martedì 28 giugno 2011

Monte Siepi, i nobili e le vigne


Sopra l'abbazia di San Galgano, in provincia di Siena, nel Chiusdino, è passato Re Artù...

L’esperienza di San Galgano, l’abbazia senza tetto, la chiesa gotica che vive d’erba e di cielo, non può essere dimenticata facilmente. Abita lo spirito senza imposizioni ma senza tentennamenti, come un’evidenza. Poco importa la storia ambigua e ben poco santa del sito. Quel che conta ormai è la bellezza creata dallo straordinario patto tra terra, aria e pietra: ognuna debitrice e creditrice alle altre due del giusto equilibrio. A vegliare sul sito, dall’alto di un colle d’un centinaio di metri d’altezza, sta una piccola chiesa, stile romanico del XII secolo, una rotonda con annesso presbiterio.

È qui che salgo lentamente, dopo la meditazione ai piedi dei muri di San Galgano, e dopo la comunione con la cultura e la natura del luogo che si sintetizza nella cucina del chiusdino. L’ascesa lungo un sentiero che costeggia una vigna ordinata e regolare, ingentilita dai roseti che segnano l’incipit del disegno dell’uomo che pettina la natura, è un avvicinamento al mistero del luogo, come scrive Franco Cardini: «Se poi, dagli imponenti ruderi, si sale alla “rotonda” di Monte Siepi, l’emozione e la perplessità crescono in proporzionale misura. L’enigmatica spada infitta nella roccia è un troppo forte richiamo simbolico, leggendario, staremmo per dire mitico e archetipico». Sì, sotto la volta a cerchi concentrici bianchi e rossi, sta una spada infita nella roccia, richiamo inconsueto per i luoghi al ciclo nordico di Re Artù. La storia è lunga, discussa e discutibile, Cardini cerca di “sistemarla” ma riuscendoci solo in parte. Ma a me non importa, qui si respira l’inquietante ed eccitante clima di antica leggenda che riporta indietro alla Tavola rotonda, agli intrighi dei maghi e delle fantucchiere, alla straordinaria evocatività dei simboli della magia.

La porta della chiesa è sbarrata, dall’interno provengono i rumori e i suoni della liturgia, e della liturgia dei secoli andati. Anticaglie e cozzar di ferri, profumi d’incensi d’Oriente e salmodiare in latino. C’è aria di nobiltà, c’è mistero di sacralità. Tutto è sacro, qui a Monte Siepi, nulla è santo. La messa è finita, le porte si aprono e sciama un popolo di aristocratici, in crinoline e divisa, in mantelle e scarpe verniciate. Un po’ comico, come i nobiluomini dalle ampie mantelle rosse e blu che non esitano a mettersi in posa dinanzi alla spada nella roccia, e che rispondono con degnanza alle domande dei villici, come il sottoscritto, che vengono ammessi nella riserva di simboli e segni della loro congrega, delle loro confraternite. Ridicoli. Reliquie. Rampanti.


lunedì 20 giugno 2011

Castelnuovo l’abate, il Medioevo sospeso


Nel cuore della Toscana, un borgo dove le pietre sanno di vino.


Un’indicazione stradale nel bivio che sottostà al paesello ha cancellato dalla scritta “borgo medievale” il “me” iniziale e l’“evale” finale, cosicché si legge alla fine “borgo dio”. Un borgo isolato su una dorsale collinare, sormontato da un campaniletto che, già da lontano, pare inadeguato all’opera per cui è stato costruito: dare prestigio all’abitato. Vi ero passato accanto più volte, perché proprio nella valle dominata dal borgo si erge dolce e maestosa, luminosa e fiera, l’Abbazia di Sant’Antimo, storia che torna a ritroso nel tempo fino all’VIII secolo e a una presunta fondazione carolingia, nulla di provato, anche se la tradizione pare solida.

Oggi, complice una gita che si prolunga nella sera, salgo al borgo, percorrendo un’erta che non mi aspettavo, che porta ad un borgo tuttora abitato da non poche persone, da famiglie che lavorano nel vino, nell’olio e nel turismo, in una delle zone italiane in cui l’agricoltura è ancora eccellenza. Che qui i soldi ci siano appare evidente sia dalle auto che dalla cura dei dettagli, che dalla tradizione di rispettare la proprietà comune, il bene comune. Un’esperienza che merita di essere ricordata di questi tempi, in cui il bene individuale pare assolutamente vincere su ogni altra priorità, in un abuso di egotismo.

Nel bel mezzo del centro medievale, anzi no, verso il termine della via principale, un’impasse, proprio dinanzi alla pieve dei santi Filippo e Giacomo, del XIII secolo, un gioiello di semplicità e armonia di forme e dimensioni, sta un palazzotto signorile più tardivo, d’epoca rinascimentale, altero e coquin, irraggiungibile da parte d’ogni altro villico sforzo architettonico. È il palazzo dei conti Ciacci Piccolomini d’Aragona, famiglia un tempo nobile e ricca, ora solo ricca del vino prodotto nella loro fattoria che giace nella vallata dell’abbazia. Il portone d’ingresso è socchiuso, fuoriesce odore di polvere e di legno, di vino e d’incenso, di mistero. Nessuno. Spingo la porta e nella penombra riesco a riconoscere bottiglie e attrezzi per la produzione del vino, quadri antichi e alabarde, insegne nobiliari, tini e botti. In fondo a un lungo corridoio s’apre uno scorcio di luce, come un respiro di primavera.

lunedì 13 giugno 2011

Miraflores Locks, l'acqua solida che sale

In attesa del completamento del nuovo Canale di Panama, godiamoci il grande gioco dei vasi comunicanti.

Pare un giochetto da ragazzi, quello dei vasi comunicanti, un esercizio da scuole elementari. Eppure quando per un’ora e passa ci si mette di buzzo buono – per via del caldo afoso e umido – ad osservare le Chiuse di Miraflores, sul versante pacifico del Canale di Panama, ci si dice invece che quel giochetto è una grande, grandissima intuizione che l’uomo ha saputo escogitare. È un’opera di ingegno ancora oggi straordinaria: quasi un secolo fa ha avuto il suo battesimo, grazie agli ingegneri statunitensi che furono messi all’opera. I francesi ci avevano provato, ma fallirono. L’opera fu completata nel 1914, cosò l’inaudita cifra di 375 milioni di dollari e 5609 vite umane, che si aggiunsero alle 20 mila del tentativo francese.

Fa certo un effetto fuori dal comune scorgere i container impilati in modo ordinatissimo sugli enormi bastimenti che attraversano le chiuse mentre si innalzano al livello dello sguardo, beffardamente, e poi se ne vanno come se nulla fosse. Quasi che sia normale elevarsi sulle montagne grazie all’elemento più orizzontale che esista, l’acqua. Le montagne di container sullo sfondo delle colline rutilanti di vegetazione tropicale paiono sfidare tecnologicamente la natura stessa, ma sapendo che sono perdenti, perché senza l’elemento più naturale che esista nulla potrebbe essere fatto contro il volere della Madre. Eppure anche l’acqua senza la tecnologia non potrebbe mai innalzarsi nel suo stato liquido. Solo lo stato gassoso può permetterle di salire al cielo senza difficoltà.

Le locomotive di fabbricazione svizzera ruzzolano su e giù per le chiuse, seguendo i binari che corrono paralleli alle strette vie acquatiche, trascinando con le loro piccole forze le grandi, immense navi che paiono tali per via della mole enorme di container che trasportano. Tutto è regolato come un orologio svizzero in queste chiuse che ogni giorno permettono di far passare 43 navi, per un ricavo che va dai 4 agli 8 milioni di dollari al giorno. Ogni dettaglio è seguito con meticolosa precisione, e forse per questo in tutta la storia del canale non si è mai registrato un incidente di grande portata.

Grandi e piccoli osservano il movimento delle navi e delle locomotive con straordinaria passione, quasi che il giochino dei vasi comunicanti fosse anche una comunicazione tra generazioni. E certamente lo è, visto che dall’alto i movimenti dei mezzi paiono come un enorme meccano che si fa e si disfa una quarantina di volte al giorno, ed entusiasma sempre e pare sempre nuovo, mai scontato o banale. Su e giù, su e giù, sperando che non si rompa mai, se ci stiamo attenti. La natura e la tecnologia a Panama si sposano alla perfezione. Ora, per il centenario, la Compagnia del Canale di Panama, ormai totalmente panamense, vuole terminare il nuovo canale, a cui sta lavorando dal 2006, rendendolo più largo e totalmente informatizzato, in modo da far passare anche le navi da 150 mila tonnellate. Speriamo che ciò non faccia rimpiangere il vecchio matrimonio, provocando qualche inatteso incidente. Tutto è possibile, purché non si perda di vista che l’uomo sempre e comunque deve, dovrebbe essere al di sopra di tutto ciò.

mercoledì 1 giugno 2011

Malta, dove sbarcò Paolo

L'isola mediterranea è al centro dell'interesse per la nuova legge sul divorzio e per la sua politica d'immigrazione. E pensare che laggiù era sbarcato un immigrato d'eccezione...

Già nell’avvicinamento all’aeroporto di Luqa si coglie che la grandezza di Malta non è calcolabile con il righello, ma è data dalla posizione geopolitica invidiabile, a eguale distanza tra Gibilterra e Beirut, e a un tiro di schioppo dalla Sicilia e dall’Africa. Un epicentro mediterraneo, dunque, culla di civiltà neolitiche pacifiche e religiose; porto di approdo per i naufraghi, come successe a Paolo l’apostolo ed ai suoi accompagnatori; centro di irradiazione cristiana, come al tempo dei Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni; ponte tra mondo arabo nordafricano e Occidente, come negli anni Settanta nella crisi libica; centro di pace universale, come in occasione dell’incontro del 1989 tra Bush e Gorbaciov, che segnò la fine definitiva della guerra fredda. Niente male per un Paese di poche decine di chilometri quadrati, con poche centinaia di migliaia di abitanti.

La sua gente è discreta, diresti timida e coltivata, così diversa dai vicini siciliani o tunisini: un taxista mi ha scorrazzato tra vecchie pietre e cale azzurre con una gentilezza signorile che sono sicuro avrebbe avuto identica nei confronti di un povero o del presidente della repubblica. Stupisce poi la profonda religiosità che anima questo popolo, che affolla le chiese anche nei giorni feriali e che annovera due santuari mariani meta di incessanti pellegrinaggi. Se solo si prova a mettere in dubbio lo sbarco di San Paolo nell’isola, come testimoniano esplicitamente gli Atti degli apostoli, ma su cui alcuni studiosi esprimono delle perplessità, ci si rende immediatamente conto dalle reazioni che quell’avvenimento fondatore della loro fede è vero perché per duemila anni questa gente ha conservato il suo credo nonostante le tante dominazioni.

E poi la lingua, così originale nella sua radice semitica (anche se viene scritta in caratteri latini), ma contaminata da innumerevoli vocaboli moderni sia italiani che inglesi. Nell’incomprensibile fraseggio arabeggiante si colgono parole familiari (computer, polizia, comunicazione…), e ci si diverte a cercare di dare un senso alla frase. Ma non ce n’è nemmeno bisogno: in qualche modo ci si fa capire qui a Malta, perché gli abitanti parlano quasi tutti tre lingue: maltese, inglese e italiano.

L’isola di Valletta e quella di Gozo, le maggiori tra quelle che costituiscono lo Stato di Malta, appaiono da qualunque punto le si osservi (dall’alto) come due gradini oblunghi, appaiati l’uno all’altro. Gradini per accedere al Cielo e al mare.