mercoledì 16 marzo 2011

Saichō, esempio per i giapponesi


Mentre il Giappone è sconvolto da terremoto-maremoto-emergenza atomica, l'esempio di un vecchio monaco spiega la compostezza dei figli del Sol Levante.

Volevano farci un regalo, i monaci del Monte Hiei, ed hanno colto nel segno. Dopo la preghiera mattutina, ci allontaniamo dall’area orientale dei templi (Tō-dō), per avvicinarci a quella occidentale (Sai-tō), forse la meno frequentata dai turisti, ma certamente quella più pregna di significato per i monaci del Monte Hiei. Dopo una passeggiata sotto gli ombrelli, immersi in un’alta foresta, e percorrendo un sentiero accompagnato da antiche lampade di pietra, giungiamo al Tempio della terra pura, Jōdo in, circondato da uno stupendo giardino di ghiaino pettinato a spirale, il luogo dove è stato sepolto il fondatore del buddhismo tendai, nell’822. Saichō Dengyō Daishi ha voluto lasciare qui la terra, santo tra i santi. Il monaco che ora vive qui, viene chiamato Jishin, e deve rispettare strettamente tutti i duri precetti ascetici voluti dal fondatore. E non a caso è proprio qui che affrontano i 12 anni di isolamento praticano la loro penitenza. Appena giunti sul posto, una melodia tantrica giunge ai nostri orecchi attraverso le fessure d’un tempietto di legno: è la voce dei monaci che non possono essere visti, i più coraggiosi.

Il monaco che vive qui, e che ci fa da cicerone nella breve visita, mi fa avvicinare ad una sorta di botte di legno. La scoperchia. Dentro, su un letto di sabbia uniforme, è tracciato un percorso in parte incenerito, in parte ancora del color dell’ambra. È incenso. «Lo accendo ogni mattina alle tre, e deve rimanere acceso fino alle tre del giorno seguente, cioè 24 ore intere. È anche questa una sfida per dimostrare quanto la vita sia tutta una questione spirituale».

Tornando verso il parcheggio, scopro altri templi nascosti nel bosco. In particolare ne scorgo un paio identici, riuniti da un passaggio coperto Costituiscono, mi spiegano, il Ninai-Dō, aule per gli esercizi pratici sul Lotus Sutra e sulla Terra pura, che sono peraltro insegnamenti congiunti. Ed ecco il Tsubaki-Dō, piccolo e antico, grazioso e perfetto nelle dimensioni. E più in alto il vasto Shaka-Dō.

Passiamo infine dinanzi ad una grande statua di Saichō, che la nostra sorridente guida ci tiene a farci vedere. Dinanzi ad essa, ecco una grande vasca bianca circolare nella quale, il 16 marzo, giorno della Preghiera per la pace, vengono bruciate tutte le preghiere scritte su foglietti di carta rosa che la gente deposita nel corso dell’anno attorni ai templi del Monte Hiei.

martedì 8 marzo 2011

Novara, la cupola quasi disarmonica

Si parla di nuovo della città piemontese per via delle imprese calcistiche della sua squadra, in serie B. Visita per una ritardata partenza dalla Malpensa, 2008.

Ci sono città – in tutto il mondo più conosciuto e in quello meno conosciuto – il cui abitato è dominato da una costruzione, un campanile, una torre, oppure una montagna, un picco, un avvallamento. Un elemento, cioè, che sintetizza e riassume, o forse appiattisce il resto della città. Si pensi, ad esempio, alla cattedrale di Chartres, visibile da qualsiasi landa sperduta per un raggio di alcune decine di chilometri. Si pensi, ancora, al Pan di zucchero di Rio de Janeiro, roccia vellutata di clorofilla, presenza inquietante e rassicurante nel contempo, onnipresente. Si pensi, infine, a Varanasi, capitale spirituale dell’India, fagocitata dalla presenza della “madre di tutti i fiumi”, il Gange misterioso.

Novara “è” la cupola antonelliana della Basilica di San Gaudenzio. Alta, slanciata, quasi disarmonica nel rapporto tra altezza e larghezza, in ogni caso ardita. Curiosa la storia di questo luogo di culto che, sorto a partire dal 1577 su disegno di Pellegrino Tibaldi (con campanile di Benedetto Alfieri), volle, con le sue decorazioni inusitate per l’epoca, essere in qualche modo il simbolo dell’effervescenza artistica dell’epoca barocca. E lo divenne, ma non solo per quello stile: in particolare nell’epoca delle penetrazioni napoleoniche nella Padania, divenne il rifugio, il ricettacolo di opere d’arte salvate dalla distruzione di monumenti rasi al suolo per far spazio al nuovo, al cosiddetto nuovo. E continue aggiunte rinascimentali alla basilica del santo patrono finirono col renderla il vero museo della gente e dell’intera città.

Finché l’Ottocento irruppe nella vita dei novaresi e l’integrazione del territorio nel Regno sabaudo – e poi a quello d’Italia – spinse gli amministratori a ridisegnare in profondità l’intera città, con il talvolta sciagurato abbattimento di chiese, mura e palazzi. Ma iniziative senza dubbio encomiabili non mancarono, come ad esempio proprio l’edificazione della cupola della Basilica di San Gaudenzio, affidata al grande architetto Alessandro Antonelli. Che passò gli ultimi 44 anni della sua vita, dal 1844 al 1888, a lavorare al progetto e alla sua realizzazione, parallelamente all’edificazione della Mole antonelliana di Torino. Si accavallarono, infatti, ovvi problemi strutturali a penurie finanziarie, e l’avversità di buona parte della popolazione. Ma la lunga gestazione permise ai novaresi di abituarsi a quell’ardita struttura, giungendo persino ad affezionarvisi. Così oggi Novara “è” la cupola antonelliana, senza se e senza ma.

Passeggio per le vie del centro storico in un sabato freddo ma assolato. Novara è un grosso borgo, più che una piccola metropoli. La gente si conosce, si saluta, spettegola deambulando nelle vie pedonali, sbircia le vetrine mentre i bimbi pattinano in una pista di ghiaccio da festa foranea e i vecchi conversano della crisi di governo sulle panchine attorno al vecchio e malconcio castello. Nel cortile del Broletto – secoli X e XI –, un bell’esempio di architettura civica medievale, le giovani e imbellettate mamme tecnologiche passeggiano i loro frugoletti d’uomo trattandoli come principini. Una città appagata, “borghese” che di più non si può, ricca se non addirittura opulenta. E rassicurata dalla svettante cupola antonelliana, che spunta ogni volta che si gira un angolo, come per dire ai novaresi che il mondo cambia e si rinnova, certo, ma con prudenza e lentezza, molto lentamente. Saliti i gradini della cupola – arditi come tutto – la vista della città placida e sonnacchiosa sembra dire che il mondo non cambia, resta sempre uguale a sé stesso.