lunedì 15 dicembre 2014

Qom, la città degli ayatollah

Viaggio in Iran/1 - La seconda città santa del Paese vive di fedeli più che di commerci

È la seconda città santa dell’Iran, dopo Mashhad. Oggi, però, quasi quasi Qom fa ombra a quest’ultima da quando proprio qui l’imam Khomeini predicava, prima di essere costretto all’esilio dall’ultimo shah di Persia, Reza Pahlevi. E qui, oggi, sono concentrate le più importanti scuole e università coraniche. Che il mausoleo che accoglie le spoglie di Fatemeh, per noi Fatima, riceva sempre più visite – sembra 40 milioni all’anno secondo la guida che ci è stata imposta dalla polizia – lo testimoniano le opere faraoniche di ingegneria che sono state messe a disposizione dei visitatori, o che lo saranno appena terminate: un megaparcheggio sotterraneo; una metropolitana aerea impressionante nel suo lungo viadotto; tre o quattro enormi moschee; una gigantesca opera di accoglienza, una sorta di ostello, che pare un aeroporto. Ma tutto ciò non conta nulla. 

Ciò che importa è il Hazrat-e Masumeh che ospita la tomba della sorella dell’imam Reza, che morì e fu sepolta in quest’edificio nel IX secolo: due cupole maestose, cortili e minareti a profusione, piastrellati incantevoli, il tutto costruito soprattutto sotto lo scià Abbas I e gli altri sovrani safavidi, anche se la grande cupola dorata fu edificata dallo scià qagiaro Fath Ali.
 

Mentre dunque la nostra guida Ali ci istruisce sui santi principali dell’Islam versione sciita, camminiamo lentamente verso il mausoleo vero e proprio, contraddistinto dalla grande cupola dorata che s’avvicina nella sua sobria ricchezza sin da lontano. Ecco la grande nicchia degli specchi e poi quella dorata, ecco i grandi cortili, quattro, con inusuali fontane e tanti servizi per i pellegrini e gli studenti; ci sono i numerosi minareti e le grandi porte di sapore persiano. Ma c’è soprattutto la gente, di tutte le età e di tutte le provenienze, su cui svettano i turbanti bianchi degli ayatollah e degli imam, avvolti nelle loro palandrane nere, bianche o beige. Assieme alle donne velate e avvolte di nero, creano un’infinita sequenza cangiante, quasi fiamme nere che svolazzano qua e là posandosi dove e quando vogliono su un concerto di note maiolicate colorate di cui si può capire il senso (e il sesso) solo dopo un lungo esercizio di assuefazione all’assenza di colore.
 

Accade così che, d’improvviso, i colori delle maioliche – gli azzurri e i verdi dominano – vengano dipinti sulle lunghe vesti che avvolgono le donne, e alcuni uomini. Anche le tante bandiere nere inalberate in occasione della festa dell’imam Hossein, il settimo imam, quellod ella kenosis islamica sciita, paiono colorarsi. Ma non è che un’illusione, o il sogno di tanti iraniani, quello cioè di avere una religione un po’ più gioiosa.
Curiosamente qualche sprazzo  di gioia la scorgo nella grande sala della preghiera dove sono riunite alcune centinaia di imam, ognuno con il suo turbante bianco e con i suoi curati mantelli bruni e grigi, elegantissimi; ascoltano la lezione di un ayatollah più importante degli altri, e intervengono e si esaltano e si infiammano, addirittura. Proprio lì accanto giace Fatemeh che riesce a trasmettere loro un po’ di grazia. Femminile, finalmente.

mercoledì 3 dicembre 2014

Astana. Dov’è la persona umana? Anche qui

Viaggio in Kazakistan/9 e ultima puntata - Nella capitale si fa sfoggio di architetture rilucenti, anche se non sempre comprensibili

Ci sono città costruite per il volere di una sola persona che, pur animata da ottime intenzioni, nei fatti considera tutti i suoi “simili” non tali ma “uguali” a sé. Quindi, facile sillogismo, quel che tale demiurgo ritiene vero e buono e bello per sé per forza di cose nella sua mente lo deve essere anche per gli altri, per i sudditi. È probabilmente questo il pensiero che ha mosso Nursultan Nazarbayev quando ha voluto trasferire la capitale del Kazakistan da Almaty ad Astana, fin’allora una modesta città di nome Akmola, uno dei tanti centri senz’anima della sconfinata steppa kazaka a cui era legato affettivamente, ma soprattutto più centrale nell’immenso Paese centrasiatico e più vicino alla Russia, cioè all’ex-Unione Sovietica di cui Nazarbayev era stato fedele servitore. Mutatosi in pochi istanti da comunista a post-comunista, il campionissimo del Kazakistan ha identificato il nuovo corso della Storia con la propria persona, peraltro non senza intelligenza e con la straordinaria fortuna di essersi ritrovato nel sottosuolo risorse di petrolio e di gas, ma non solo, che dire straordinarie è poco. La gente se non altro lo sopporta, anche se non lo supporta, per non dover cadere nelle spesso tragiche e paradossali avventure delle democrazie post-comuniste (anche se dubito che la popolazione lo ami sinceramente, salvo ovviamente i nostalgici del comunismo).
 

Astana, dunque: spazi enormi, come in tutte le città che vogliono esprimere ideologicamente un istinto di grandeur. Ma che non può mai realizzarsi senza una vera e propria grandeur culturale, che invece qui latita. Basta osservare le architetture, le insegne dei negozi, le balaustre che tocca rifare dopo un anno perché sono state tirate su troppo in fretta e senza un vero savoir faire, gli spazi occupati secondo logiche che stanno solo nella mente dei progettisti ma non in quelle degli utilizzatori. Difficile sentirsi a proprio agio in una città che non ha storia, se non di fiato corto, che non ha assunto su di sé e metabolizzato gli errori del passato, che non ha stratificato in una scala precisa di valori le bellezze sociali e culturali, scartando via via le inevitabili brutture. E potrei continuare.
Eppure il fattore umano – quello che tocca il cuore e l’anima – lo trovo anche ad Astana, non me lo sarei aspettato. All’agenzia di viaggio, al distributore di benzina, al parco giochi, al bar, alle toilette, al semaforo. Ovunque tale fattore umano, nonostante il contesto sfavorevole, trionfa, non si fa soffocare dalla grandeur pacchiana. E resterà, ne sono convinto, quando queste esagerazioni architettoniche saranno crollate. Resterà il sorriso del bimbo che mi offre un sasso, il clin d’oeil del poliziotto che mi fa usare le toilette del distributore di benzina, il barman che vorrebbe offrirmi una birra ma che non può perché il locale è ancora chiuso per gli avventori, il businessman che mi indica la via in un inglese anglo-kazako fantasmagorico. Evviva Astana, allora! Evviva gli astanini (ma si dice così?)!