lunedì 24 febbraio 2014

Fort Duvernette, lo scoglio-fortezza


St Vincent & the Grenadines, uno staterello caraibico che nasconde sorprese incantevoli e dure verità sociali.

In uno degli angoli più belli dei Caraibi, sulla sosta meridionale dell'isola di St Vincent, proprio dif ronte a una delle isole più belle della intera zona, quella Bequia che è la prima delle ben note Grenadines, si ergono – va usato questo verbo – due isolette dal destino ben differente: la prima, Young Island, è un resort che era di lusso sfrenato, mentre ora lo è un po' meno, appena un po', mentre la seconda, Fort Duvernette, è una sorta di fallo piantato nel golfo. Nel porticciolo di Villa, dove so passeggiando per digerire le seppie alla caraibica appena gustate alla French Veranda, chiedo a due dinoccolati energumeni (non sono contraddittorie le due qualità da queste parti) se sia possibile accedere a quel pilastro verde di vegetazione e rosso di pozzolana piantato nel mare. Per dieci dollari caraibici mi portano all'approdo dell'isola, da cui una scala di cemento porta alla sommità.
Detto fatto, ballando un po' sulle onde di questo insolito mini-tifone dicembrino, sbarco sull'isola oggi assolutamente deserta, è Natale e fa brutto tempo. Il mio pilota se ne va, dice che tornerà tra mezz'ora o poco più. Lo spero bene. Il luogo fa impressione: le pareti salgono pi che a perpendicolo – siamo sul sesto superiore con passaggi in artificiale – e continuamente lasciano cadere pulviscolo o sassi di dimensione in massima parte contenuta. Lo spero proprio. Salgo le prime rampe aeree, proprio così, non c'è che dire, talvolta cielo e mare li si intravvedono attraverso qualche fessura delle lastre di cemento. Terranno? Lo spero. Poi la scalinata s'addossa alla parete, anzi s'incassa in essa, ma col piccolo dettaglio che i sassi cadono via via più grossi, chissà se sarò fortunato. Lo spero. E finalmente eco le fortificazioni, in realtà solo un paio di terrazze con parapetto e un gazebo di paglia. Ma ci sono sei cannoni a minacciare l'orbe terracqueo, qui soprattutto acqueo. La vista è straordinaria, sulle Grenadine, su Saint Vincent, su Young Island. E m'accorgo che qui bisogna solo lasciarsi invadere l'animo, attraverso i cinque sensi, senza chiedere né tanto meno pretendere nulla. A cominciare dal ritorno del mio pilota, che fortunatamente trovo all'approdo.

lunedì 17 febbraio 2014

Grenville, il piccolo tonno


Ancora nell'isola di Grenada, un villaggio poco frequentato dai turisti, tra povertà e familiarità dei rapporti. 

La costa atlantica delle Isole Sopravento è inequivocabilmente la più selvaggia e quasi sempre difficile da nuotare. Non fa eccezione nemmeno l’isola di Grenada. I villaggi e le cittadine che s’allungano sulla costa paiono allora tutt’altro che dei luoghi turistici tradizionali, essendo praticamente assente ogni sito da tour operator. Meno male, da queste parti rischio d’incontrare la normalità dei grenadini, o come si chiamano gli abitanti di questa terra caraibica.
Non mi metto nemmeno alla ricerca di un qualche monumento o di qualche architettura degna di nota: tutto pare precario, salvo qualche chiesa protestante che accenna a un guizzo kitsch, solo kitsch. Le più interessanti appaiono le abitazioni di legno del secolo scorso restaurate alla meno peggio, senza stravolgerne i connotati. È domenica, tutto è chiuso e quindi la città appare un luogo di fantasmi, salvo per le celebrazioni domenicali. Per cercare un po’ di vita m’avvicino al mercato del pesce e al porto, sperando che il Dio dell’incontro mi guardi con benevolenza. Lo fa. Ha dapprima il volto di una giovane donna che, al bar dove sorbisco un caffè peraltro delizioso, mi si avvicina con un sorriso sdentato reso ancora più mostruoso da due labbroni esagerati invitandomi a renderla felice. Il che per me vuol dire offrirle un caffè, per lei ben altra cosa. Il commercio naturalmente sfuma, mentre accanto a lei amici e avventori se la ridono della grossa e poco importa se quella giovane donna m’appare una vittima innocente… 
Saluto e avanzo verso il fish market, che trovo però chiuso. Avanzo ancora qualche decina di metri finché mi ritrovo in mezzo a un gruppo di pescatori di piccolo cabottaggio che discutono il prezzo dei loro pescetti con gli avventori. Ne fotografo tre, rossi come peperoni, su una bilancia. Poi un giovane grosso e arrogante mi vieta ogni attività fotografica accusandomi di essere un «bastardo crocierista». Confesso che l’epiteto mi colpisce e m’offende, ma non riesco a volergliene neanche un po’. M’allontano di qualche metro, appena lo spazio per cambiare d’universo relazionale: dall’acqua emerge un vecchio rasta che regge in mano un piccolo tonno nero. Sale i due gradini sbeccati del molo e su un tagliere che era un banco di scuola si mette a pulire la sua preda preziosa, raccontandomi nel contempo la protologia e l’escatologia di Grenville. Anche se capisco ben poco, qui si parla un idioma simil-inglese che nasce e muore in bocca, trovando appena il tempo di lasciare qualche traccia all’esterno dell’orifizio buccale… S’avvicina un secondo rasta, più giovane, che prende ad attaccare il suo collega che m’aveva apostrofato: «I ragazzi d’oggi vivono qui come reclusi. Vorrebbeo tutti essere a New York o a Londra».
Un giovanotto fa una sgasata con la sua barca, un vecchio pesca alla lenza, un ragazzo dinoccolato porta in giro la sua musica assordante in un’enorme scatola. Benvenuti a Grenville!

mercoledì 12 febbraio 2014

Pearls Airport, archeologia aerea cubana



Grenada, Isole Sopravento, Caraibi, una testimonianza del golpe e dell'invasione Usa del 1983.

Il primo aeroporto della storia dell’isola di Grenada si trovava sulla costa orientale atlantica, in una sottile striscia di terra che s’incuneava dal mare lungo una valle accompagnata a Nord e a Sud da pericolose e ripide colline. Doveva essere una sorta di suicidio atterrare da queste parti, in ogni caso con velivoli di ridotte dimensioni. Negli anni Novanta, quindi, risistemate le faccende politiche e sociali dopo il golpe Usa del 1983 e l’invasione dell’isola, venne costruita una nuova pista nella penisola più meridionale e più occidentale dell’isola caraibica, sbancando scogli e colline. E' l’aeroporto dedicato a quel Maurice Bishop che fu ammazzato da presidente filocubano ma anche aperto al libero mercato. Troppo ingombrante sia per Usa che per Urss!
Arrivo con una certa "archeologica" attesa, perché ho letto che al bordo della pista, o di quel che ne resta, due aerei cubani giacciono come monumenti alla possibile rivoluzione grenadina. Assisto a uno spettacolo che sarebbe piaciuto a Gandhi, ma forse anche a Kennedy e Kruschev, tutti coloro che avrebbero voluto sbarazzarsi delle guerre. Attorno, dentro e sopra i due velivoli pascolano capre, pecore, mucche e tori, conferendo alle foto che scatto un non so che di postmoderno e di iperrealista. Sulla pista, peraltro ancora in stato non disastroso, anche se qualcuno ha cominciato a riciclare il suommanto d’asfalto, dei ragazzini giocano a cricket, mentre un giovane uomo cerca di spiegarmi perché Maurice Bishop fosse un vero eroe nazionale.
Il resto non è altro che distruzione delle infrastrutture aeroportuali e costruzione parallela di cottage di legno sul bordo della pista, ritengo senza alcun permesso di costruzione, ma che importa. Mentre in qualche tratto della pista è stato organizzato un circuito per kart…