giovedì 26 dicembre 2013

Tempesta fuori stagione nei Caraibi


Georgetown e Orange Hill, ovvero la furia degli elementi naturali nei territori dei caribi.

Già appena lasciata la costa turistica del Sud dell’isola di St Vincent, una delle Isole Sopravento dei Caraibi meridionali, si possono notare sulla strada detriti d’ogni genere, fango e pozzanghere, pietre cadute dall’alto delle falesie. La notte di Natale è stata terribile, con la caduta di una quantità impressionante d'acqua. La popolazione è stata presa alla sprovvista, perché di questa stagione fenomeni come questi non se ne conoscevano.
Si avanza con prudenza. Poi, all’altezza del tunnel di Byera, un insolito movimento ferma il traffico. Sulla vallicciola cresciuta a monte della strada, s’è abbattuta una colata di fango che ha investito due o tre case e portato a valle qualche automobile. C’è scappato il morto, un anziano che stava dormendo, la cui stanza è stata invasa dall’acqua e dal fango. C’è dolore nelle parole degli astanti, uno dei quali è il figlio, così come un certo fatalismo. Il rapporto con la morte qui è decisamente diverso da quello che abbiamo da noi in Europa: se la nostra speranza di vita raggiunge ormai gli 80 anni, qui i 50 sono ancora un sogno… Mi raccontano che nel territorio caribi, più a Nord, sono morte altre cinque o sei persone, trasportate chissà dove dalle acque e dal fango che scendeva dalle pendici del vulcano La Soufrière, ancora attivo.
Passato il breve tunnel, oscuro, ecco che s’annuncia la seconda città del Paese, Georgetown. Dopo un primo momento di sorpresa nel vedere un abitato almeno all’apparenza ordinato e vivace, con una originale chiesa metodista e un’altra anglicana proprio sul lungomare, ingentilite e rese attraenti dagli ampi cimiteri all’inglese, prati curatissimi con tombe candide, mentre la chiesa cattolica qui giace abbandonata, senza tetto e ormai senza protezione alcuna, ecco che la cruda realtà dell’inondazione che ha colpito l’isola nella notte di Natale si fa vedere in tutta la sua crudezza. 
Le strade sono invase dal fango e dai detriti, qualcuno qua e là sta cercando di riattivare i canali di scolo delle acque, mentre la gente commenta più che darsi da fare. Arriviamo bene o male al ponte principale della città, o meglio quello che fu. È crollato su sé stesso, a metà della campata principale. Fortunatamente non era altissimo, un paio di metri, così che per miracolo, scendendo la prima metà del ponte e poi risalendo la seconda, si riesce ancora a passare in auto. Per poco, perché un altro ponte è irrimediabilmente crollato e ci si deve inoltrare verso l’interno per una deviazione istruttiva: non tanto per il disastroso stato delle strade e dell’abitato, quanto perché posso osservare un intero paese alla ricerca di acqua potabile, visto che le tubature sono saltate ovunque. 
Mi dicono che due sono le sorgenti disponibili: una da questa parte della città e un’altra, invece, sul litorale. E mi stupisce la semplicità della gente che fa la coda, magari grida ma poi aspetta il suo turno. E ci sono i giovani che aiutano i vecchi e i bambini che vogliono cooperare, e la vecchietta che con una scopetta piccola piccola cerca di aiutare nello sgomberare la via dinanzi a casa sua… 
Avanziamo oltre la città, verso la “riserva” delle popolazioni caribi, che qui non ha questo nome, preferendo quello di “territorio”. Solo nel territorio caribi, ci conferma ora la radio, sarebbero morte cinque persone e quattrocento persone avrebbero perso la casa. Lasciamo la città a fatica, per via dei ponti crollati. Ma ben presto, appena al di là del cartello indicativo che segna l’inizio del territorio caribi e l’avvio del cammino che porta alla cima del vulcano La Soufrière, con il mio amico Crespin, che guida da manuale nelle difficilissime strade di St Vincent, ci accorgiamo che probabilmente non riusciremo ad arrivare alla nostra destinazione, il villaggio di Owia, all’estremo Nord dell’isola, appena al di là di una baia che dicono incantevole, la Sandy Bay. La strada, in effetti, è spesso ridotta ad un mare di fango e detriti di ogni genere che si sono riversati sulla carreggiata. Più volte dobbiamo scendere per verificare la tenuta di ponti, muri di sostegno, curve sospese nel nulla perché la terra è stata scavata dalle acque al di sotto del manto stradale…
Un vero percorso del combattente, accompagnato dai locali, i famosi caribi, che non perdono occasione per intavolare qualche discorso con noi, ovviamente cominciando dai danni dell’alluvione. Le donne e i bambini, mentre i maschi sono impegnati nella risistemazione delle strade o nella salvaguardia delle case danneggiate, portano acqua alle loro case dalle sorgenti, perché l'acquedotto costruito qualche anno fa come segno di interesse dello Stato per la minoranza caribi è stato danneggiato in mille punti diversi dalla furia delle acque e così la potabilità è andata a farsi benedire (ma comunque l’acqua non arriva nelle case e nelle fontane). Finché, dopo diversi tentativi e dopo non pochi rischi per passaggi che forse non era prudentissimo effettuare, decidiamo di tornare indietro: questa strada “mangiata” (vedi foto) è troppo anche per chi è abituato a rischiare.  
Fantastico ritorno, perché tutta la gente che avevamo incontrato all’andata vuole sapere tutto quello che abbiamo visto e così condividere il dolore. Mi dice un vecchio barbuto: «Non è Dio che ci ha colpiti per farci credere di più in lui. Ma è la natura che ci ricorda che non siamo Dio». E dove mai ha studiato teologia questo contadino caribi?



martedì 10 dicembre 2013

Battersea, la periferia che è centro


Sulla riva meridionale del Tamigi, attorno a una vecchia centrale elettrica...

Ci sono immagini che restano impresse nella memoria e non se ne vanno più, anche decenni più tardi. Come quella che appariva sulla copertina di un album dei Pink Floyd, Animals, dove sullo sfondo di una centrale elettrica londinese volavano dei palloni aeronautici a forma di maiali rosa. Quel disco l'avevo imparato a memoria, nota dopo nota, lirica dopo lirica. E quella power station mi era diventata familiare, con le sue quattro ciminiere bianche che spuntavano da possenti assenti di mattoni che dovevano essere all'epoca rossi, ma che ormai erano diventati marrone scuro: mattoni che formavano un'insolita scalinata ovviamente non praticabile.
Oggi mi ritrovo alloggiato per un fine settimana di lavoro a Londra presso degli amici che abitano a Battersea, sobborgo londinese dominato proprio da quella enorme struttura industriale, una presenza ingombrante che ormai non ha più nulla di pericoloso, perché la centrale elettrica è in disuso da qualche anno. L'enorme edificio è parte di un progetto di ristrutturazione che riguarda l'intera zona limitrofa sul Tamigi - vecchi gazometri, magazzini abbandonati, abitazioni collassate  -, che verrà trasformata in un quartiere di lusso con tanto di spiaggia che darà direttamente sul fiume.
Accanto alla centrale elettrica cresce la città, un quartiere che, come in altre zone della metropoli, vede affiancarsi case a schiera in puro stile vittoriano di indiscutibile cachet a vecchie abitazioni popolari che tradiscono la sostanziale povertà dei suoi inquilini. L'ordine è comunque assicurato ovunque, mentre i negozi e i ristoranti tradiscono la vocazione cosmopolita di tutta la metropoli londinese: ci sono afghani e cinesi, marocchini e pakistani, italiani (un locale chiamato evocativamente “Bunga bunga” pavesa il tricolore) e greci... E poi c'è un magnifico parco (... ettari di bosco  prato) che pare un invito alla deambulazione riflessiva. C'è persino una grande pagoda dai Buddha dorati e pensanti a spingersi all'introspezione e ala successiva estroversione.
A Battersea si respira l'atmosfera londinese, quindi, ma nello stesso tempo si vive di periferia, fuori dalle forsennate scorrere dei turisti che trasformano Londra in una bolgia.

martedì 3 dicembre 2013

Storebælt, il vento padrone del ponte



Un'opera ingegneristica tra le più ardite al mondo, tra le isole danesi.

I danesi sono popolo rotto al freddo, al vento, al mare tempestoso, alla convivenza con le avverse condizioni meteorologiche. E sono pure persone industriose e indomite. Non sorprende, allora, che già nel 1986 abbiano iniziato un’opera ingegneristica straordinaria, conclusa dodici anni più tardi, per unire le due regioni più popolate e importanti del Paese, la Selandia e lo Jutland, passando per la mediazione dell’isola di Fionia, Fyn in danese. I dati sono semplici: 254 metri di altezza dei piloni, cavi lunghi fino a 85 metri, ampiezza del ponte principale di 48,2 metri, due ponti per un totale di 15 chilometri, un tunnel ferroviario di 8 chilometri, un’isoletta minuscola e ingrandita al punto da diventata piattaforma per i due ponti…
Oggi, a bordo di un’utilitaria, con una coppia di amici, vogliamo visitare l’isola di Fiona e per farlo dobbiamo percorrere il ponte sullo Storebælt. È giorno di vento quest’oggi, le raffiche giungono ai 50 chilometri orari, cosicché le piccole auto – troppo leggere – e i grtossi Tir – troppo ampi – debbono procedere con estrema cautela: ai 60 orari di vento scatta di solito la chiusura del ponte, il che avviene una ventina di volte all’anno. Passiamo ed effettivamente gli scossoni provocati dal vento non sono pochi e incutono un certo timore, soprattutto all’autista che stringe il volante come fosse un’ancora di salvezza. Il primo tratto del trasbordo, quello con il ponte a un’unica campata aerea e da brivido, dà un’impressione di leggerezza e precarietà, anche se le dimensioni dei due piloni del ponte paiono rassicurare, così come rassicuravano già una dozzina di chilometri prima di arrivarci, quando dalla linea dell’orizzonte della terra fuoriuscivano come due immense crune d’ago erette chissà con quali scopi. Giunti all’isola semi-artificiale – su cui fa tenerezza l’apparizione del vecchio faro che pare un vecchio cimelio da rottamare –, inizia il secondo ponte, che invece corre orizzontale su una serie di piloni in fondo modesti, ma comunque profondi. Ma è su questo tratto dell’opera ingegneristica più importante mai compiuta in Danimarca che il vento soffia impetuoso e sembra accanirsi con straordinaria tenacia sulla nostra piccola e rossa utilitaria. Il vento, senza dubbio, appare il vero padrone del ponte, al punto da sembrare di voler trasformare la piuatta pista di asfalto del ponte in una scalinata coi gradini irregolari: una folata uno scalino!

martedì 26 novembre 2013

Tivoli (Copenaghen), le luci di Natale senza lui



Nello splendore della festa consumista, sparisce la dimensione spirituale. O no?

È novembre, verso il declino. Quest’anno a Copenaghen hanno deciso di accendere le prime luminarie natalizie già il primo di ottobre. Tutto logico, se si considera che ormai il 25 di dicembre non segna più la nascita di Betlemme, ma la maggior festa commerciale del mondo. E allora, perché non dilatare il periodo di sfruttamento merceologico della ricorrenza oltre ogni limite plausibile? Le feste religiose sono accanitamente legate a ferrei calendari liturgici, la memoria non può essere sottoposta all’umano decidere, ma deve rimanere intoccabile nelle sue fondamentali caratteristiche. Così un Natale privato del Bambinello è la migliore occasione per far soldi a palate. Così qui a Copenaghen, dove i più attenti al significato della festa paiono… i musulmani!
C’è un parco, a Copenaghen, appena a ridosso del Comune e della piazza del Rådhus che pare il trionfo della festa natalizia firmata non più dagli evangelisti ma dalle marche più in voga. Si Chiama “Tivoli”. In uan dozzina di ettari offre tutte le luci che la città è capace di scovare nei suoi magazzini. Pagato il biglietto d’ingresso, salatissimo, nel freddo pungente della sera, con la complicità delle tenebre, ci si immerge in un mare di luce artificiale, analogica o digitale che sia, che ricopre con le sue onde a frequenze diverse le baracche dei negozietti, i ristoranti di lusso, le bettole che vendono vin brulé, le montagne russe, quei famigerati marchingegni che ti sbatacchiano su e giù come sacchi di patate e che tanto piacciono ai bambini, le deliziose stelle artigianali di legno e di vetro, pagode e simil-moschee, locali chiamati Hercegovina o Topkapi… ma non trovo nemmeno una croce, una mangiatoia, un qualche segno cristiano, forse solo qualche cometa e alberi di Natale a profusione, ma che di cristiano hanno poco. E così, d’improvviso, la fantasmagorica festa della luce pare piombare nella tenebra del tradimento reiterato, Giuda pare arrivato a Betlemme. Tutto è fantastico, ogni dettaglio fa sognare, ogni scatto fotografico immortala un angolo di paradiso laico terrestre, ma Gesù non esiste più. Anzi no, è una vecchietta rom di origini bulgare che mi mette tra le mani un’immaginetta gualcita della grotta del Salvatore, chiedendomi un soldo. Gliene do una manciata, Natale è ancora Natale! Risorgerà!

martedì 19 novembre 2013

Spišská Kapitula. I due poteri



Slovacchia profonda. Un castello e una cattedrale come metafora del rapporto Stato-Chiesa. Visita dell'agosto 1993

La Slovacchia, paese di recente costituzione dopo la separazione dalla Cechia, avvenuta il primo gennaio del 1993, è in realtà un luogo dove la storia si è fatta, si è costruita con una forza pari alle difficoltà: la guerra con gli ungheresi, il passaggio costante di migranti, l’impero austro-ungarico e quello russo, l’Unione Sovietica… Accompagnando un gruppo di giovani francesi, mi ritrovo a far un po’ di turismo alla ricerca di gioielli gotici, o giù di là. Ne trovo uno in particolare a Levoça, ma anche nei dintorni. La sorpresa più grande, però, me la riserva un luogo magico, che in pochi chilometri sintetizza l’umana lotta per il potere, che in Europa sostanzialmente si è riassunto nel conflitto tra Stato e Chiesa, attrazione fatale e lotta senza quartiere: Spišská Hrad e Spišská Kapitula, cioè il castello e la cattedrale. Quest’ultima, una vera e propria cittadella, comprende la cattedrale di San Martino, un ex monastero e un'unica strada, circondati da mura. Dalla porta inferiore si ha una magnifica veduta del Hrad, il castello di Spiš, che sorge sulla collina di fronte. Dal XII secolo ha acquisito importanza con una collegiata e un capitolo. Nel 1776 il luogo divenne diocesi e dal 1815 è centro teologico. La cattedrale data al XIII secolo. È un luogo che appare quasi indifeso rispetto alla possanza del sovrastante castello, con el torri campanarie che paiono da lontano giochi di bambola. Dall’alto, perché dal basso, al conrario, danno l’idea di una sfida al potere temporale, basta mettersi dalla giusta prospettiva ed ecco che le croci paiono lance rivolte al cielo e al castello. Il potere… è sempre una questione di prospettiva: da un lato appare possente e invincibile, dall’altro manifesta sempre la sua debolezza.

mercoledì 13 novembre 2013

Lucca, la città perfetta perché imperfetta



Una delle città toscane meglio conservate, percorsa da un afflato di medievale bellezza.

Una conferenza mi porta in quel di Lucca, una delle tante meraviglie d’Italia che non sono ancora riuscito a visitare e conoscere alla bella età di 56 anni. Non c’è nulla di cui scandalizzarsi, qui nella Penisola (e nelle isole!) la quantità di bellezze naturali e artistiche è di una mole tale che tutti siamo giustificati delle nostre mancanze… È una giornata di pioggia, da Firenze un amico in carrozzella vuole farmi conoscere la sua città. E comincia ovviamente dal pranzo, in un ristorante del centro, Gli orti. Ambiente un po’ retro, diciamo anni Cinquanta, quelli della ristorazione gentile e premurosa. Pappardelle al coniglio, guancia di vitello e torta alle punte di erbe riuscirebbero a riconciliare il mondo con sé stesso. Ma non c’è tempo da perdere, il mio amico si sistema sulla sua carrozzella e via, la città ci appartiene, persino il sole fa capolino. È dall’attigua basilica di san Giovanni che s’inizia: eleganza, apertura, luce. E un battistero dalla cupola straordinaria.
Due passi sulle vie lastricate della città ed ecco il Duomo di San Martino, un vero capolavoro iniziato a costruire nel 1060, su una preesistente chiesa. E nel cuore del luogo di culto sta un sarcofago di straordinaria bellezza, quello di Ilaria del Carretto, scolpito da Jacopo della Quesrcia tra il 1406 e il 1408. Raffigura la nobildonna lucchese come una ragazza in posa dormiente, riccamente abbigliata e giacente su un catafalco decorato con putti reggifestone. Ai piedi della ragazza giace un cagnolino, simbolo della fedeltà coniugale. È quest’ultimo che non può non attirare l’attenzione, come conferma la superficie del marmo lisa dalle tante mani che nei secoli ci si sono appoggiate.
Ecco due torri straordinarie: quella dell’Orologio del 1390 e quella della famiglia Giunigi, che sulla terrazza sommitale inalbera (è proprio il caso di scriverlo) tre alberi, uno più affascinante dell’altro, quasi a diventare simbolo di un’intera città che ha saputo preservarsi integra, come gli alberi sulla terrazza: salirne le scale scure ma sicure e sbucare nella verzura è esperienza di forza e di bellezza. Mentre nel vicino Anfiteatro romano, cosiddetto perché di romano non c’è piùà nulla salvo il perimetro della piazza, si respira il Medioevo popolare ed elegante di queste parti.
Tocca tornare, la conferenza non mi aspetta: San Frediano, San Michele, palazzi vari, piazze una dopo l’altra… Ma il sigillo finale alla visita non può essere che un giro sulle mura integre della città, un esempio unico o quasi, chilometri di cinta assolutamente intatti. La città, appena al di sotto del livello delle mura, appare nel suo vero essere: una serie di gioielli racchiusi e direi protetti in uno scrigno forte e gentile, come deve essere nel rispetto della dama fatata di una città come Lucca.

martedì 5 novembre 2013

Garbatella, il quartiere più pazzo della capitale



Una passeggiata in una zona romana che nutre una vivibilità insospettabile.

Era uno dei borghi più popolari della capitale, e anche dei più malfamati, attorno alla seconda guerra mondiale. Un quartiere con una sua storia particolare, che ne ha determinato la conformazione, la pianta urbanistica e le architetture: Dopo la prima guerra mondiale, Roma visse un impetuoso sviluppo edilizio. Il settore sud della capitale, nelle intenzioni degli urbanisti umbertini, doveva essere connesso al lido di Ostia tramite un canale navigabile parallelo al Tevere, che non fu però mai scavato. Tale canale avrebbe dovuto fornire Roma di un porto commerciale molto vicino al centro della città, al confine tra Garbatella e Testaccio; nella zona a ridosso del canale avrebbero dovuto sorgere una serie di lotti abitativi destinati ad ospitare i futuri lavoratori portuali. Fu con questa idea che Vittorio Emanuele III posò la prima pietra a piazza Benedetto Brin, il 18 febbraio del 1920. La vocazione inizialmente marinara del futuro rione XXIII può essere desunta anche dalla toponomastica della parte più antica, ispirata essenzialmente a personaggi legati al mondo navale. Il progetto fu intrapreso in un'area allora semi disabitata e coperta da vigne e pascoli per pecore.
Ci ho abitato una decina d’anni, ma non l’ho vissuta intensamente, la Garbatella, lavoravo altrove, da mane a sera. Oggi, per un appuntamento mal compreso, mi trovo con un’ora di tempo, in una mattina fresca e serena. A zonzo me ne vado per le vie della Garbatella…. E la riscopro nella sua follia e nelle sue perversioni, ma anche nelle sue bellezze intuitive. Vie storte e vie dritte, contorte o quasi a spirale. Coi giardinetti delle villette e dei condomini quasi sempre poco curati, mentre fan mostra di sé i pini marittimi e le palme sopravvissute al punteruolo rosso, la macchia mediterranea picchettata dalle cartacce che la gente non ha imparato ancora a gettare nei cestini. E le architetture, archi e frontoni, balconi decorati e vasi di fiori spelacchiati curati dalla vecchietta in vestaglia che s’affaccia fumando avidamente una sigaretta e tossendo come un’ossessa, gli intonaci al 90 per cento non ridipinti da decenni e deturpati dai mostri delle paraboliche e dei condizionatori, i cortili tra due, tre, quattro caseggiati di tre o quattro piani decorati con stucchi lisci e arditi, i negozietti cadenti come il Bar della Garbatella dove sto scrivendo queste note con la compagnia di Nerone, un pappagallo grigio e chiacchierone che sta in gabbia, mentre poco alla volta la corte dei miracoli arriva alla spicciolata a bersi un cappuccino commentando la sonora sconfitta della Lazio contro il Milan. Chi reggendosi alle stampelle, chi appoggiandosi ai muri, chi abbandonandosi ancora addormentato sulle sedie rosse di plastica del bar. E poi la chiesa di san Francesco Saverio e il Teatro Palladio e l’eleganza di Piazza Edoardo Masdea… Tutto folle, tutto gradevole, tutto poco razionale. Come Roma.

martedì 29 ottobre 2013

Santa Felicidade, dove gli italiani hanno trovato la loro felicità

Viaggio in America Latina/10 - Un quartiere "gastronomico" di Curitiba, dove l'Italia ha sposa il Brasile.

Una delle ondate migratorie che hanno attraversato la storia d’Italia, è stata quella del primo dopoguerra, negli anni Venti e Trenta. Una delle mete privilegiate degli speranzosi lavoratori della Penisola più bella del mondo era il Sudamerica. Parte di loro finì nel Brasile meridionale, dove le terre di nessuno erano ancora tante e così le speranze di far fortuna. Nelle città nascenti, naturalmente, gli immigrati si riunivano a seconda delle lingue e delle nazionalità di provenienza e gli italiani non sfuggivano alla regola. Oggi, a quasi un secolo di distanza, si ritrovano interi quartieri che appaiono delle Little Italy e che portano ancora le tracce evidenti degli immigrati di una volta, mischiate alle chiese cattolica, ortodossa, ucraina, avventista, mormone… Le italiche reminiscenze si ritrovano nella toponomastica, innanzitutto, grazie a decine e decine di vie che riportano con la mente nel Bel Paese: via Taranto, via Veneto, via Piemonte, via Treviso, via Appennini, via Vittorio Emanuele II, via Garibaldi, via Carducci, via papa Giovanni, via Angelo Mazzarotto, via João Todeschini, rua Saverio Madalosso…
Ma ancor più sono i negozi e i locali che richiamano la nostalgia d’Italia, spesso oltre che con le insegne anche con architetture perfettamente kitsch, in stile antica Roma, castelli medievali, gotico veneziano… Riporto sul mio taccuino alcune insegne in questo sobborgo di Curitiba che è Santa Felicidade: Ristorante Venezia, Da Don Meneghetto, Merano pizzeria, Restaurante siciliano, Il Castelletto, Trevizzo verdura, Bigiotteria Strapasson, Ristorante Piemonte, Almoço italiano, Vinhos Dall’Armi, Mezzanotte salão, Cantina Famiglia Fadanelli, Minne Belle Fashion, Veneto vestiti, Passione della cucina, Merceria Italia, Firenze informatica… E al cimitero i nomi italiani si sprecano: che gli immigrati abbiano trovato la felicità da queste parti?

lunedì 21 ottobre 2013

Itaipú, le acque domate dalla pietra che canta



Viaggio in America Latina/9 - Una delle opere ingegneristiche più importanti del mondo, tra Brasile e Paraguay

Non capita tutti i giorni di poter toccare con mano quanto l'uomo sia capace di dominare la natura. E quanti rischi corra nel farlo. Itaipú è un luogo non molto lontano da una delle città più brutte e convulse del continente latinoamericano, quella Ciudad del Este dove si dice che non molto avvenga secondo la legge, quasi una tacita zona franca in cui le merci partono e arrivano senza pagar dazio. Itaipú si trova sul fiume Paraná, imponente sistema fluviale dall'incredibile portata. Sapendo poi che la pendenza del fiume e le sue cascate (a due passi si visitano le più belle cascate del mondo, quelle di Iguazú) avrebbero permesso di sfruttare adeguatamente quel fiume dal punto di vista idroelettrico, non stupisce come negli anni Settanta due Paesi spesso nemici come Brasile e Uruguay abbiano trovato un accordo per la costruzione di un'enorme diga che avrebbe creato un gigantesco invaso. I dati che leggo avvicinandomi al sito nel traffico caotico di Ciudad del Este sono impressionanti: 20 turbine per 700 megawatt ognuna, 196 metri di altezza, una diga costruita col ferro che permetterebbe di tirar su 380 Torri Eiffell, 128 mila chilometri di camion hanno asportato terra e pietra… E così le problematiche ad esso collegate: l’impatto ambientale, i problemi politici e quelli economici di una fonte di energia esclusiva per un Paese come il Paraguay…
Fortunatamente non ci sono molti compagni di visita, cosicché posso concentrarmi su un'opera ingegneristica straordinaria. Il primo belvedere, se così si può dire, lascia a bocca aperta, tanto vasto appare l'arco tracciato dalla diga, in totale una decina di chilometri con i terrapieni eretti accumulando la pietra rimossa nelle opere civili approntate. Le chiuse quest'oggi non sono aperte: anche se manca il fascino della forza della natura contenuta e sbrigliata, l'assenza di acqua e del suo frastuono permette di concentrarsi sull'opera ingegneristica stessa, che ha accumulato una montagna di cemento armato che appare quasi percorsa da avvallamenti e rilievi, attraversata da forme ripetitive e altre invece creative. Sono controluce, non posso dedicarmi nemmeno alle mie amate fotografie, cosicché posso percorrere idealmente due o tre volte l'intera silhouette della lunga diga, immaginando le strutture nascoste, le turbine, i chilometri di tubature...
Il percorso in bus fino al punto di osservazione sull’invaso, dal lato brasiliano, non può che essere una contemplazione ripetuta sulla grandezza dell'uomo che qui è riuscito a ingabbiare la “Straordinaria Potenza” rappresentata dal Rio Paraná, dapprima deviandolo e poi costringendolo nel nuovo alveo appositamente approntato lungo 170 chilometri. Immagino, passando accanto alle enormi condotte forzate, una ventina, equamente distribuite tra i due Paesi, la straordinaria potenza distruttrice convogliata in quelle pareti metalliche ricurve del diametro di dieci metri. E mi dico che Itaipú non può che essere definita una meraviglia dello spirito umano, pensando anche che sia stata ideata e realizzata da due Paesi che all'epoca non facevano certo parte del club esclusivo dei Paesi più industrializzati del mondo, e che anzi vivevano momenti delicatissimi per via delle dittature militari che vigevano sulle due rive del fiume.
Il dubbio che l’edificazione di tali opere sia possibile solo sotto regimi forti non se ne va: non a caso uno dei record stabiliti da Itaipú, quello della portata massima dell'invaso, è stato recentemente superato dalla devastante Diga delle Tre Gole, in Cina. In particolare mi pare evidente come la protezione della natura, ora così presente nelle popolazioni più sviluppate, impedisca nei Paesi democratici la costruzione di opere e infrastrutture il cui impatto ambientale non può essere conosciuto in anticipo più di tanto. Ma intanto l'intero Paraguay vive grazie a quest'opera d’ingegneria...

martedì 15 ottobre 2013

Ciudad del Este, le tre frontiere

Viaggio in America Latina/8 - Tra Paraguay, Brasile e Argentina, un reticolo di confini che ha tuttavia qualcosa di comune: il consumo.


Ci sono degli incroci della geografia e della storia che lasciano un po’ col fiato sospeso. Sì, perché nella mescolanza delle culture e delle etnie, oltre che delle politiche e delle tradizioni, che si creano all’incrocio delle frontiere, i punti di riferimento spariscono, o perlomeno vengono messi in secondo piano. Così è alla “tre frontiere”, quelle argentina, brasiliana e paraguayana che si incrociano poco distanti da quella meraviglia della natura che sono le Cataratas de Iguazú. Tre città praticamente si toccano: Ciudad del Este in Paraguay, Foz de Iguaçu in Brasile e Puerto Iguazú in Argentina. Un ferry collega quest’ultima alla prima, un ponte la seconda alla terza e un altro ponte la seconda alla prima. A Foz de Iguaçu, poi, un punto panoramico mostra la divisione delle terre, separate da un solo fiumi, il Rio Paranà. Un obelisco viene appunto chiamato “Le tre frontiere”.
Queste tre città vivono di turismo (anche per le visite ai vari parchi e zoo della regione, oltre che per la visita tecnologica a quella meraviglia dell’ingegno umano che è la Diga di Itaipú) e di commerci di ogni genere. Impressiona la quantità di alberghi, ristoranti e negozietti di souvenir che si trovano in tutte e tre le città, e il va e vieni di autobus e auto turistici, anche per i tre aeroporti internazionali che sono stati costruiti in prossimità delle tre città. Ma è il commercio che è la vera anima di questa contrada. In effetti negli ultimi anni la paraguayana Ciudad del Este, che raggiunge a mala pena il mezzo secolo di vita, è diventata un centro del commercio senza tasse, cioè del contrabbando, in particolare per quanto riguarda gli strumenti elettronici e digitali. Impressiona nella città la straordinaria concentrazione, l’affastellamento direi, di negozi, negozietti e superstore che vendono ogni sorta di questi oggetti a prezzi francamente stracciati. Le autorità paraguayane chiudono tutti e due gli occhi sui traffici che hanno come sede Ciudad del Este, anche per le ben note corruzioni che attraversano tutto il sistema politico del Paese. E i vicini argentini e brasiliani fanno buon viso a cattiva sorte, permettendo il passaggio di ogni sorta di merci attraverso i due ponti e il ferry che collegano tra loro le tre città. Non per niente non c’è l’abitudine di controllare, se non molto di rado, i traffici che si svolgono tra le tre città.
In particolare il ponte che collega Ciudad del Este a Foz de Iguaçu è un incredibile concentrato di traffici e commerci, con migliaia e migliaia di taxi e di moto-taxi, di omnibus e di camion che fanno la spola tra Paraguay e Brasile, senza controlli in pratica. Debbo chiedere quasi a forza di apporre un visto sul mio passaporto per entrare in Brasile e prendere poi l’aereo per Curitiba. Si ha l’impressione che la frontiera sia un enorme potenziale guadagno, un moltiplicatore di ricchezza e che, come accade per le mosche che si concentrano sulla carne putrida, così gli affaristi del mondo intero trovino qui di che sfogarsi. Non a caso a Foz esiste una delle più grandi moschee del mondo fuori dai Paesi musulmani, e non a caso a Ciudad del Este fioriscono i templi indù e buddhisti. Certo, qui è difficile trovare altro collante alla vita civile e sociale che non siano i soldi, dollari, euro, guaraní, real, peseta… Tutto va bene, purché in contanti.
 

martedì 8 ottobre 2013

Cataratas de Iguazú, l’acqua non è relativa all’uomo, ma il contrario

Viaggio in America Latina/7 - Uno dei luoghi al mondo in cui la natura coniuga in modo più sublime la bellezza e la forza.

È una di quelle esperienze che restano nella memoria. Ci si immerge nel numinoso, negli ancestrali o primordiali elementi e ci si ritrova a ragionar delle cose ultime. È quanto accade, anche in contesti turistici, allorché si riesce a far astrazione dalla presenza degli umani per immergersi, è il caso di dirlo, in uno di quei crogiuoli antropologici nei quali l’alto diventa basso, la destra passa a sinistra e l’abisso muta in vetta.

Iguazú – per gli argentini, mentre per i brasiliani che ne condividono la “proprietà” è Iguaçu – è nome che evoca antichità etniche, epoche geologiche quasi impensabili dell’animo degli umani, che preferiscono rimanere nel tepore rassicurante del proprio presente, avendo timore della dilatazione del tempo che avviene in luoghi come questo. Mi trovo a visitarle nel corso di un lungo periplo che mi porta da Montevideo a Curitiba, quindi non catapultato dall’aeroporto alle cascate all’hotel al ristorante al banchetto dei souvenir e poi di nuovo all’aeroporto, ma preparato da un lungo adattamento grazie ai poderosi e lunghissimi corsi d’acqua, con la cultura guaraní che qui era dominante, con le popolazioni che abitano queste terre divise in tre Paesi diversi. E allora capisco come queste cascate, assieme ad altri elementi naturali, abbiano potuto influenzare il pensare e l’agire degli umani indigeni.
L’impatto delle catarata dal lato argentino è a dir poco coinvolgente e per certi versi incute anche paura. Le passerelle metalliche (geniali!) che permettono di avvicinarsi ai salti, dapprima dalle sommità, poi alla base delle cascate, sono delle scorciatoie verso le profondità del mistero della natura, dei camminamenti che permettono all’umano di percorrere i sentieri del possibile e dell’impossibile, del limite da avvicinare ma non da superare: se appena un istante prima del salto nel vuoto paiono possibili e anzi invitanti la natazione e la navigazione, l’istante del superamento del limite toglie ogni illusione: la negligenza sarebbe fatale. E così non si può non riflettere sull’energia che la creazione riesce ad esprimere e a contenere, uno straordinario motore della vita sotto le sue molteplici, infinite forme. Energia che l’uomo vuole e deve ingabbiare per vocazione biblica – vedi la vicina diga di Itaipú –, ma rispettando i limiti oltre il quale l’abisso si apre.
Ci si bagna non poco nella visita alle cascate: quando le si osserva dall’alto, come all’impressionante Garganta del diablo, la gola del diavolo, per le enormi nubi di vapore che l’improvviso spostamento di masse d’acqua provocano; e quando le si osserva dal basso, per gli schizzi che vengono da ogni dove, senza rispettare le macchine fotografiche allergiche all’umidità, né tantomeno gli umani che le brandiscono come totem atti a fermare il tempo e ingabbiare lo spazio. L’acqua inzuppa gli abiti e bagna i volti e le mani facendo credere di aver ottenuto il passaporto per entrare in comunione con la natura, mentre il cammino è ancora molto lungo per riconciliare creature e creazione.
Non mi stanco di osservare e fotografare la frattura della crosta terrestre che genera le cascate più ampie e spettacolari del mondo. La scena, in effetti, permane sempre uguale, ma nel contempo muta istante dopo istante, se ne va e non si riproduce più esattamente nello stesso modo, interrogando l’attento visitatore sulle reali grandezze delle forze naturali che si generano e si rigenerano ogni istante per la silenziosa energia racchiusa nell’universo. Ed è così che le Cataratas de Iguazú portano dalla forza della Natura a quella dello Spirito, in un va e vieni, in una reciprocità che nutre l’anima e bagna il volto.

martedì 1 ottobre 2013

San Ignacio Guazú, sulla "ruta jesuitica"



Viaggio in America Latina/6 - Paraguay, le "reduccione", modello di società giusta e aperta

L’influenza gesuitica nella zona guaraní è stata sufficientemente pubblicizzata dal film Mission per poter evitare di raccontarne i tratti fondamentali di evangelizzazione e inculturazione, un esempio luminoso bruscamente interrotto per l’espulsione dei gesuiti dalle colonie spagnole, decretata nel 1767 dal re Carlo III. Nella provincia paraguayana chiamata guarda caso Misiones, tre sono i siti principali che hanno ospitato delle reduccióne: San Ignazio Guazú, Santa Rosa da Lima e Santiago Apóstol. Vale la pena di visitarli, anche se non sono i più appariscenti dei sette della serie paraguayana.
San Ignacio ha conservato il “vuoto” della piazza, attorno alla quale sono ancora in piedi non poche abitazioni destinate agli indigeni, che s’allungano su tre o sui  quattro lati della piazza, dipendeva se la chiesa era posta su uno dei lati corti dello slargo o se ne occupava il centro. Qui s’ergeva la grande chiesa dedicata a sant’Ignazio della prima missione aperta in territorio guaraní: era il 1609, e i gesuiti giunsero qui direttamente dal porto di Buenos Aires. È collassata negli anni Trenta e nessuno all’epoca ha pensato di ritirarla su. Solo negli anni Cinquanta è stato edificato un edificio di culto, che ha però qualcosa di inadeguato e invasivo. Meglio passare, allora, al museo diocesano, dove sono state raccolte non poche statue che erano state salvate dalle macerie della chiesa di San Ignacio: una meraviglia d’arte e semplicità, di teologia ed evangelizzazione. Mi diverto a fotografare i ricchi dettagli delle statue lignee e delle decorazioni. E mi par d’entrare in comunione con quei missionari e quei guaraní che avevano trovato un’intesa duratura. Molti, la maggioranza di quel pueblo, ma non tutti, bisogna ricordarlo. Un chilometro percorso su una bella strada sterrata rosso acceso, a saliscendi, mi porta a Tañarandy dove si erano concentrati gli irreductible, coloro cioè che avevano rifiutato di credere alla divinità dei cristiani, preferendo tenersi i loro dèi, senza dover soggiacere alle leggi della “repubblica dei gesuiti”. Ogni venerdì santo, per ricordare quell’affronto alla religione dei conquistadore, ha luogo proprio su questa strada un’affollatissima processione che attraversa il borgo lindo, i cui abitanti hanno preso l’abitudine di tinteggiare a colori vivaci le loro case.
A Santa Rosa da Lima c’è ben poco degno di nota: una riproduzione della casetta di Loreto – perché mai spendere allora 10 mila guaraní per visitarla? – e la torre campanaria in pietra rossa che risale al 1698, sulla cui scaletta di legno m’avventuro per ammirare la piazza della reduccione dall’alto. A mio rischio e pericolo: l’ultima rampa, instabile, pare dover cedere da un momento all’altro, ma fortunatamente regge al mio non lieve peso, nonostante i sinistri scricchiolii. Avrei fatto un salto d’una dozzina di metri…
A Santiago Apóstol – reduccióne del 1669 – arriviamo quando già il sole cerca il riposo della sera. Le luci e le ombre si allungano, conferendo all’abitato la sua dose di magia. Nell’attesa della custode, percorro l’intero perimetro della grande piazza, che di lato fa più o meno 300 metri, ammirando le numerose case degli indigeni ancora in piedi, ripristinate per opere pubbliche o private. Anche qui la chiesa è stata distrutta, ma da un incendio, nel 1907. Accanto al piccolo museo della ruta jesuitica – che accoglie anche in questo caso una ricca serie di sculture lignee e di pietra, santi e cristi e madonne –, alcuni brandelli di muri testimoniano la presenza sul luogo della chiesa originaria, ormai ridotti a moncherini di terra che paiono termitai. Due o tre vacche pascolano nei prati dove c’era la missione, di cui rimane solo un perimetro di pietra, rasoterra: c’è una grande naturalezza in ogni cosa. La chiesa attuale, anche in questo caso insignificante dal punto di vista artistico ed architettonico, ha il pregio di dare ospitalità a una pala d’altare perfettamente conservata e a una statua di San Giacomo, Santiago appunto, che combatte e schiaccia il saraceno. Plastica, realista, venerata da tutto il pueblo. Con l’amore dei guaraní.

giovedì 26 settembre 2013

Mercado del Puerto (Montevideo), la complicità del filetto



Viaggio in America Latina/5 - La saggezza laica degli uruguayani e i suoi luoghi di complicità

Primo atto del mio breve soggiorno in Uruguay, a Montevideo, non poteva che essere un pranzo di carne al Mercado del Puerto, una struttura metallica, un hangar o piuttosto una stazione, a metà tra lo stile vittoriano delle stazioni ferroviarie londinesi e i mercati parigini alla Eiffell, inaugurato nel 1686, con materiale forgiato a Liverpool. Sotto l’ampio padiglione, si trovano bancarelle di varie mercanzie, ma soprattutto ristoranti di carne, che offrono le loro pietanze innaffiate con i buoni vini locali, che ancora non possono far concorrenza a quelli argentini o cileni, ma che comunque hanno un livello discreto. L’assado che ci viene offerto è gustosissimo, direi quasi troppo, dalle animelle al filetto, dalle salsicce alla pajata, che qui viene avvolta nel reticolo della trippa, al pollo che pare essere sempre cresciuto in ambiente rustico e non in allevamento. L’ambiente è scuro, volutamente credo, coi tavolini dei ristoranti che occupano praticamente tutte le superfici disponibili, mentre i camerieri – curioso, in massima parte sono già avanti negli anni – ti invitano a scegliere il proprio locale, ma con una certa reticenza, nel senso che invitano senza infastidire con la loro insistenza, come accade nel resto del mondo. Ho l’impressione che la gente qui abbia un modo di vivere radicalmente diverso da quello del resto del Sud America, certamente europeo nei fondamenti, ma attraversato da una serie di contaminazioni culturali indigene o africane che debbono essere investigate per meglio capire questo Paese. I fuochi di legno, dai quali si ricavano le braci che servono per cucinare la carne, brillano in ogni ristornate, ben in vista, quasi un marchio di qualità, un modo per affermare la grande qualità della carne locale, visto che le mucche uruguayane non vengono nutrite né con mangimi industriali né con foraggi specifici, ma solo con l’erba che naturalmente cresce nei prati. Qua e là qualche testa di animale impagliata spiega dove siamo, se ancora ce ne fosse bisogno, mentre i locali fanno a gara a mettere in mostra antichi strumenti del lavoro, da quello agricolo all’allevamento, alla macelleria. Spesso i ristoranti distribuiscono i propri tavolini su due livelli, su mezzanini di legno raggiungibili con scale ripide sempre di legno scuro – tutto è scuro. Un’atmosfera che invita all’amicizia, alla confidenza, alla ricerca di accordi, alla semplice condivisione. In Uruguay, Paese dove la cultura individualista è molto più in auge rispetto agli altri Paesi sudamericani, c’è bisogno di luoghi di complicità. Magari attorno a un filetto.

martedì 17 settembre 2013

Niterói, che vive di Rio, contro Rio



Viaggio in America Latina/4 - Una lunga terrazza che dà sul Pan di zucchero, con un gioiello di Niemeyer

Delusione, stamani, impossibile salire al Corcovado, tutti i biglietti sono stati comprati da tempo, c’è la Gmg e la città deborda di ragazzi e ragazze – ma anche di preti e catechisti, suore e pie donne – che occupano miti ma decisi tutta la città. Anche al Pan di zucchero rinuncio a salire, un tassista mi sconsiglia vivamente di perdere tempo alla Praia Vermelha, da dove parte la funicolare per salire sullo scoglio più fotografato del mondo. Mi decido per un mesto giro nel centro della città, che quest’oggi mi appare per quello che è, una città decadente, di passata gloria.
Arrivato alla Praça XV Novembro, mi spingo verso la baia e capito al molo da cui partono le navi per Niterói. Qualche secondo basta per mettere a fuoco il nome, associarlo a Oscar Niemeyer e al museo di arte moderna da lui progettato e via, il traghetto parte in due minuti. La scelta si rivela quella giusta perché, dopo una ventina di minuti, s’arriva in una città che pure ha qualche bellezza – tre o quattro begli edifici coloniali e la Fortaleza di Santa Cruz –, ma che soprattutto è una terrazza sulla cidade maraviliosa, Rio de Janeiro. Amata (perché porta affari e turismo) e odiata (perché qui la gente ci viene sostanzialmente per ammirare Rio dall’altra parte della baia. Effettivamente la vista è superba, la migliore che si possa avere sulla città dell’effimero “fiume di gennaio”.
Una vista che mi accompagna nella mezz’ora di camminata che mi separa dal museo di Niemeyer: una contemplazione della bellezza della natura locale, che il Creatore ha voluto degnare di una straordinaria conformazione geologica, con quegli spuntoni di roccia arrotondati che paiono gendarmi gentili, o grossi seni oblunghi a cui l’umano può abbeverarsi, o ancora escrescenze della terra desiderosa di osservare la incantevole baia dinanzi alla città che sarebbe nata. Ogni passo apre una nuova prospettiva, ogni sospiro una crescita del mio tasso di umanità, ogni sguardo la necessità di immortalare quei momenti. Non resisto alla tentazione di una noce di cocco lungo la strada, da una baracchina che vale mille Fouquet’s, mille Torre d’argento, per la posizione a dir poco incantevole del sito.
Finché, passata un’isoletta con una deliziosa bianca chiesetta coloniale che pare un bacio degli dèi del Brasile – cristiani veramente? –, ecco che appare l’idea geniale di Oscar il centenario, il museo forse più bello che esista in questo Paese, uno dei più affascinanti del mondo intero. È un vaso di pandora e un’astronave, un ciborio votivo e un corpo in orazione, il simbolo della morte e insieme quello della risurrezione: inaugurato nel 1996, spicca per il suo pilastro centrale di appena nove metri di diametro! E allora l’apoteosi della natura e della cultura avviene congiuntamente, sia che si rimanga ad ammirare le forme esterne del museo, sia che si osservino le opere d’arte racchiuse nello scrigno di Niemeyer: mille pezzi di arte contemporanea brasiliana, donati da João Sattamini. In effetti qui a Niterói forma e contenuto coincidono, quel che si vede fuori corrisponde a quel che si scorge all’interno. È anche questo il miracolo delle città gemelle di Rio e Niterói, che vivono l’una per l’altra, l’una avversa all’altra, sin dai tempi antichi in cui i francesi (?!) conquistarono per breve tempo la città.

lunedì 9 settembre 2013

Maalula nelle mani dei qaedisti

La città è ormai caduta. Che cosa si trova in una delle città più cristiane della Siria? Visita del 2005.

Lasciata la stupefacente Mar Mousa e il deserto di rocce tra Damasco e Homs, una stretta e pittoresca valle conduce da Yabrud verso una cittadina dal nome fascinoso: Maalula, ai piedi della catena ancora innevata dell’Antilibano, incastonata in una striscia di verde che evidenzia l’umidità della valle. Il mio accompagnatore mi dice con una certa fierezza che la cittadina è famosa presso il popolo siriano non tanto per le bellezze d’arte, per la natura scorticata o per la tradizione d’un tempo lontano di cristianità originaria, quanto molto più prosaicamente per la bellezza delle sue giovanette e delle sue donne. Costato come sia vero. Spuntano ovunque, dagli angoli più impensati, degne senza essere ingabbiate in scafandri di tessuto, certamente più intraprendenti di quanto non lo siano normalmente le donne siriane…
A Maalula c’è dell’altro, ovviamente, del bello e dell’antico. Come il monastero di Santa Tecla, Deir Mar Takla. Pare di essere nel siq di Petra, in un canyon angusto e misterioso che si dice sia stato aperto miracolosamente dal passaggio di Santa Tecla, appunto, seguace di San Paolo in fuga, e poi martirizzata sul posto. La Siria non cessa di sorprendere per la sua incredibile capacità di generare miti, di tirar fuori dal suo cilindro santi d’ogni tipo ed origine.
Più sotto, appresso al convento moderno dedicato alla santa, come una fortezza ricca di modestia (mi si perdoni l’anacoluto) si para dinanzi al pellegrino il monastero di San Sergio, Deir Mar Sarkis, che in alcune sue parti risale addirittura al III-IV secolo. E il suo altare data ad un’epoca pre-cristiana: è semicircolare e non è piatto – come prescrissero i primi vescovi, per non confondere il rito cristiano con quello pagano –, conservando quelle scanalature e quei bordi che servivano a trattenere il sangue dei sacrifici animali dei culti ancestrali della regione. Il pretino, che pare voler affermare d’essere lui stesso una reliquia dei primi tempi del cristianesimo, mi offre un bicchierino di passito – squisito, per onor di cronaca –, prodotto dalle magre vigne del monastero e poi intona solo per me il Padre nostro in aramaico: il dialetto del posto è quello stesso (sembra proprio che sia così) che Gesù parlava in Palestina.
Il monastero annuncia poi una originalissima conformazione calcarea, forata come un gruviera da infinite grotte che avevano ogni sorta d’uso, forse salvo quello dell’eremitaggio. Da quegli anfratti escono capre, pecore, mucche, galline, conigli e umani ch sembrano capre, conigli…
Ancora una ventina di chilometri di ebbrezza, seguendo una catena montagnosa che pare lo slabbramento d’una ferita mai rimarginata, ed ecco un altro grappolo di case, l’ennesimo, che s’inerpica su un colle coronato da un altro grappolo, di cupole questa volta. Ecco Seidnayya, una delle più antiche mete di pellegrinaggio di tutto il Medio Oriente: qui è conservata, in un oscuro anfratto ricavato nella cripta della chiesa principale, un’immagine mariana, un’icona ante litteram, che si dice dipinta niente meno che dall’evangelista Luca in persona. Ogni sorta di miracoli è attribuita all’icona, non solo dai cristiani delle Chiese più diverse, ma anche dai musulmani. Nell’orribile scalinata a zigzag costruita di recente con materiali dozzinali per permettere un’ascensione più comoda al santuario, le donne velate sono in effetti più numerose di quelle a capo scoperto. Si confondono con le monache ortodosse che custodiscono il santuario con ferreo rigore, senza transigere minimamente alle anarchie dei turisti. Anch’io mi becco una violenta reprimenda per aver osato fotografare l’icona, commettendo così un atto di peccaminoso consumismo…
Perdersi nei cortili, sulle terrazze, nei tetti, negli intricatissimi passaggi del monastero è piacevole e contagioso, tanto più quando si ha la coscienza di scoprire uno dei luoghi più antichi della fede cristiana, dopo Gerusalemme, ovviamente costruito per sostituire, o più precisamente per sovrapporsi, a un antico tempio pagano, romano o greco, chissà. In ogni modo qui la fede non è un’opinione, è forte come la roccia. Quella dei cristiani e quella dei musulmani. Maria fa da trait-d’union tra i fedeli delle due religioni, forse non a caso. Forse è una profezia.

martedì 3 settembre 2013

Nossa Senhora do Rosário dos Pretos, candomblé o cristiani?



Viaggio in America Latina/3 - A Salvador de Bahia c'è la più alta concentrazione di fedeli di culti di origine africana

Era posta appena fuori dalle mura della città di Salvador da Bahia, capitale del Brasile portoghese, costruita extra moenia dagli schiavi di origine africana – provenienti da una vasta zona che comprendeva Angola, Congo e altri territori limitrofi –, perché dentro la zona bianca per i non-liberi l'accesso era negato se non, appunto, a schiavi, senza diritti né alcuna possibilità di partecipare ai culti nelle chiese d'oro, come quella di São Francisco, che si favoleggiava tutta d'oro e azzurra di azulejo provenienti dal Portogallo. Avevano le loro credenze e i loro riti, quegli africani, ma i frati francescani arrivati al seguito dei colonizzatori non ne volevano sapere di autorizzare, erano frutto del demonio e della perversione, del sottosviluppo e della superstizione. Dovevano invece partecipare al culto della sola vera religione, quella latina cattolica romana, e non potevano coltivare riti passati. Schiavi. Doppiamente esclusi.

La costruzione della chiesa degli schiavi, Nostra Signora del rosario dei neri, fu un passo in avanti per gli africani, grazie anche all'azione di alcuni frati, italiani in particolare, che consigliarono agli schiavi di accettare la nuova fede cristiana, senza tuttavia rinunciare alla loro fede tradizionale: i francescani spiegavano ai parrocchiani di pelle nera che Gesù Cristo, Maria, sant'Antonio e San Pietro non erano altro che la verità di fede degli dèi che loro veneravano. Lo si capisce bene, il confine tra sincretismo e legittima integrazione è strettissimo, e forse impossibile da individuare.

Fatto sta che il culto candomblé, quello degli schiavi, è sopravvissuto nei secoli celato nel rito di santa romana Chiesa, clandestino ma nemmeno troppo, se è vero che ancor oggi i fedeli di tale forma religiosa tradizionale sono in crescita in Brasile, a Salvador da Bahia in particolare. È uno dei tanti casi conosciuti di tradizioni religiose autoctone spezzate via alla fede dei colonizzatori, ma risorgenti in forme e tempi insospettabili: penso ai culti aymara, in Bolivia, o a quelli maya in Guatemala. Il cristianesimo, religione inclusiva per eccellenza, ha potuto più di altre religioni capire le esigenze e le ritualità delle religioni tradizionali, cercando di integrare senza eliminare la centralità di Gesù Cristo. Sì può discutere dei risultati.

Ogni martedì sera, a Nossa Senhora do Rosário dos pretos, si celebra la “messa dei neri”, cioè quella della comunità candomblé locale. Un'ora prima della celebrazione, un prete nero evangelizza la folla presente di fedeli afro-brasiliani, frammenti a turisti e passanti. Pone domande, esige risposte, spiega il senso di riti, delle musiche che verranno suonate, delle pitture esposte nella chiesa, del senso della santità, dell'amore di Gesù per i poveri e gli emarginati, dei fondamenti della fede cattolica romana, della visita del papa che ha luogo in queste ore a Rio de Janeiro. C'è una bella confusione in chiesa, in un banco laterale si vendono candele e fiori e immagini votive, mentre alcuni anziani vagano per la chiesa un po' sbadati e un po' ruffiani, parlando a voce alta con tutti e con sé  stessi. C'è vita, indiscutibilmente, l'atmosfera è così diversa rispetto alle nostre chiese europee che in confronto paiono mortuori!

Alle sei la messa ha inizio. La festa comincia. Le musiche, ritmatissime da tamburi di varie forme e dimensioni, vengono accompagnate con trasporto dai presenti, spesso è volentieri portati a muovere le mani e le braccia e tutto il corpo, in ondeggiamenti ed espressioni che sembrano più da balera che da chiesa, secondo i nostri parametri eurocentrici. E mi trovo ad immaginare la reazione di un pur fedele devoto della Chiesa cattolica romana dedito al rito di Pio V. Da ridere e da piangere! Ma, che lo si voglia o meno, anche questa è la Chiesa di Roma, che associa tradizionalisti e candomblé.

Cinque sono le processioni, partecipatissime, che scandiscono la celebrazione: quella dell'inizio, quella dell'offertorio, una terza per il Sanctus, una quarta per la distribuzione della Eucaristia e un'ultima per la distribuzione delle michette di pane benedette. Processioni che hanno un andamento assai danzante, mentre gli applausi a scena aperta si susseguono e si inseguono. C'è trasporto, coinvolgente, al punto che anche un fedele compassato come il sottoscritto si ritrova a battere le mani e persino a danzare. La sorpresa più grande la conosco al momento della distribuzione dell'Eucaristia, perché ben poca gente si mette in fila, mentre tutti, nessuno escluso, al termine della celebrazione si avvicinano all'altare per ricevere dalle mani di una anziana signora (che pare una sacerdotessa) il loro pane, che immediatamente sbocconcellano avviandosi all'uscita. Il fatto è che tanti dei presenti vivono ancora nella situazione sincretista di una fede tradizionale ancestrale che tuttora fatica ad assumere tutte le forme e la sostanza del culto cristiano. Lo stesso sant'Antonio di Catejerol, cui la messa è che dedicata, appare una figura più carica di emozioni e sentimenti candomblé che francamente cattolici.

Ma tant'è, il fervore degli astanti è tale che non mi interrogo più sulla pertinenza teologica delle forme culturali di certo misticismo emotivo. Qui si prega. E mi presto ben volentieri all'aspersione finale, all'uscita dalla chiesa, impartita con un'ampia fronda di palma che viene immersa in un bidone di acqua benedetta: ci ritroviamo tutti inzaccherati ma felici per la comunione vissuta a Nossa Senhora do Rosário dos pretos.

martedì 27 agosto 2013

Nosso Senhor do Bonfim, la devozione finalizzata

Viaggio in America Latina/2 - Un santuario nei pressi di Salvador da Bahia: il trionfo della religiosità popolare locale.

Bonfim, cioè “della buona sorte” o “del buon fine”. Della preghiera. Della devozione. Dall’emozione. Il tono è già dato: qui si viene per ottenere una grazia e si crede di aver buoni diritti per chiederla. Mercanteggiamenti con la divinità? Pensatela come volete! Siamo alle porte di Salvador da Bahia, la città più brasiliana di tutte le città brasiliane, a una dozzina di chilometri dal centro storico, passata una lunga fila di hangar che una volta erano un mercato esemplare ma che ora è ridotta a una lunga teoria di relitti maleodoranti, lasciate alle spalle decine di favela più o meno decenti (o indecenti), antiche chiese in stile coloniale lasciate in rovina. Anche l’ônibus che mi porta a destinazione è ben più malandato di quelli che si dirigono verso l’altra parte della città, dove ci sono i grandi spazi commerciali e i grattacieli – o piuttosto grattacielini – di Salvador.
Arrivo sul posto che la messa delle 9 di mattina, è domenica, è già cominciata. I fedeli debordano da tutte le aperture possibili della chiesa-santuario. Delle dozzinali sedie di plastica bianca sono sparse ovunque: contrastano non poco con le coloratissime inferriate metalliche letteralmente ricoperte di striscioline votive di tutti i colori, su cui è scritto: Lembraça do Senhor de Bonfim da Bahia, ricordo del Signore del buon fine di Bahia. Al sole risplendono un po’ kitsch e un po’ strafottenti, il Signore Iddio sa fare le scelte giuste. C’è grande fervore, le mani levate al cielo sono normalità, le donne sgranano i loro rosari ben in evidenza, i bambini ne approfittano per inventare tutti i giochi del mondo. E chissà che fede e che devozione alberga nei cuori degli astanti. Chissà se stanno pensando a Gesù o ad Oxalá, alla Madonna o a Yemanjá. O, più probabilmente, stanno pensando ad entrambi.
Al momento della distribuzione dell’Eucaristia, le file di fedeli creano una confusione indescrivibile al punto da sembrare la scena di un festival di danza sacra più che un rito cattolico, ma solo agli occhi più superficiali. Contemporaneamente, altrettante file si orientano verso immagini sacre che mi sono sconosciute, vagamente inquietanti, scure. E con la comunione ha inizio quella serie di interminabili riti di conclusione in cui il prete s’infervora e si esalta, danza e balla e invita all’esaltazione della croce e della religiosità emotiva, in un continuo applauso frenetico, in un’ininterrotta selva di mani osannanti e sguardi misticheggianti. Il sudore cola a fiotti e si mescola alle gocce d’acqua benedetta che viene aspersa sulla folla in quantità industriale, tanto che le donne più intraprendenti s’inorgogliscono di mostrarsi grondanti di sudore maledetto e di acqua benedetta!
Terminato il rito nel santuario, il fervore dei fedeli si trasferisce all’esterno della chiesa – solito mercato, in cui però non si capisce chi commercia e chi s’immerge in operazioni pie –, oltre che in un locale dove sono esposti gli ex voto: protesi e cinti ernari, raccapriccianti foto dei tumori più strani e voluminosi, un’infinita serie di foto tessera, referti medici e sentenze tribunalizie, preghiere redatte a caratteri gotici e disegni infantili. Di tutto un po’, nel fervore più intenso e, credo proprio, autentico. Anche stavolta mi trovo spiazzato, nella mia fede che si tinge spesso e volentieri di razionalismo bigotto.
La chiesa è stata costruita sulla penisola Itapagipe, in posizione elevata e pittoresca, tra il 1746 e il 1754 dal capitano Rodrigues de Faria, per la grazia di essere sopravvissuto a una tempesta sull’Atlantico. Il rito più originale della tradizione candomblé si svolge il terzo giovedì di gennaio quando i fedeli della religione tradizionale, tutti vestiti in bianco, si avvicinano in processione al santuario (che ha le porte sbarrate, perché la Chiesa cattolica non approva il rito) allorché le donne si mettono a lavare con olio di gomito i gradini della chiesa con acqua profumata in onore del dio Oxalá.