e disoccupazione. Ora lavora tutto il giorno, ma senza sicurezze. Lei invece ha conservato il suo posto alle assicurazioni, 150 marchi. Parla a valanga, forse per la tensione accumulata, discorsi apparentemente sconnessi, ma legati da un filo d’oro: «Ogni rumore ci fa paura, ogni sguardo ci sembra un assassinio. Ma non dobbiamo più pensarci, dobbiamo andare avanti con la fede in Dio. Prego molto. Non guardo i nuovi ricchi, quelli che fanno i soldi con la guerra. Ogni uomo ha la sua coscienza, anche questi speculatori, anche gli americani. Ci accontentiamo di quello che la provvidenza ci dà. Non voglio odiare nessuno, anche se vogliono farmi credere che si debba farlo per restare serbi». Fare quattro figli tra due guerre è un atto di coraggio. E di giustizia.

venerdì 13 novembre 2009

Obama, ricorda il cielo dei giapponesi!


Il presidente Usa è in Giappone: un confronto difficile. Per quanto possa sembrare assurdo, in un Paese tecnologizzato come quello del Sol Levante, viene il desiderio di ricordare al presidente che è impossibile capire i giapponesi senza assecondare la loro sete di assoluto (ordinato). Visita al tempio Meiji Jingu, nella capitale Tokyo.

Meiji Jingu è il santuario scintoista dedicato all’anima dell’imperatore Meiji e alla sua consorte, l’imperatrice Shoken, morti rispettivamente nel 1912 e nel 1914. Erano considerati dal popolo dei trionfi di virtù, per cui vollero dedicar loro questo tempio imponente e straordinariamente ben concepito. Nel 1920 fu concluso. Tre aree principali lo compongono: Naien, il recinto interno, che racchiude i templi; Gaien, un vasto parco che ospita esposizioni, ristoranti e centri culturali; il Meiji Memorial Hall. 120 mila alberi compongono il parco, di 365 specie diverse, in un tripudio di toalità diverse di verde, su 700 mila metri quadrati in pieno centro della città, un vero lusso vista la fame di spazi di cui soffre la città di Tokyo.

Si entra attraverso un’immenso portale scintoista, il Cancello di Torii, e si scende dolcemente per ampi viali che fendono la foresta dalle mille sfumature, popolata da uccelli di mille specie diverse, che rallegrano il deambulare con la loro dolce musica. Lunghe file di scolaretti in divisa, col capo protetto da cappellini candidi che brillano allorché i raggi del soe li colpiscono, filtrando tra la vegetazione, accompagnano coi loro gridolini contenuti l’avvicinamento al Tempio principale, ricostruito nel 1960, dopo essere stato bruciato nel corso della nefasta Seconda guerra mondiale.

È una caratteristica dei templi giapponesi, quella di essere ricostruiti più volte nei secoli – sono tutti di legno, o quasi, e perciò stesso fragili –, esattamente uguali al progetto iniziale. Mi dicono che lo stile è quello Nagarezukuri, e che il legno usato è soprattutto quello di cipresso giapponese.
Nel grande piazzale antistante il tempio, il sole bacia il suolo con violenza, obbligando alla ricerca di una messa a fuoco dello sguardo più riposante. E riposante è il ciuffo di preghiere – di legno o di carta – che contrappuntano gli spazi, ordinate e curate, annodate o appese, segno di una fede che fa dell’ordine la propria essenza.

Tutto nel cosmo è ordinato, tutto è scandito dai regolari tempi della religione della Natura, tutto è senza rischi. D’improvviso il personale in costume che sta spazzando il piazzale e ricomponendo i fili d’erba piegati dal vento nelle auole del tempio si arresta, si dirige verso il tempio principale, dove un bianco sacerdote sta colpendo con assoluta precisione il centro d’un enorme tamburo votivo, che pare voler scandire persino il tempo della città megagalattica che cresce fuori dal perimetro del tempio. La cerimonia dura lo spazio di pochi minuti, ma sufficienti per determinare la formale continuazione della vita corrente.

Come sempre, sono i tetti a dare il senso della bellezza, con le loro studiatissime inclinazioni, le improvvise sfuriate di energia celeste e le straordinarie attrattive terrestri mescolate nello spazio di qualche tegola cilindrica. I tetti, o della nipponica voglia di sfiorare il cielo.

giovedì 12 novembre 2009

I copti nelle loro cittadelle


Continua la "pressione sociale" su tante comunità copte, in Egitto: accade anche in queste settimane che un certo numero di ragazze cristiane vengano invitate dai fidanzati musulmani ad abiurare la loro religione nativa per poter essere da loro sposate. Viaggio in una delle maggiori "fortezze" spirituali del cristianesimo copto-ortodosso, a Wadi Natrun.


Il nutrun era il sale con cui venivano mummificate le salme dei faraoni e dei membri delle loro famiglie. Da nutrun, ecco Wadi Natrun, la valle del sale, cento chilometri a nord-ovest del Cairo, una sorta di oasi oblunga che si estende per una ventina di chilometri a sud dell’autostrada verso Alessandria. D’improvviso, dopo alcuni chilometri di una lingua d’asfalto che sembra costantemente minacciata dall’invasione della sabbia – in queste terre è costante la lotta dell’uomo contro le forze oscure del deserto e della sua invadenza –, ecco una sorta di fortino, protetto da mura alte una decina di metri, intonacate di fresco e dipinte col colore della sabbia, quello che meglio protegge dal calore impietoso di queste parti. Una mimesi che vuol essere antitesi.


Dal profilo della roccaforte spuntano due o tre campanili, sovrastati dalla tipica croce ortodossa. È domenica, e nonostante la giornata di festa qui in Egitto sia il venerdì, la folla è copiosa. La chiesa più antica ospita famiglie venute sul posto per battezzare in un luogo santo i loro piccoli avvolti in graziose vesti bianche. Quattrocento persone saranno presenti, in un misto dolciastro di odori umani e di profumi d’incenso e cera fusa. La gente, come sempre in ambienti ortodossi, va e viene, interessandosi o disinteressandosi alle vicende liturgiche, che durano tre o quattro ore, ovviamente. Come nelle moschee tocca lasciare le scarpe all’esterno della chiesa.

Aspettando abuna Philippos, visito la vera e propria cittadella costituita dal monastero di San Bishoy, uno dei quattro insediamenti copto-ortodossi situati nella vallata. Uno di questi, quello consacrato a san Macario, è chiuso al pubblico, perché il suo attuale vescovo-priore – un uomo in odore di santità che dicono compia un miracolo dietro l’altro – vuole che i suoi monaci vivano appieno la regola del vero monachesimo nato in Egitto con Sant’Antonio il Grande, e codificato dalla regola di San Pacomio. Tra le cui norme c’è quella dell’assoluta separazione dai fedeli, una stretta clausura.


Trent’anni fa questi monasteri attraversarono un momento di forte decadenza; ma poi, non si sa bene per che motivi, forse perché si è imposta nella Chiesa copto-ortodossa una corrente di pensiero centrata sulla convinzione di dover difendere la propria fede eroicamente, promuovendo un certo spirito di persecuzione non sempre corrispondente alla realtà dei fatti.
Nella visita entro nel cantiere della nuova grande chiesa che potrà ospitare quasi un migliaio di persone. Vorrebbero concluderla per Pasqua, auguri!


Papa Shenouda – suprema autorità copto-ortodossa – viene proprio da questo monastero, e vi ritorna appena le sue incombenze glielo permettono. Tra il settembre 1981 e il gennaio 1985, è stato addirittura confinato in questo monastero dal presidente Sadat, per la persecuzione violenta avviata dal regime contro la Chiesa copto-ortodossa, che ha portato in prigione una cinquantina di vescovi e sacerdoti, oltre a centinaia di laici. Il motivo di tale persecuzione era indicato nella costruzione abusiva di nuove chiese, accusa rivelatasi totalmente infondata.


Il governo, tra l’altro, aveva arrestato nello stesso tempo anche una dozzina di imam di Al-Azhar, in modo che non si potesse accusare il potere di avere fatto discriminazioni di sorta. Poi, l’8 ottobre dell’81, Sadat fu assassinato, e il suo successore Mubarak cercò di sistemare la faccenda in qualche anno di lavoro. Per quattro anni il monastero, quindi, rimase isolato dal resto del mondo da una cospicua cintura di sicurezza attuata dall’esercito.

Finalmente arriva abuna (cioè padre) Phlippos, un uomo sulla settantina dal sorriso intelligente ma gioviale, un uomo d’azione che è diventato un uomo di preghiera. La gente lo cerca e gli bacia la mano, ma lui vuole evitare tali manifestazioni di rispetto. Anch’egli, come la maggioranza dei suo confratelli, è entrato in monastero in età adulta, dopo essersi laureato in ingegneria ed avere esercitato la sua professione per cinque anni.


È in questo monastero dal 1972, dopo aver trascorso dodici anni in un altro luogo – che per pudore non vuol dire –; resta misterioso il motivo del cambiamento, ma pare legato al problema della tensione tra governo e chiesa di quegli anni. «In ogni caso – mi spiega con convinzione – sono diventato monaco per amore del Cristo e degli uomini. Ho capito che l’uomo non può vivere senza preghiera, come il corpo non può vivere senza cibo». Ha scritto diversi libri, tra cui uno sul complesso calendario copto e una storia della Sacra famiglia neil suo soggiorno egiziano, basandosi sulle innumerevoli tradizioni – non sempre storicamente plausibili – mantenute vive nella sua chiesa.

Con abuna Philippos cerco di penetrare nella vita dei monaci – in questo monastero sono 150, con decine di giovani che desiderano entrarvi –, tutta centrata sulla preghiera, Talvolta, per feste particolari, si svegliano alle una meno un quarto, rimanendo poi in adorazione fino alle prime luci dell’alba, quando comincia la celebrazione eucaristica… Negli ultimi tempi, però, le visite ai monasteri si sono moltiplicate, e così taluni monaci lamentano la confusione che regnerebbe nel monastero. Ma il nostro caro abuna Philippos non condivide tale opinione: accogliere gli ospiti equivale ad una vera opera di evangelizzazione.

La vita comunitaria è limitata al lavoro comune e alle liturgie; ma non mancano coloro che sono impegnati per una maggior comunione fraterna. C’è comunque, soprattutto nei monaci più avanti negli anni, una certa indipendenza: il nostro abuna, ad esempio, ha raggranellato i fondi necessari per costruire un orfanotrofio.


Faccio poi notare la presenza di alcuni telefonini nelle mani dei monaci: «Sono solo esigenze dell’accoglienza – mi spiega abuna Philippos, che gioca proprio con un mobile –, e sono pochi i monaci che lo possiedono con l’autorizzazione dell’abate. Papa Shenouda non era favorevole alla introduzione di tale meccanismo, ma è stato impossibile resistere, con centinaia di migliaia di visitatori all’anno. Ma la televisione non è entrata, e così Internet. Non ne abbiamo bisogno, la nostra vita è piena, anzi pienissima. Dobbiamo continuare ad offrire a tutta la chiesa la nostra radicalità di vita, dobbiamo mantenere la sacralità del luogo».

La storia di questo monastero data al IV secolo. Il fondatore, San Bishoy, nacque nel 320 e morì nel 304. Da allora qualche monaco è sempre restato nel convento, e ha continuato a curare l’intonaco perfetto dei muri spessi talvolta anche due metri. Ognuno ha compiti ben precisi nel convento: ci sono anche gli artisti, gli studiosi, chi fa la cucina e chi cura l’orto.


Ed è proprio in questa vita che cresce l’amore reciproco tra i monaci, senza badare a chi fa l’eremita e a chi accoglie invece i visitatori, a chi mangia solo e a chi in compagnia. Monaci che sono il nerbo della Chiesa copto-ortodossa, perché solo loro possono diventare vescovi; e perché sono loro che danno l’esempio della preghiera. Sono più di mille in Egitto, i monaci, ed hanno aperto altri monasteri in giro per il mondo, tra cui uno persino a Milano.

La visita si conclude salendo gli erti e sconnessi scalini che conducono alle cappelle di Sant’Antonio e di San Michele, nei due piani superiori della fortezza, protetta da un ponte levatoio e da mura spesse un paio di metri. Nella prima cappella due giovani monaci intonano un bellissimo canto accompagnandosi con triangolo e cembalo, i soli strumenti musicali ammessi nel monastero. È un inno d’accoglienza che si perde nella notte dei tempi, fino ai faraoni. È stato proposto anche per l’accoglienza di Giovanni Paolo II in Egitto. Dice: «Tu sei la pace, dammi la pace». Nella cappella di San Michele – che in tutti i conventi copti-ortodossi si erge sul tetto del monastero, perché l’arcangelo apra le sue ali a protezione dei monaci – preghiamo il Padre per l’unità dei cristiani e per la pace nel mondo.

I saluti: i monaci non vogliono più lasciarmi partire, e guardano fuori dalle mura come se esse portassero fuori dal mondo, e non come se introducessero al mondo. Questa è la loro millenaria forza.

mercoledì 11 novembre 2009

Il Libano di Hariri è nelle sue pietre


Il 10 novembre è stato varato il governo Hariri, che dovrebbe reggere le sorti del Libano. Un compromesso è alla base del successo del figlio del premier assassinato tre anni fa. A Biblo, "la città più antica del mondo" va ricercata la plurimillenaria vocazione libanese alla coesistenza di diverse culture e religioni.


Non esistono molti siti al mondo come Biblo, Jbail in arabo, sulla costa mediterranea libanese, quaranta chilometri al nord della capitale Beirut, sulla strada costiera verso Tripoli: i millenni in un fazzoletto di terra proteso verso il mare, dal V millennio prima di Cristo in poi, con metalli e ceramiche e poi il tempio di Baalat Gebal, costruito su una precedente grotta sacra, i fenici e le loro navi, gli amorini e gli egizi in lotta tra loro, e poi gli hyksos asiatici, greci e assiri e persiani, romani e ottomani, crociati e saladini… Qui è stato ritrovato uno dei primissimi alfabeti conosciuti, d’origine fenicia.

Sapevo che un passaggio non certo ufficiale, ma almeno tollerato, portava ad una tomba assai affascinante ed antica, quella di Yp-Shemu–Abi, principe del IX secolo avanti Cristo. Mi ci vogliono dieci minuti di ricerca per individuare il pozzo giusto, tra i tanti che forano il terreno in profondità. Scendo una dozzina di metri attraverso un camminamento che nei millenni con tutta probabilità era una scala riservata ai sacerdoti della religione pagana dell’epoca. Lo si intuisce dalle parvenze di gradini che lungo le pareti dell’angusto passaggio ancora s’intravedono, mentre nel camminamento praticabile sono quasi completamente scomparsi. In una profonda nicchia alla base del pozzo, un’astronave riposa con le sue antenne come enormi bottoni, antico sarcofago di un re perso nei millenni.

C’è un altro pozzo – Bir al-Malik – che non può non attirare la mia attenzione per le dimensioni dell’apertura – una quarantina di metri – e per la sua profondità – una cinquantina –; sul fondo si trovava una fonte, sotto il livello del mare, dedicata a Osiride, la dea della fecondità, alla quale s’abbeveravano le donne sterili, o presunte tali. Funzionò, dicono, per tre millenni: quante nascite debbono essere state attribuite ai poteri miracolosi delle sue acque? Il mistero della vita, data o non data, sta anche in questa fonte. Al visitatore non è concesso di scendere al luogo dove una volta zampillava l’acqua: una rampa a spirale ancora si scorge lungo le pareti del pozzo che pare un imbuto assai ripido.

Ma il mistero della vita e della morte sta ancora più in un’altra acqua, quella del mare, onnipresente a Byblos, come un orizzonte e una minaccia, una speranza e una frontiera. Il sito dei neolitici e dei crociati pare una vasta scalinata degradante verso l’infinito liquido, e ascendente verso l’infinito gassoso. Una scalinata materna, nella attrazioneliquida, paterna in quella gassosa. E me l’immagino popolata in un convenire sincronico di uomini e donne vestiti di pelle, di ferro, di lana, di nulla o di tutto. Vestiti di fede: oggi è venerdì santo, e nell’aria si spande l’omelia del prete maronita, e poi il sermone dell’imam sunnita. Impossibile distinguerli persino per chi conosce l’arabo. Parlano di sofferenza e di sacrificio. Parlano del Libano.

lunedì 9 novembre 2009

Viaggiando il dolore con Alda Merini


Uno scritto della poetessa milanese, scomparsa la scorsa settimana. Una scusa per meditare sulla sofferenza umana, il viaggio che "prende" l'anima al 100 per cento, oltre che il corpo.

Per sentire l'abbraccio del dolore bisogna pregare affinché il dolore non distrugga le nostre povere forze, perché la carne terrena come la morte non diventi un cane randagio mangiato da mille lupi.

Così si diventa eterni, vestendo la propria carne di miseria e tenendo per sé quella conoscenza dell'amore che è data solamente ai santi e ai profeti.

Ogni cosa bella diventa peritura nelle mani deegli uomini, ma ogni cosa bella baciata da Dio diventa una rosa rossa piena di sangue.

(Da Alda Merini, Mistica d'amore, Frassinelli, p. 23 - La foto è stata scattata all'Edhi Village di Edhi Abdul Sattar, nei sobborghi di Karachi, in Pakistan)

venerdì 6 novembre 2009

Al mercato di Rawalpindi colpito da un kamikaze


I talebani, o chi per loro, hanno colpito anche al Rajah Bazar di Rawalpindi. Vi ero stato nel gennaio del 2005.

Poco o nulla di interessante offre Rawalpindi, antica città più volte distrutta e più volte ricostruita. È la gente che invece è più che interessante. Così non può mancare un breve giro al Rajah Bazar di Rawalpindi, un concentrato di umanità come pochi. Noto che la gente è particolarmente benevolente nei confronti miei, nonostante sia uno dei pochissimi stranieri ad avventurarmi nei dedali delle viuzze del bazar. Tanta gente, vedendo la mia macchina fotografica, chiede che gli scatti una foto; altri, su mia richiesta, accettano. Uno solo rifiuta, ma con una cortesia ed un sorriso che sembrano venire da un altro mondo. Noto che le donne sono vestite nei modi più diversi: democraticamente si fiancheggiano burqua “talebani”, donne col volto coperto, altre con un semplice velo, e coloro che non portano nulla sulla testa.

Poi un salto alla grande e impressionante moschea di Shah Faisal, donata dal governo dell’Arabia Saudita al Pakistan, e costruita su progetto di un architetto turco dal 1976 al 1986. La facciata, imponente e leggera, è tutta in marmo bianco di Carrara. L’interno ospita 10 mila fedeli, che con i 50 mila e più dell’esterno rendono tale moschea la più imponente del paese. Quattro minareti, alti 88 metri, paiono missili lanciati verso il cielo: e tali sembra dipingerli un detto popolare della capitale pakistana, costruita solo negli anni Cinquanta, come vetrina per il neonato paese. Così assomiglia negli spazi a Brasilia e a New Delhi, città costruite più o meno nello stesso periodo, e tutte e tre prive di una vera anima. Gli ampi spazi dei viali e la quadratura della pianta della città sembrano così lontani dalla mentalità pakistana che ci si chiede come mai si possano costruire obbrobri del genere. Ma questa è un’altra storia.

mercoledì 4 novembre 2009

Crocifissi

La corte europea di Strasburgo ha vietato ieri, con una discussa sentenza, l'affissione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane. Il crocifisso non è solo un patrimonio europeo, è un patrimonio mondiale. Immagini colte qua e là nei continenti nel corso dei miei viaggi.

Ponte reale, Stoccolma, Svezia








Cattedrale di Tunisi, Tunisia











Casa di Anania, Damasco, Siria








Monastero, Mar Mousa, Siria








Monastero rupestre, Davit Gareja, Georgia







Scuola n° 1, Beslan, Ossezia del Nord











Casa del comune, Losanna, Svizzera








Calvario, Gerusalemme, Terra Santa











Museo diocesano, Cartagena, Colombia








Cattedrale di Westminster, Londra, Inghilterra











Cattedrale, Tashkent, Uzbekistan







Chiesa di Santa Maria degli angeli, Tripoli, Libia











Monastero, Wadi Natrun, Egitto








Monastero, Cozia, Romania











Chiesa di Santa Maria Maggiore, Baghdad, Iraq







Chiesa della Sagrada Familia, Barcellona, Spagna











Monastero, Gandzasar, Nagorno-Karabakh
































martedì 3 novembre 2009

Le Twin Towers ci sono ancora

E' arrivata a New York la nave da guerra americana costruita in Louisiana con l'acciaio delle Twin Towers, la "Uss New York". Ho ritrovato i miei appunti di una visita alle Twins del maggio 1997.

Oceani bianchi e dorati. Viaggio tranquillo, via Zurigo: hostess gentili, senza ostentazione, precisione cronometrica della Swissair. Oceani dorati dello sfavillio delle onde e bianchi dei batuffoli delle nuvole. Ore e ore, come per ricordare che in America ci si va per volare alto, come le Torri gemelle, per scivolare sulle onde dello Spirito. Poi due ore e passa sulle autostrade che attraversano New York. Dal Whitestone Bridge, Manhattan sfida la geometria dell’orizzonte con le sue guglie, come dita d’uomo protese al cielo, la preghiera delle cattedrali laiche. Sfrecciano i pendolari della periferia che ritornano a casa; una lunga teoria di auto col solo conducente.

L’indomani, dopo un giro in auto per Queens e Brooklyn, faccio quattro passi alla base dell’immenso ponte di Verrazzano, un capolavoro di ingegneria e una metafora dell’America di oggi, un grande ponte verso il resto del mondo. Poi, attraversato l’Hudson per il Brooklyn Bridge, vecchio ma sempre affascinante, non solo per “la gomma del ponte”, parcheggio ai piedi del World Trade Center, celebre per la coppia di grattacieli più alti del mondo, superati solo dai gemelli eretti a Kuala Lumpur.

450 ditte per 50 mila impiegati affollano le due torri, architettonicamente discusse e discutibili, costruite tra il 1966 e il 1977. Avrei voglia di salire a piedi fino in cima, memore della mia passione alpinistica, ma mi scoraggiano tutti, a cominciare dagli inservienti: le scale sono faticose, certo, ma anche oscure e malsicure. Così mi rimetto nella fila per gli ascensori più veloci del mondo. Dal terrazzo al 107° piano, ammiro il mare di grattacieli, la statua della libertà, il formicolare di gente alla base dell’edificio. Impressionante. Veramente, come dicono un po’ presuntuosamente le pubblicità, siamo sul top of the world, sulla cima del mondo. L’uomo ha saputo arrivare “solo” a trecento e passa metri con le sue torri di babele. Dio è altro. Per la mente mi passa il fantasma assurdo di un aereo impazzito che si schianti sulle torri…