martedì 25 settembre 2012

Ubud, la delusione e le voci dei ragazzini



Centro culturale dell'isola di Bali, ormai è un tempio del turismo. Ma c'è sempre qualcosa da imparare...

Che dire? Ci sono delle volte che l’aspettativa di un dato posto è tale che la delusione è dietro l’angolo. Intendiamoci, la delusione per un viaggiatore che trascorre appena qualche ora in un dato posto non è granché credibile. Non ha avuto materialmente il tempo di conoscere un dato posto. Eppure il fiuto ce l’ha, il viaggiatore incallito, e qualcosa alla fine capisce sul serio. Ubud, città “culturale” dell’isola di Bali, in Indonesia, mi ha profondamente deluso. Non tanto perché il caldo opprimente e la fatica del viaggio in auto di locazione (guidare a Bali richiede un’attenzione prolungata e continua, perché le sorprese sgradevoli e pericolose per l’incolumità di qualcuno sono sempre dietro l’angolo, in primo luogo per la sconsiderata guida di tanti motociclisti!), ma soprattutto per la presenza massiccia di turisti. Ormai la città è un grande centro commerciale, in cui persino la mentalità balinese accogliente e gratuita viene messa a dura prova dal dio denaro, che sta bene nei tanti templi della città.
Intendiamoci di nuovo, questo non nega minimamente l’importanza della città e della sua storia che impressiona, in particolare per essere diventata negli anni Trenta un luogo che ospitò pittori di chiarissima fama dal mondo intero, e musicisti e scrittori. La storia la s’incontra nei templi principali – Pura Taman Saraswati, elegantissimo, degli anni Cinquanta del XX secolo e Pura Gunung Lebah, struggente, dell’VIII secolo –, così come nel museo Puri Lukisan o nel palazzo Puri Saren. Ma questi luoghi ormai sono sommersi dalle boutique, dai caffè, dai ristoranti, dalle agenzie turistiche, da ogni sorta di commercio. Persino il mercato Pasar Ubud pare una brutta copia dei bei luoghi indonesiani dove si cerca di trovare qualcosa di semplice e utile, e dove s’incontra la gente. Qui molto meno, al punto che l’insistenza dei compratori pare diventare un’ossessione fastidiosa. Il che mi dà non poco fastidio, per via del rispetto che in ogni caso noi europei dobbiamo verso questa gente.
Mi riconcilio con Ubud solamente già col piede di partenza, quando sento della musica uscire da quello che ritengo un tempio, ma che in realtà quasi subito mi accorgo essere una scuola. Perché, mentre salgo i ripidi gradini che conducono verso i tempietti, vengo letteralmente investito da una fiumana di ragazzi in divisa – pantaloni verdi, camicia bianca e cravatta – che finalmente tornano a casa dopo aver concluso la loro mattinata scolastica. C’è una tale vivacità nella loro esuberanza che mi dico: questa è ancora Bali. Ma valla a scoprire!

lunedì 17 settembre 2012

Borobudur, percorsi tantrici



Un altro luogo indonesiano che riporta alla notte dei tempi. E' il maggior tempio buddhista del Paese. Cinque chilometri di altorilievi

La sapienza degli architetti, sapienza creativa per eccellenza, assume i tempi della storia – e talvolta della Storia – allorché riesce a coniugarsi con lo spirito di quel dato secolo, o ancor meglio di quella data epoca. Non ci è concesso di conoscere i nomi degli architetti del tempio di Borobudur, solo qualcosa della loro scuola: vennero da tutta Giava, tra il 750 e l’850 d.C., chiamati dalla dinastia Sailendra per edificare il trionfo massimo del buddhismo javanese. Ma venne abbandonato subito dopo la sua conclusione, per il tramonto della dinastia e l’arrivo delle dinastie indù; così giacque, protetto dalla terra e dalle ceneri delle eruzioni sino all’inizio del XIX secolo. Ma è comunque certo che la loro arte ha trasformato in pietra il comune sentire di un intero popolo.
Di tutto ciò rifletto scendendo lentamente dal tempio di Borobudur, percorrendo a ritroso i cinque chilometri (!?!) di camminamenti che, in senso rigorosamente orario, il devoto (e ora si spera anche il visitatore) è tenuto a percorrere per giungere alla sommità del tempio: due milioni di blocchi di pietra formano un complesso simmetrico, per una base che ha lati di 118 metri che sorreggono sei terrazze quadrate e altre tre, quelle sommitali, circolari, con quattro passaggi stretti ma finemente scolpiti. Rifletto pensando che tale ascensione è un viatico straordinario alla contemplazione, del Nirvana nel caso del buddhismo.
Le disavventure del sito di Borobudur sono note, tra terremoti ed eruzioni vulcaniche. Ancor oggi non poche parti del complesso templare buddhista sono in fase di restauro. Troppi dettagli, troppe bellezze, troppe innovazioni stilistiche costringono ad un restauro rigoroso, conservativo e non ricostruttivo. Fortunatamente. Per questo non pochi altorilievi mancano di alcuni tasselli, ma è meglio così, c’è già tanto da vedere e fotografare, da ammirare e fissare nella memoria. Pannelli nei quali si ripercorrono e rincorrono non solo i classici elementi della spiritualità e della mitica storia buddhista, e quelli del pantheon buddhista-javanese, ma anche tutti quegli elementi che la memoria ha accumulato nell’avvicinamento da Yogyakarta a Borobudur: risaie e palmizi e banani; le prospettive “allargate” provocate dagli specchi d’acqua delle risaie; le forme abitative d’epoca, ma ancora esistenti, di legno e bambù; le infinite bottegucce d’artigianato lungo la strada. Non ci sono le motorette, negli altorilievo di Borobudur, ma almeno l’occupazione di tutti gli spazi disponibili c’è. Non ci sono fortunatamente le chiassose insegne dei negozi e delle aziende, ma il desiderio di pubblicizzare c’è. Un concentrato di antropologia e di sociologia javanesi e, in fondo, anche indonesiane.
Mi perdo, non seguo più le descrizioni mitologiche della mia guida cartacea, peraltro dettagliatissima. Mi ritrovo, infatti, nel mito stesso, avvolto da esso, circuito, ipnotizzato quasi. La ripetizione, per 1460 volte, dei pannelli con le scene mitologiche, la costante presenza di lingam, l’infinito ripetersi della figura del Buddha, m’appaiono una sorta d’iniziazione alla quale è difficile resistere. Si può reagire in due modi a una tale pressione psicologico-religiosa: sforzarsi, da antropologo, di trovare costanti e scostamenti dalla norma delle culture del luogo e dell’epoca; oppure giocare il gioco ed immergersi nell’esperienza filosofico-religiosa del buddhismo dell’epoca. Nel primo caso ci si preserva da ogni contaminazione, ma si passa accanto alla profondità spirituale del luogo; nel secondo s’accetta la sfida della religiosità non propria, ma si rischia di non capire razionalmente il fenomeno e di essere quindi colpiti da buonismo, irenismo e sincretismo. Scelgo il secondo percorso, più rischioso ma certamente più affascinante e sorprendente. Cerco cioè di immergermi nel mondo dell’epoca, senza razionalizzare immediatamente, per quanto possibile, cioè, senza dover sempre e comunque ricorrere alle categorie e all’immaginario della mia italianità e della mia cristianità occidentale. Senza tradire nulla, penso, ma cercando di immergermi con amore nella conoscenza di una diversa avventura religiosa e di pensiero. È l’amore che, in effetti, essendo l’essenza del cristianesimo, mi permette di non tradire la mia fede. Se vogliamo, un’esperienza che ripercorre alcune delle tappe delle scoperte di Teilhard de Chardin, ma vissute alla luce dell’esperienza mistica della Lubich. Il tutto in piccolo, in piccolissimo anzi.
Cosa succede? L’avanzamento è accompagnato dalla presenza di tanti javanesi, ben più numerosi dei turisti stranieri. Godo delle loro scoperte, delle loro risa, dei loro turbamenti, talvolta condividendo con loro tali sentimenti che talvolta mi paiono un po’ infantili ma che forse sono più vicini al sentire del “bambino evangelico” che al ragionare dell’“adulto occidentale”. Percorro itinerari supposti tantrici (dall’alto il tempio appare un unico, lungo itinerario tantrico), scopro ovunque statue del Buddha, poso lo sguardo sugli incredibili simboli fallici di cui è disseminato l’intero tempio, apro lo sguardo sulla straordinaria natura che fa da corona al sito, respiro respiro respiro. E con mia sorpresa colgo in me un amore crescente per questa gente javanese. Più m’immergo nel manufatto artistico, più spalanco lo sguardo sull’ambiente che lo avvolge e più avverto che i miei sentimenti per la gente che visita con me questo sito di Borobudur protetto dall’Unesco cresce. Finché non resta che l’amore. Non resta che Dio, che si esprime amorevolmente nel Verbo. Un amore che permane, nonostante sia messo alla prova dalle centinaia di insistenti venditori di souvenir e articoli d’artigianato che si susseguono all’uscita del tempio e fino alla mia auto. Questi uomini e queste donne sono da amare. Anzi, sono amore. Per me. E io per loro. Anche se non compro nulla.

mercoledì 12 settembre 2012

Penang Hill, lassù sopra il caldo


Malesia, isola di Penang, sopra Georgetown, un luogo dove i coloni inglesi amavano sfuggire all'afa della regione.
Nelle zone tropicali per noi europei la più grossa difficoltà è quella del clima, delle temperature costantemente elevate e accompagnate da un’elevatissima umidità. Così la caccia all’aria condizionata è lo sport più diffuso tra i nordici in terra equatoriale (ma ormai anche di tanti indigeni). Nell’isola di Penang, Malesia occidentale, le cose stanno proprio in questi termini, come basta capire dalla semplice consultazione di una cartina geografica. Quando poi le cose interessanti da vedere non sono poche, ecco che ci si lascia trasportare dalla eccitazione conoscitiva e non si è più capaci di dosare le forze. Così non resta che fermarsi. Nella propria stanza climatizzata oppure… salendo agli 830 metri della Penang Hill, la collina di Penang, dove l’aria è più fresca e si può camminare per tranquilli sentieri lastricati in mezzo alla foresta tropicale, ammirando la natura ma anche i cottage che all’inizio del secolo i colonizzatori britannici avevano costruito quassù, per abitarvi al fresco, o per trascorrervi qualche scampolo della loro settimana tradizionale. Nota anche come Flagstaff Hill o Bukit Bendera, conobbe le prime costruzioni nel 1897. Dapprima venne tracciato un sentiero per cavalli, mentre oggi si sale grazie alla meccanica.
Si sale infatti fin quasi alla cima della collina grazie a una funicolare assai ardita, che supera pendenze elevate, dando anche qualche brivido ai viaggiatori: tranquilli, è di fabbricazione svizzera! L’arrivo è però inquietante per la presenza di tanta, troppa gente addetta ai negozietti, ai trasporti con mini-auto elettriche, a una moschea francamente squallida e a un tempio indù col finto sadhu (ben pasciuto) che cerca di attirare i turisti. Il tutto accompagnato da strutture e mobilio urbano francamente orridi. Ma lo spavento termina ben presto quando ci si accorge che dalla piazza dei commerci si diramano alcuni sentieri discreti e ben tenuti, che permettono di camminare in mezzo alla foresta vergine, o quasi, senza tema e anzi con una certa pace dell’anima e dei sensi: si capisce ben presto che anche in salita, mantenendo un passo regolare e lento, si può evitare di sudare in modo eccessivo.
C’è così modo di ammirare una vegetazione straordinaria, fotografando macchie di colore floreale e disegni geometrici tracciati dalle verdissime piante delle più varie specie presenti nel luogo: diptocarcapaceae, conifere e felci arboree. I viottoli sono lastricati di mattoni rossi di laterizio che evidentemente da queste parti resiste meno che dalle nostre. I gradini sono smussati invariabilmente da una sorta di pellicola nera che avvolge i laterizi là dove non vengano lavati regolarmente. Cosa assai impossibile in una foresta. Ma anche le scalinate che portano ai cottage degli inglesi subiscono la stessa sorte, con buona pace di colonizzati e colonizzatori.
Il ritorno a valle non è dei più tranquillizzanti, per la velocità della funicolare e per la temperatura soffocante che prende alla gola non appena si esce dalla funicolare climatizzata. E allora si riprende a boccheggiare e a sudare come malati.

martedì 4 settembre 2012

Prambanan, la luce della pietra e quella dell’anima

Nei dintorni di Yogyakarta, a Giava, il maggior tempio indù dell'isola. La fede, anche se non si vedono riti di sorta.

Solitudine mattutina. Alle sei, all’apertura del recinto del complesso templare di Prambanan, 18 chilometri ad Est di Yogyakarta, nel cuore della tradizione giavanese, sono solo soletto. Avendo alle spalle il sole che spande i suoi primi raggi in un’atmosfera torbida, eppure ancora fresca, m’avvio verso i templi patrimonio dell’umanità Unesco ascoltando l’incedere dei passi sulla sabbia. I giardinieri stanno curando le loro aiuole fiorite, i banani, le palme, le tante altre essenze che abbelliscono il luogo. M’accorgo che i raggi radenti conferiscono spessore ad ogni cosa, le animano con il bacio della loro rosata essenza. La stessa luce che ora si posa, cominciando dallo stupa sommitale delle diverse torri che d’improvviso mi si parano dinanzi, come una visione, come una possibilità, come una certezza. Un’ora di meditazione. Noto subito che non c’è il culto vivace degli indù, i loro colori, gli odori, il disordine, la frenesia e l’improvvisa calma. Nulla, il silenzio e le pietre. Ma immediatamente colgo pure l’essenza purificata senza inquinamenti, la nudità della pietra come metafora della fede. È l’alba d’un altro giorno sul tempio di Shiva, e sui suoi fedeli compagni di culto.
Prambanan non è uno scherzo, è arte e storia, come leggo sui cartelli esplicativi dell’Unesco: 17 chilometri a Nord-Est di Yogyakarta, la capitale culturale indonesiana, è il complesso religioso indù più vasto di tutta Giava, costruito tra l’VIII e il X secolo. Allora a Sud dell’isola governavano i buddhisti Saliendra, mentre al Nord comandavano gli indù Mataram. Sembra che questi tempi portino le tracce di una fusione tra le due dinastie, con elementi sincretisti delle due religioni. Nel XVI secolo uno dei tanti terremoti danneggiò grandemente il sito, che probabilmente contava un numero molto maggiore di templi: altri danni ci furono col terremoto del 2006, ancora visibili in diversi templi.
D’improvviso, senza alcun preavviso, gli umani rioccupano lo spazio votivo del tempio di Prambanan. Scorgo due piccole figure velate, musulmane quindi, che salgono e scendono dalle scalette incerte dei templi, che accarezzano le basi delle singole piramidi compiendo l’intero percorso perimetrale, che s’arrestano d’improvviso come folgorate da una visione, da una qualche intuizione, forse mistica. M’avvicino, cerco di carpire i segreti della loro strana celebrazione. E più cerco d’intercettare le due figure – la prima col velo rosa e la veste rossa, la seconda col velo verde e la veste gialla –, più mi rendo conto che quelle due figure stanno pregando. Non nell’anonima moschea di plastica e cemento costruita all’ingresso del parco. Ma in questo tempio che, in qualche modo, ha stipulato la tregua, l’agreement tra buddhisti e induisti, che affonda le sue fondamenta nel misticismo giavanese così bistrattato e addirittura vietato. La tradizione religiosa d’un popolo non può essere eliminata per decreto. I riti delle due giovanissime donne mi resteranno misteriosi, ma non altrettanto lo sarà la certezza della loro fede tradizionale. Fiamme di luce umana sulle fiamme della luce della pietra. A nulla vale la più alta costruzione se la persona umana non la rende vitale, non la trasforma in storia e arte e cultura. Così la servitù diventa libertà dell’anima.