lunedì 27 settembre 2010

Chiara Luce Badano beata


Intervista al sottoscritto pubblicata su "La Provincia" di Como, Lecco, Sondrio e Varese, a firma Alberto Galimberti, a proposito del libro "Io ho tutto. I 18 anni di Chiara Luce", che sabato 25 è stata proclamata beata.

Chiara Badano aveva 18 anni, il cuore traboccante d’amore per Gesù e un tumore alle ossa che le stroncò la vita il 7 ottobre 1990. A 20 anni di distanza la sua testimonianza suscita ancora conversioni e riempie di senso la speranza e la fede in Dio. Domani, 25 settembre, sarà la prima persona appartenente al movimento dei «Focolari» a essere proclamata beata. Michele Zanzucchi, direttore di Città Nuova e autore del libro su Chiara Badano "Io ho tutto" ci aiuta a delineare il normale eroismo di questa ragazza.

Chi era Chiara Badano?
Chiara era una ragazza di 18 anni con un male (sarcoma osteogenico con metastasi) che oggi si potrebbe curare mentre negli anni ’80-’90 non prevedeva alcun rimedio. Nata a Sassello, trascorse un’infanzia spumeggiante e felice. Coltivò sin da piccola la propria fede grazie all’educazione ricevuta in casa e alla frequentazione della parrocchia. Un rapporto irrobustito e arricchito dall’incontro a 9 anni con il movimento dei Focolari. Una ragazza estroversa e sensibile come raccontano gli episodi d’infanzia quando decise di destinare ai bambini poveri i suoi giocattoli nuovi (e non come verrebbe normale quelli vecchi o rovinati) e quando ospitò una compagna di scuola da poco orfana, avvisando la mamma di aggiungere un posto alla mensa perché «oggi sarebbe venuto a trovarci Gesù». Esperienze, se vogliamo piccole ma paradigmatiche di un rapportarsi con gli altri
in modo semplice e nella verità.

Un’adolescenza serena, una giovinezza pronta a dischiudersi. E poi l’irruzione della malattia... L’adolescenza di Chiara era un’emozionante ricerca di vere amicizie e voglia di futuro. Il liceo classico, la passione per lo sport e la natura. Poi, celato in un acuto dolore alla spalla sopraggiunto
durante una partita di tennis, il tumore alle ossa e la vita che si stravolge in un istante. Quando scrissi la biografia di Chiara, rimarcai questo elemento. Chiara una volta informata della gravità
della propria malattia, rientrò in casa ed evitando gli sguardi dei genitori, si rifugiò in camera. Trascorsero 25 minuti e Chiara disse alla mamma: «Se lo vuoi tu Gesù, lo voglio anch’io». In un grappolo di tempo, 25 minuti, Chiara comprese il significato della sua esistenza e decise di instradarsi verso la propria santità. Quando Chiara Lubich lesse il libro mi confidò che dissentiva da quella mia opinione. Mi disse infatti: «Chiara Badano iniziò a essere santa nel momento stesso in cui cominciò a vivere». Credo che avesse ragione Chiara Lubich.
Quanto fu importante per Chiara l’incontro con i Focolari e l’intensa corrispondenza con Chiara Lubich?
L’importanza è radicale e lo affermano gli scritti di Chiara Luce stessa nei quali si scorge più volte la volontà di scegliere quel Gesù abbandonato che era il "segreto" di Chiara Lubich, come lo sposo
della sua vita (lascerà precise indicazioni di essere sepolta con il vestito bianco perché da sposa voleva prepararsi all’incontro con il suo Sposo). Il Movimento dei Focolari ha sicuramente infuso
in lei quel senso profondo della vita spirituale e comunitaria che le ha permesso di affrontare la malattia e la morte nella pace e nella serenità, arrivando addirittura a rinunciare alla morfina per
non perdere la lucidità di continuare a pregare Gesù e restare in contatto con Lui.

Qual è il portato spirituale di "Luce", come la chiamò poi Chiara Lubich? Il suo merito è di aver incarnato una santità popolare, vicina all’uomo, un modello imitabile. La santità che viene mostrata come una via normale di vita, ma che irradia. Ecco la straordinarietà di "Luce". Non solo frutto di una scelta personale. Ma un cammino accompagnata dalla condivisione con la comunione dei suoi genitori, delle sue amiche del movimento.

venerdì 24 settembre 2010

Hué, la grandezza dei dettagli


La Piaggio ha deciso di investire per il suo sviluppo in Vietnam, Paese dove il 50 per cento della popolazione viaggia in sella a scooter che paiono zanzare. Visita (in taxi-motorino) alla città imperiale (dicembre 2009).

È una città imperiale, Hué, e ci tiene ad esserlo, anche in epoca comunista, come lo fu in epoca coloniale. Una città a suo modo santa, ma prima di tutto nobile, attenta ai grandi movimenti della storia e quindi anche ai più infimi dettagli della vita quotidiana. Dettagli che dicono tutto, forse molto di più di quanto non possa dire l’insieme delle grandi visioni.

Colpisce subito, Hué, perché i suoi spazi non sono spazi qualunque, ma spazi regali, altamente regali, addirittura imperiali. Non per niente la città è divisa in due da uno dei più fascinosi corsi d’acqua che mai abbia avuto modo di ammirare, il Song Huong, il Fiume dei profumi (già il nome è un incanto). L’orizzontalità prende subito possesso della sensibilità del viaggiatore, che non può non accomodarsi in questa prospettiva che, dapprincipio almeno, trasmettere una grande serenità, un desiderio di godere delle semplici naturalità del luogo. Sul fiume scorrono placide le lunghe barche a fondo piatto che il nostro immaginario collettivo ha da sempre localizzato in Estremo Oriente. A completare l’idilliaco quadro, c’è la vegetazione che sembra voler accarezzare l’acqua, senza arrecarle alcun danno, senza contenderle alcuna primazia. Queste sono solo delle premesse banali, naturali, quelle che l’istinto imperiale scelse nel corso del XVII secolo. Fu in quell’epoca che cominciò ad assumere un ruolo di primazia la città di Hué. Per non perderla più, almeno fino al 1883. Una storia tutta da raccontare e da scoprire, poco alla volta.

Tanti sono i luoghi dove si po’ cogliere la grandezza di Hué, c’è solo l’imbarazzo della scelta; luoghi che hanno scelto come ambientazione il fiume e i suoi dintorni, il fiume e i suoi profumi, là dove gli effluvi dell’acqua e dell’incanto arrivano eccome, spandono ed espandono la propria benefica influenza. Bisognerebbe raggiungerli tutti in barca, questi gioielli, come sarebbe naturale, nell’ordine delle cose; ma in questa mia breve visita non ho in alcun modo il tempo per concedermi certi vezzi. Il viaggiatore è come un architetto: deve ammobiliare nel miglior modo possibile i limiti del tempo e dello spazio che gli sono concessi. Mi concedo, perciò, una semplice motoretta, ma con autista, un brav’uomo che si dà da fare con solerzia e competenza stradale, indicandomi i luoghi precisi in cui si può ammirare un monumento, conducendomi per sentieri nei campi e nei boschi fino alle precise posizioni in cui i panorami diventano veramente mozzafiato, come su una collina anonima che domina una straordinaria ansa del Fiume dei profumi. La vista è controluce, il sole è timidissimo, le nebbie non vogliono sollevarsi; ma la vista è di quelle che commuovono l’anima, che appagano, che raccontano l’infinito e recano con sé l’ineffabile sorpresa della felicità d’un momento strappato alla convulsione della vita.

Attraversiamo il Fiume dei profumi su uno dei tre ponti che esistono nella città di Hué. D’improvviso s’annuncia un altissimo pennone che regge un’enorme bandiera vietnamita, issati su un piedistallo nero d’umidità che pare incutere un timore che, forse, qualcuno vorrebbe diventasse terrore. È in qualche modo un simbolo della fierezza dei vietnamiti, essendo stato costruito, distrutto e ricostruito più volte, l’ultima nel 1939. «Non ti preoccupare – dice il mio driver –, dietro il pennone e la bandiera c’è la Cittadella, il nostro orgoglio». Ed è così che penetro attraverso la Porta di mezzogiorno (Ngo Mon), di per sé una costruzione di grande valore, essendo stato edificato nel 1833 per volere di Minh Mang, in uno stile che, come il resto, ha certamente delle influenze cinesi, conservando nel contempo una sua “vietnamicità”. La storia stessa lo conferma.

Anche qui alla Cittadella i lavori sono in pieno sviluppo, e i restauri «procedono secondo i piani prestabiliti», come recitano tutti i cartelli che specificano i lavori svolti e da svolgere in corso d’opera. Sarà. Qua e là sono state poste finte colonne e enormi falsi fiori di loto, non si sa quando e non si sa perché tanto sono assurdi: dettagli senza senso e senza prospettiva. Tra i vari padiglioni, non posso non segnalare un’ampia sala di ricevimento chiamata Thai Hoa, che riesce a dare il senso di una grande armonia: il nome Hué viene non a caso da Hoa, che vuol dire pace, armonia. Nella sala vengo attirato dai rossi soffitti lignei: ho l’impressione che in quelle forme merlettate di fili dorati sia riposto il segreto dell’intera città. La luce non è molta, mi spiegano i guardiani, perché le lacche ne soffrirebbero. Lacche certamente ripassate di recente; ma mi piace immaginare gli artigiani dell’epoca distenderla con tutta la passione e tutta l’arte di cui erano capaci, come svolgessero una funzione divina. E nei fatti lo era, anche perché gli imperatori vietnamiti non erano da meno dei loro compari cinesi nel considerarsi tramite tra Cielo e Terra.

Poi comincia il disastro comune e la mia fortuna. I restauri non sono che ipotesi nel resto del recinto, immenso, va detto, coi suoi 6 chilometri quadrati di superficie, attorniati da alte mura e da un fossato di grande fascino, ininterrotto lungo tutto il suo percorso rettangolare. Posso così girare tra gli operai e i visitatori quasi senza dovermi preoccupare di vedere tutto come un Pico della Mirandola del turismo. Due immagini conservo stagliate nella memoria: alcune vecchie tegole, ed altre invece nuove di zecca, appoggiate in un mucchio nel vasto spazio della Città purpurea proibita sono curate, verniciate nella superficie che deve apparire, in stato grezzo invece in quelle che vengono celate alla vista. Un mucchio alla rinfusa, che però mi permette di capire come anche i più piccoli dettagli in queste costruzioni abbiano una loro funzionalità, quasi un simbolo di quella di ogni suddito alla vita dell’impero tutto e dell’imperatore in particolare. Che sia in ruolo visibile o nascosto.

C’è un luogo che attira la mia attenzione in modo direi prepotente, essendosi però a me manifestato in modo assolutamente umile. Dietro un padiglione il cui restauro è in via di finitura – gli operai stanno in effetti dipingendo di lacca rossa lucente le colonne e le imposte – quasi nascosto da un’isolotto di vegetazione esuberante e selvaggia, s’offre alla vista una costruzione di dimensioni modeste, annerite dall’umidità: le finestre mancano di numerosi listelli, mentre l’assenza di colori trasforma le preziose decorazioni che contrappuntano i tetti incolori: draghi, uccelli mitologici, strani animali antropomorfici. La circuisco, quella che capisco essere – dopo un po’, grazie ad una iscrizione scolorita in francese – una biblioteca, anzi più precisamente il Padiglione di lettura imperiale. Voglio sedurla ma lei mi seduce. Grazie alle raffinate decorazioni di frammenti di maiolica, con gli scorci che apre con grazia sul vicino bacino del loto, usando dell’arte della curiosità per le tante aperture sul suo piccolo giardino, grazie alle bellissime piante che le fanno corona. Mi seduce ogni volta che con il teleobiettivo scorgo il motivo di una decorazione insospettabile da lontano. E mi lascio trascinare nel vortice delle continue scoperte, quasi che si passasse di cielo in cielo; oppure di terra in terra, ma con la grazia di quell’eleganza che ti fa toccare il cielo con un dito.

martedì 21 settembre 2010

Tallinn, i tuffi al cuore


L'Estonia entra nella zona euro. Una grande novità che aprirà la strada anche a Lituania e Lettonia. Visita a Tallinn (aprile 2010).

Non c’è angolo nel centro della capitale estone che non riservi quei tuffi al cuore – esteticamente parlando – tipici delle città che, malgrado guerre e fenomeni naturali, hanno saputo conservare il loro spirito, la loro naturale predisposizione alla conservazione della memoria storica. Non occorre seguire un itinerario prestabilito, basta lasciarsi guidare, più che dall’istinto, dalle continue bellezze architettoniche e urbanistiche che ci si trova a incrociare con lo sguardo. Lasciarsi guidare dai secoli è un privilegio che non molti luoghi al mondo hanno. Tallinn è tra questi.

A caso, come inevitabilmente accade a Tallinn, vi racconto il mio itinerario che comincia alla Porta Viru, principale accesso nelle mura, che conferisce da subito il tono della visita: torrioni cilindrici con annesse porte ogivali e tetti conici assai spioventi. Il Medioevo è ancora qui. Le torri sono leggermente inclinate verso il paesaggio, tanto che paiono due braccia pronte a stringerti per accoglierti (o per imprigionarti). Mi volto sulla destra, tralasciando la prospettiva della via Viru, forse un po’ troppo commerciale, anche se la dicono ricca di bei palazzi. Osservo le mura nella Müürivahe e i camminamenti lignei che uniscono i vari torrioni cilindrici fra di loro: bancarelle di lavori artigianali di lana, gradevoli e assolutamente artigianali, simili probabilmente a quelli dei secoli che furono. Passo tra le mani questi manufatti che sanno di rusticità, allorché alzo lo sguardo e scorgo un «breve pertugio dentro de la muda», direbbe il poeta. Leggo: Katarina Käik, passaggio Santa Caterina, un budello di muri che hanno tutti i doni tranne quelli della regolarità e della perpendicolarità, mentre il “soffitto” è assicurato da lievi strutture a volta sopraelevate. A destra e a manca s’aprono bottegucce artigianali: mastri vetrai, pittori, gioiellieri, rilegatori…

Seguo le vie Vene e poi Pühavamu che presentano lunghe teorie di schegge medievali che l’urbanistica restaurativa ha voluto lasciare in evidenza sulle facciate delle case: catene di sostegno, resti d’un affresco, sprazzi di muri originali, spruzzi di pittura reiesumata. Poi è una guglia bronzea bicolore – nera e verde, chissà perché – che mi guida, sicura, altera, irraggiungibile. Sant’Olav per secoli detenne il primato mondiale d’altezza – 159 metri, oggi scesi a 124, per via dei ripetuti incendi e dei tanti fulmini attirati –, era il vanto dell’intera Tallinn. Salgo, migliaia di gradini, infiniti gradini, sconnessi e scivolosi, ma così storicamente autentici. Dall’alto Tallinn appare trasfigurata, una distesa di tetti, di laterizi rossi da far arrossire muratori e architetti. Non c’è un gradino uguale all’altro, sembra che i costruttori l’abbiano fatto apposta per ricordare ai mortali che l’ascesa verso il cielo è faticosa, mentre la discesa verso l’inferno è un rischio continuo di cadute a rompicollo. Si gela nel lungo budello che percorre come una vena giugulare l’immensa torre campanaria. Nella ascesa e nella discesa dell’umana sorte, spesso, anche il gelo la fa ad padrone. Scendo, rischiando a più riprese il fatale capitombolo. M’aspettano tre sorelle, tre meravigliose sorelle, tre case contigue di mercanti del 1362, elegantissime nei loro timpani slanciati: persino la regina Elisabetta d’Inghilterra subì il loro fascino discreto. Non faccio a tempo ad ammirarle che una navicella di rame e ottone cattura la mia attenzione: è la torre della grassa Margherita – nome che voleva evocare lo spessore delle mura della città –, il Museo marittimo estone. M’incanto a fotografare queste pietre rozze e spezzate alla meno peggio, che trasmettono sentimenti di sicurezza, chissà perché.

La via Pikk è un incanto, un lungo itinerario nei secoli che furono, con giustezza eleganza charme. Sì, charme. Senza quasi accorgermene, mi ritrovo così nel cuor della città, quella Raekoja Plats, la piazza del Comune, che forse è il luogo più conosciuto di Tallinn. Vi arrivo dando uno sguardo a due veri gioielli architettonici, tra i più antichi edifici della città: a destra il palazzo della Gilda grande, 1417, proprietà dell’allora Confindustria estone, dei ricchi (o forse della Confcommercio?); a sinistra, invece, ecco la chiesa dello Spirito Santo, del XIII secolo, adornata da un meraviglioso orologio, il più antico della città, del 1684. La chiesa è nota anche perché, in seguito alla Riforma, dal suo pulpito nel 1535 venne pronunciato il primo sermone in estone.

Il municipio è superbo, non c’è che dire. Risale al 1404, ha un tetto spiovente e un’alta guglia che, pur essendo rinascimentale, pare originale, cioè medievale. Non ci si stanca d’osservarlo, di ammirarne il portico a volte ogivali, i possenti muri e le finestre, in fondo piccole. E poi che dire dei doccioni a testa di drago – verdi e rossi, paiono bestiole inventate da Walt Disney (o piuttosto il grande disegnatore se ne è ispirato) –, che paiono la massima espressione della maliziosa mania dei dettagli umani o animali che adornano tanti edifici medievali di Tallinn?

Ma dietro alla mole del municipio non riesce a nascondersi un’ennesima guglia, che tuttavia appare così “forte” nelle sue forme che non posso ignorarla. È forse il simbolo del Medioevo di Tallinn, più volte distrutta e più volte ricostruita per la volontà del popolo tutto. È la chiesa Niguliste, che ospita oggi al suo interno il maggior museo medievale dell’intera città, con capolavori irraggiungibili, come la Pala d’altare di San Nicola, opera di Herman Rode di Lubecca o, ancora più “devastante” il “piccolo resto” della Danza macabra di Bernt Notke, sette metri sui trenta circa che contava l’originale. E poi fregi e statue lignee e statue di pietra, in un’architettura essenziale, senza fronzoli ma di un’eleganza assoluta, che non lascia spazi ad alcun dubbio: Tallinn è la capitale che più ha conservato le sue origini medievali qui nei Paesi nordici europei. E di questo deve e può andare fiera.

lunedì 6 settembre 2010

Kazbegi, luce e ancora luce


Una cima oltre i 5 mila metri, una chiesetta in posizione panoramica, una luce che penetra nel cuore. In Georgia, alla frontiera con la Federazione russa.


Alle sei mi alzo e passo nella terrazza della guest house per osservare l’inizio della giornata sulle spennellate di color rosa che il sole d’Oriente sparge sulla vetta del Kazbegi: da qui se ne può ammirare solo la sommità, forse gli ultimi cinquecento metri di dislivello. Qualcosa mi ricorda il Genesi biblico, il racconto della creazione.

Kazbegi ha un incomparabile merito: quello di aver saputo coniugare bellezze naturali e spirituali, declinando forza e sapienza nei mille modi in cui la fede può esprimersi e irradiare. Ovunque, agli uomini, alla natura, agli avvenimenti. La chiesa della Santa Trinità – mai nome di chiesa fu più azzeccato – costruita nel XVI secolo, svetta su un’altura a 2170 metri, proprio di fronte al massiccio del Kazbegi, possente ma nel contempo delicato nella sua sfida al cielo azzurro del Caucaso, di un’incomparabile finezza (per la cronaca, le rovine di un’altra chiesa furono individuate nel 1913 a 3962 metri di altezza, senza che si sia riusciti a risalire ai costruttori…). Ormai il connubio fra la montagna più alta di Georgia e la chiesa costruita in posizione più elevata nell’intero Paese è una certezza per un’intero popolo e per un’intera Chiesa. Vi si arriva, superato il villaggio di Gergeti, attraversando un bosco fresco e catartico, fino a sbucare in un verde pianoro che sta tra il monte e la chiesa. Sta, come un sabato santo, come una promessa. Qui si può “sentire Dio”, si può cogliere lo Spirito volteggiare, sospendendo il giudizio in attesa del Giudizio e aspergendolo di benedizione e d’amore. Mi volto a monte: le nevi le rocce i prati formano qualcosa che assomiglia all’idea di Natura, al modello di ogni natura. Mi volto a valle: la silhouette della chiesa, associata alla guglia del portale d’ingresso, racconta il tentativo sempre fallito e sempre nuovo di raggiungere la pace dello Spirito, Ma, purtroppo, tali tentativi si riducono troppo spesso alla richiesta di benefici, di amore ma prima di dare amore. Si ricomincia; e la Santa Trinità, Dio in Terra, mi dice che è possibile. Ricominciare, ovviamente, non significa raggiungere la perfezione. Ricominciare ad amare, questo sì.

È domenica, la gente della valle è salita a piedi o a bordo delle vecchissime Uaz sovietiche per la liturgia domenicale. Un fremito corre lungo la schiena e l’anima non appena varco la soglia della chiesa, per penetrare nel mistero, nell’oscurità, nelle geometrie spirituali create dal canto di una delicatissima corale femminile, donne velate. Il fumo delle candele si confonde con quello dell’incenso e porta anche l’olfatto nel girone dell’anima, mentre la mente vacilla di fronte alla fede degli astanti, in un raccoglimento che non è vittima di tanta “dispersione” delle celebrazioni ortodosse, sempre infinite.

E il Monte Kazbegi osserva, sta come una certezza, scalino al Cielo, unico vero gradino al Cielo, immacolato di ghiacci e di umori dello Spirito, solidi come il ghiaccio e ristoratori come la pace.


mercoledì 1 settembre 2010

La Madonna del Belucistan



Ho visto la Madonna, l’ho pure fotografata.

Aveva un velo bianco appoggiato sul capo dai capelli corvini.

Indossava una veste rossa nera rosa, a disegni di petali.

La veste le scendeva ai piedi.

Era accovacciata su un tappeto azzurro a righe blu,

in un ambiente che sapeva d’antico, o di rovina piuttosto. Trascurato.

Ma lei brillava di luce propria.

Mi ha scorto entrare per la porta angusta del mausoleo,

mi ha guardato e mi ha seguito con lo sguardo.

Mi sono avvicinato, le ho detto: «Buongiorno», in italiano, che stupido.

Lei mi ha risposto con un modesto cenno della mano.

E con infinito amore.

Se non fossi abbronzato, scommetto che si sarebbe visto il mio rossore.

Mi osservava intensamente, poi abbassava lo sguardo.

Ma non per sfuggirmi, perché subito tornava a catturare le mie pupille,

per ancorarle nelle sue, profonde come il pozzo, nere come i suoi capelli.

Mi vedevo, mi specchiavo nei suoi occhi.

Allora ho avuto la sfrontatezza di levare la macchina che fa foto.

Le ho chiesto se accettava di essere impressa nella sua memoria.

Ha accettato, ancora una volta con un cenno della mano,

di quella destra, appena percettibile.

L’ho immortalata dieci, cento volte.

La luce era perfetta, veniva dalla porta aperta, dalla sua sinistra.

Il suo volto non era particolarmente regolare,

né di straordinaria bellezza:

le labbra sempre chiuse, leggere,

il naso appena un po’ ampio,

le sopracciglia ben disegnate dalla natura.

Ma era una giovane donna in pace con sé stessa e col mondo.

Era una bellezza intima che non lasciava nulla come lo trovava.

La bellezza cambia le cose.

Era una presenza silenziosa, che sembrava dar Parola

a me, alle pietre, alla luce, al creato tutto.

Le ho mostrato gli scatti sul minuscolo schermo.

Sembrava sorpresa, non capiva cosa fossero quelle diavolerie

che pretendevano di riprodurre la realtà. Fedelmente, per giunta.

Ha appoggiato il suo indice sullo schermo,

poi l’ha impresso sulla mia camicia, madido di sudore com’ero.

All’altezza del cuore, come per suggellare un patto.

Non di sangue – troppi l’hanno fatto da queste parti.

Un patto di caldo amore.

Senza aprire bocca mi ha parlato:

«Sei qui, ora, non sei da nessun’altra parte del mondo.

Impara da me che sto chiusa in questo mausoleo,

che mangio pane fritto e yogurt,

che ho solo due vesti, per modestia, perché potrei averne una sola.

Non ho nulla, ma lo Spirito abita il mio spirito.

Non so scrivere né leggere le parole delle convenzioni,

ma so parlare col Verbo dell’amore,

quello che non si scrive né si legge.

Quello che non muore mai».

S’è sistemata sul tappeto, appoggiandosi sulla mano sinistra:

«Impara da me che vivo nell’attesa che qualcuno apra quella porta,

e che trovi in queste pietre, tra queste pietre, il senso della vita.

Che vi trovi l’Uomo, il bambino dell’Uomo.

Sto qui tutto il giorno per svolgere questo compito, solo per questo.

A volte non entra nessuno, anche per mezza giornata,

e allora passeggio nel mio cuore con il mio Sposo. Lo conosci?

Puoi esserlo tu, può esserlo chi verrà dopo di te, o prima.

Perché mio sposo è il cuore puro e aperto,

quello che sa amare con tutto sé stesso,

cioè dimenticandosi,

vivendo per la sua Sposa,

quella che ha il mio volto e le mie mani,

ma anche le sembianze di ogni donna che conosce l’amore e lo Spirito.

Impara da me che sono nulla,

la più insignificante delle donne del mondo,

quello che mi dicono esistere fuori di qui, dove abiti tu,

dove vivono coloro che passano di qui e m’ignorano,

o quelli che mi lasciano tre manat, quanto mi commuovono.

No, non mi fanno ridere.

Perché ogni atto di amore ha una sua verginità».

Poi un lungo silenzio, la sentivo smarrita: «Vuoi essere mio?».

Smarrito, io stavolta: «Sono tuo, lo sai, lo vedi».

E lei, di nuovo guardandomi

proprio là dove nessuno mai era arrivato – tranne la mia mistica maestra:

«Ora vai, non fotografarmi più, vai per le vie del mondo».

Mi sono permesso ancora: «Per far che?».

«Per amare quel che non è amato».

Allora per la prima volta ho alzato lo sguardo.

La mia Madonna non era sola.

Sulla tovaglia azzurra sedeva un vecchio dalla barba bianca, a punta,

col capo coperto da un cappello di lana di pecora scuro e cilindrico.

Alla sua sinistra ho scorto la sua signora,

una donna dai denti d’oro e dalle forme generose,

vestita d’azzurro e di fiori, un cerchietto d’oro sul capo.

Sorrideva, e gioiva che guardassi la sua figlia.

Poi, ancora, la sorella della mia Madonna,

forse la sua gemella, forse appena più giovane.

Vestiva d’azzurro, solo d’azzurro, con un foulard d’arcobaleno.

Era seria, capiva che con la sorella avevo stretto un patto.

Forse era pure un po’ gelosa.

Il padre di famiglia, cieco o quasi,

m’ha invitato a condividere il loro modesto desco:

yogurt riscaldato con un po’ di panna,

pane fritto nell’olio dei girasoli,

due pomodori e due cetrioli,

il chai, l’onnipresente bevanda del Cielo.

Dalle sue mani sporche, dalle sue unghie scure

ho preso quel pane e l’ho portato alla mia bocca,

dopo averlo intinto nello yogurt che filava – era salato e acido.

Ho accolto sui palmi delle mie mani un cetriolo e un pomodoro.

La sua signora li ha benedetti con due corone di cipolla.

Il vecchio mi ha detto: «Veniamo dal Belucistan,

oltre le montagne e le pianure,

dove c’è sangue e fuoco e morte».

La mia Madonna ha aggiunto:

«Qui invece c’è la pace, la gioia, il tutto e il niente».

Era il suo congedo.

Avrei voluto baciarle la mano, i piedi, i capelli, il lembo della veste.

Ma avvertivo che avrei violato il nostro patto,

più che i divieti dei costumi della sua famiglia. O del Belucistan.

L’ho guardata, l’ho amata, come lei m’aveva amato.

E ho ossequiato il capofamiglia, il vecchio,

come fosse lui l’oggetto delle mie attenzioni.

L’uomo mi ha benedetto, e io gli ho baciato la mano sporca.

Mi ha benedetto di nuovo.

Fuori il sole spaccava le pietre, sul serio.

Ma una brezza leggera m’avvolgeva e tergeva il mio sudore.

Ho trovato la mia Madonna.

Viene dal Belucistan.

Note scritte dopo aver visitato il mausoleo di Muhammad Ibn Zayd, nel sito archeologico dell’antica Merv, nella regione di Mary, in Turkmenistan.