venerdì 25 giugno 2010

Viva la Slovacchia!


Bratislava, ovvero del Danubio a portata di mano. All'indomani della sconfitta della nostra nazionale, omaggio alla capitale slovacca. Visita del 2001.

Ci ero stato nel 1981, in pieno socialismo reale, e poi nel 1991, in piena euforia post-comunista, ancora senza concretezza. Fatico a riconoscerla, ancora a dieci anni di distanza. Qua e là uno scorcio familiare, giro un angolo e riemerge un’immagine già fissata nella memoria: ma allora tutto era grigio e dimesso, le luci erano inesistenti nottetempo, aleggiava un’atmosfera di degrado che incuteva timore e malessere. Oggi il centro della città è armonioso, ricco di sorprese, caffè familiari, locali che propongono buona musica, di tutti i tipi, dall’hard rock a Mozart.
C’è un’atmosfera particolare nella città, che può essere sintetizzata nello stupore che mi coglie ogni volta giro un angolo, e non so cosa mi posso trovare di fronte, non immagino colori e forme degli edifici. Come a Praga, capitale dell’allora Cecoslovacchia; ma anche diversamente dall’attuale capitale ceca, perché qui l’oro è usato con parsimonia, a tutto vantaggio del bianco, che dà colore al tutto. Dove il restauro è non terminato, dove gli intonaci stridono (perché ancora abbandonati o al contrario perché già restaurati) vi è una metafora dell’umana sorte, dei corsi e dei ricorsi della storia.

Difficile resistere anche in queste contrade al fascino della Mitteleuropa, alle tinte delicate, agli stucchi, all’atmosfera sospesa nel tempo: Mozart e le sue note cullano gli avventori dei bar ricchi di Sacher torta e Bomba Charlotta, di tessuti e legni bruni di vecchiaia, mentre fuori tira vento e la primavera sembra non voler spuntare. La cultura dell’intrattenersi nella protezione di una calda sala da tè, al riparo dalle intemperie, ma soprattutto dal va e vieni della gente, dal rumore della via, dalla inquietante insicurezza della piazza. La Slovacchia è come un avventore della sala da tè nella nuova Europa.

Noto la discrezione di due donne slovacche che discutono sedute a un tavolino della sala da tè. Fanno pensare al popolo cui appartengono, gente seria, contadina, senza grilli per la testa, né smodate ambizioni. Un popolo che forse per questo non ha perso la sua fede cristiana, pur faticando non poco a ritrovarsi nelle prospettive di una chiesa che oggi dialoga a tutto campo, persino con gli odiati protestanti o i pericolosi mori.

E pensare che Bratislava ha subìto colpi durissimi nei decenni del comunismo, che testimoniavano la stupidità dell’uomo che si prende per dio e decide di spazzare con un manrovescio un intero quartiere, guarda caso il ghetto ebraico. Per far cosa? Per modernizzare l’insulso vecchiume, per annullare la religione che obnubila le menti e la cultura che ri rifiuta di mettersi «al servizio del popolo». Per far spazio a un fiume di catrame e automobili che schizzano l’acqua delle pozzanghere sulla porta del duomo di San Martino. Per erigere un ponte sbilenco che su uno dei suoi due piloni ha visto atterrare un disco volante, mutatosi d’incanto in ristorante per i notabili del partito. Per spostare 250 mila anime – considerate piuttosto carne senza anima – al di là del grande fiume, in allucinanti gabbie di cemento che si sbriciola e di ferro che arrugginisce. Per erigere un museo d’arte moderna che sembra un hangar di lamiera o una enorme maschera da saldatore… Eppure Bratislava non è morta. È risorta. Grazie alla fede e alla cultura, per una volta alleate.

Bratislava, piazza del municipio. Uno di quei salotti sulla pubblica via che riconciliano la singola persona con la società. Bratislava e le statue in piazza, gli stemmi, le lapidi, le placche commemorative, le strane decorazioni futuriste. Delle due l’una: o desidera darsi delle arie di città d’arte, oppure considera le sue strade come stanze, salotti e corridoi di un grande appartamento aperto a ogni ospite.

Bratislava è un biscotto caramellato e una bambola di legno. La gente, come richiamata da un tamtam sommesso, si riversa nelle strade e nelle piazze ricca di un’incredibile dose di tempo da perdere, da consacrare alle mille e una chiacchiere, senza una riga da leggere, una nota da ascoltare, una frase da scrivere. Il tempo a Bratislava si aggrappa ai raggi del sole primaverile per sospendere il suo corso. E quando la sera viene a tramutare il tepore in gelo, d’improvviso il tempo si abbatte sulla terra, togliendo il sorriso dai volti, gelando ogni velleità conversatoria, chiudendo il becco agli uccelli…

Le mura parlano a Bratislava: qui nel 1988 si è tenuta la prima grande manifestazione contro il regime comunista; qui è stato incoronato il re d’Ungheria; qui due preti anticomunisti sono stati ammazzati… Bratislava ha avuto vari nomi, a seconda del dominatore di turno, perché Bratislava è terra di passaggio, crocevia di civiltà e tradizioni, lingue e aspirazioni politiche: Breslava (slavo), Bratislava (slovacco), Istropolis (greco), Posonium (latino), Pozsony (ungherese), Pressburg (tedesco), Prešporok (ceco). Sotto la torre di Michele, la Michalská, una grande cerchio di ottone incastonato nella pavimentazione indica le distanze a volo di uccello che separano la capitale slovacca dalle principali città europee. Bratislava è posta, dicono da queste parti, al centro dell’Europa, il chilometro zero, il punto di partenza. L’Europa, a ben guardare, non è altro che un insieme di incroci. Si dice che lo siano il bacino della Ruhr, ma anche la regione di Parigi, il corso della Moldava e la confluenza della Morava nel Danubio. Tutta l’Europa è un incrocio. In questo senso Bratislava è un’icona del vecchio continente.

Bratislava in altezza, accanto al maestoso castello – il Hrad, fornita di quattro torri agli angoli del vasto quadrato che costituisce, simbolo della capitale slovacca nel mondo intero –, con una vista mozzafiato su tre lati: a sud la nuova Bratislava del socialismo reale, tutta cemento e bruttura; a ovest la distesa verde dei boschi al confine con l’Austria; a est la città vecchia, il “gioiello”. Un maniero che dice la vocazione politica della sua gente.

Non a caso, accanto ad esso, è stato edificato il nuovo Palazzo del Parlamento, una moderna costruzione che ospita 150 deputati, nella sola camera legislativa del paese. All’entrata, un busto di uno dei padri della patria, lo scrittore J.M. Hurban, mostra un suo detto, diventato il motto della Slovacchia: «Per la verità e per il popolo». Sotto alla statua, la costituzione slovacca, la dichiarazione di sovranità del 17 luglio 1992, che provocò pochi mesi dopo anche l’indipendenza, e i timbri che servirono a “bollare” la carta costituzionale.

È un’esperienza toccante trascorrere una giornata in mezzo ai deputati di una repubblica piccola e giovane come la Slovacchia. C’è il contadino che non sa dove mettere le mani, il boss di quartiere con un anello d’oro per dito, il professore universitario con la giacca stretta e lisa perché non ha i soldi per comprarne una nuova, il vecchio gerarca comunista che ha cambiato casacca come si cambia una giacca, la militante cattolica che più cattolica non si può, il medico che entra nell’aula del parlamento come si entra in sala operatoria… È la meraviglia di un popolo che si scopre libero. Certo, ce n’è da fare per risuscitare in questa gente il senso dello stato. Ma forse ce n’è più in loro che nei nostri professionisti della politica, ricchi solo non del senso dello stato, ma dello stato dei loro sensi…

martedì 15 giugno 2010

Valle di Fergana, dove la terra diventa seta


Per sfuggire ai disordini interetnici, 100 mila cittadini del Kirghizistan di nazionalità uzbeca hanno varcato la frontiera di Osh per fuggire in Uzbekistan. Reportage sulla valle, estate 2009.

Andijan, cittadina di 350 mila abitanti. Nulla di speciale, salvo una sana agricoltura e qualche commercio. Volevo visitare Andijan per un motivo in fondo molto particolare: vedere la piazza Babur, dove il 13 maggio 2005 l’esercito uzbeco provocò una strage, con centinaia di morti, di cui all’estero s’è saputo poco o nulla per via del regime di controllo sull’informazione attuato dal governo di Kadirov, che blocca nella pratica ogni notizia scomoda. Si dice che all’origine della strage ci fosse un episodio secondario – la richiesta di riforme economiche –, ma che a far saltare i nervi alle autorità sia stato il timore di infiltrazioni fondamentaliste islamiche nella regione, provenienti dal Pakistan, dall’Afghanistan e dal Tagikistan. Effettivamente qui nella Valle di Fergana si notano molte più moschee che altrove e le donne velate abbondano – fa la sua comparsa persino qualche burqa –, e anche numerosi posti di blocco, alcuni assai “muscolosi”, molto più ravvicinati che nel resto del Paese. Nell’aria si respira più tensione di quanta ce ne sia a Tashkent o in qualsiasi altra regione uzbeca, persino nella città-porta all’Afghanistan, Tabriz. In realtà il mio autista di turno – scelto alla frontiera col Kirghizistan da cui provengo – fa di tutto per non condurmi alla piazza Babur, chissà, forse vietata alla sosta. Non riesco proprio a farlo recedere dal suo rifiuto.

Inizia così una giornata un po’ folle nella Valle di Fergana, proboscide dell’Uzbekistan mutilata di ampie parti rimaste incollate al Kirghizistan, propaggine geografica ideata dello stalinismo all’apice della paranoia del divide et impera. Sicuramente la valle è la regione più fertile di tutto l’Uzbekistan, ben irrigata e coltivata, ormai quasi affrancata dalla monocultura del cotone che il sovietismo dei piani pluriennali aveva destinato alla regione, distruggendone l’immenso potenziale idrico e agricolo. I danni sono stati altrove irreparabili – vedi la quasi scomparsa del Mare d’Aral –, ma la solerzia e l’ingegnosità degli abitanti della valle qui ha certamente fatto tanto per restaurare l’antico prestigio agricolo della regione. Ammiro i campi di granturco e girasole e grano, i frutteti di mele e pesche e albicocche, i lunghi filari di pioppi piantati a un metro l’uno dall’altro e quelli di gelso così bitorzoluti da essere impossibili da allineare; e i canali scavati con le mani e le braccia dalla gente del luogo per irrigare a dovere i campi con l’acqua che in fondo giunge qui ancora abbondante dalle montagne del Kirghizistan e del Tagikistan…
Un capitolo a parte meriterebbero le viti, che spuntano ovunque nella Valle di Fergana, rigogliose e cariche di grappoli opulenti di chicchi e grassi d’acqua. Gli abitanti hanno preso l’abitudine di farla crescere amorevolmente non solo dietro casa, nell’orto di famiglia, ma anche davanti alle abitazioni, cosicché se nelle cittadine e nei paesi della valle non esistono portici, si allungano però freschi e verdi pergolati, gradevolissimi: passeggiare nell’assolato pomeriggio estivo fa in qualche modo credere che il torrido sole estivo possa non dico essere sconfitto, ma almeno domato.

Fergana curiosamente sembra dare il nome alla valle intera – una valle per modo di dire: come la Valle Padana è compresa tra Appennini e Alpi, così questa piana è compresa tra la catena montuosa dello Tian Shan e i monti Alay –, perché in fondo è la città più recente tra quelle di un certo rilievo della zona. È in realtà la valle che ha dato il nome alla città, costruita dai russi nel 1877 come Novy Margilan, fu poi battezzata Fergana dai sovietici, negli anni Venti. Non c’è nulla di antico da queste parti, ma si respira un’aria decisamente solerte, lavorativa. Non per niente dicono che questa sia la città più giovane dell’intero Uzbekistan (e forse anche dell’Asia centrale), con due grandi università, centri di ricerca e qualche industria.

Anche Margilan ha poco da offrire. È tuttavia nota per avere un buon bazar di verdura e frutta, quelle coltivate nella valle benedetta: sotto la vastissima tettoia del mercato si può incontrare la bontà della gente uzbeca, ma soprattutto quella delle donne, vere colonne portanti del Paese, mogli fedeli, madri premurose, lavoratrici instancabili, capaci di restare per una giornata intera dietro un banchetto di pane o di angurie e poi raggranellare, se va bene, 10 mila som, sei euro scarsi. Ma Margilan è pure il centro della produzione della seta nella Valle di Fergana. Numerose sono le fabbriche preposte alla sua lavorazione. La più antica e importante è la Yodgorlik. Vi capito a mezzogiorno quando lavoratrici e lavoratori stanno pranzando. Ma con estrema cortesia, e sempre col sorriso sulle labbra, accettano di mostrarmi le varie fasi della lavorazione della seta, dall’estrazione della larva alle successive purificazioni del bozzolo, dalla filatura vera e propria alla tintura, sino alla tessitura di tappeti e tessuti, a mano o a macchina (apparecchiature antidiluviane, comunque). Visita didascalica, senza voler entrare nel merito dei diritti dei lavoratori e della tutela della loro salute…

A Rishtan non desidero proprio fermarmi, ma il mio autista vuole a tutti i costi farmi visitare un laboratorio di ceramica. Nulla da fare, il sig. Ahmed è testardo come un mulo. Allora avanzo la scusa di una sorella ceramista (scusa d’altronde vera) per sottrarmi alle noiosissime spiegazioni sulla lavorazione della ceramica. Compro tre coppette per tre euro ed esco nel giro di quattro minuti d’orologio. E così evito anche odiose (per me) conversazioni con un pugno di turisti italiani che stanno facendo il loro solito, pietoso spettacolo da imbecilli.

Quindi non ricorderò Rishtan per le ceramiche, ma per un ristorante. Sì, perché l’autista mi “sfrutta”, visto che il pasto secondo lui è a mio carico, portandomi nel miglior ristorante della città, e uno dei migliori della valle, dove si cuoce un solo cibo, il piatto nazionale, l’osh, altrove chiamato plov. Nel locale ci sono varie sale, per le diverse stagioni e per le varie ore del giorno. La sala nella quale ci fanno accomodare è la più curiosa, a cielo aperto seppur ricoperta da ampie stuoie che al centro lasciano flettersi al vento una dozzina di bellissime betulle. Nella sala sono sistemati una decina di söry, sospesi su una struttura metallica che ricopre un fiumiciattolo: ingegnoso modo di mantenere una certa frescura, complice il vento impetuoso che qui spira quasi ogni giorno. E così i 42 gradi ambientali diventano sopportabili, e le conversazioni fluiscono serene e intrecciate le une alle altre, anche tra sconosciuti. Così al nostro tavolo s’accomoda un coltivatore di uva che, capito che ero italiano, voleva trovare il modo di mettersi in contatto con un produttore piemontese di conservanti per la frutta. Dopo tre quarti d’ora d’attesa, ecco l’osh, straordinario, tenero e croccante nel contempo, dolce e speziato, delizioso al palato se mangiato sorbendo tè verde, amaro ovviamente.

Kokand, infine, città notissima in tutta la regione per essere stata la sede di uno dei khanati più famosi del XVIII e XIX secolo, seconda solo a Bucara per la sua “fama di santità”. Qui finalmente riesco a trovare qualche pietra un po’ più antica. O perlomeno più vecchia di quelle osservate in tutta la Valle di Fergana. Ogni cosa è decadente o in restauro, ma la qualità dei luoghi merita una visita. A iniziare dal cimitero nel quale penso per qualche istante di trovare riposo eterno per l’afa dei 40 e passa gradi e la complessa digestione del piatto di osh. In mezzo alle tombe scovo un paio di piccoli mausolei di antichi khan – quelli di Modari Khan e di Dakhma-i-Shokhon – che sono in restauro, con operai e artigiani al lavoro. Purtroppo, perché non so quanto di quello che osservo sarà mai visibile da altri nei prossimi decenni: qui il restauro è rigorosamente ricostruttivo e non riabilitativo! Chi vedrà più le delicate maioliche verde acqua e azzurro fiume che decoravano il portale del secondo mausoleo? Chi vedrà più le tombe originali della famiglia del Modari Khan nel primo mausoleo?

Faccio poi un salto alla madrasa Narbutabey, un piccolo gioiello. Fino allo scorso anno ottanta ragazzi vi studiavano in condizioni che definire precarie è un eufemismo. Molto armoniose paiono le proporzioni del cortile per l’alloggio e lo studio. E poi la moschea, modesta raccolta intima. E ancora, le maestose moschea e madrasa Juma, abbastanza recenti, del 1818, in totale restauro (aiuto!), anch’esse ricche d’una buona architettura, d’un minareto piccolo e bombato ma gradevole alla vista, di colonne e soffitti di legno colorati e intagliati. Due solerti donnone musulmane mi fanno pagare il diritto di entrata e quello di scattare foto, pochi centesimi, ma mi rilasciano le ricevute in buona e dovuta forma… ancora di epoca societica! Esperienza divertente e forse simbolica dello stato attuale dell’intera vicenda uzbeca, di ritorno tra le braccia dello zar di Russia (ma con prudenza, e senza ricadere nell’abbraccio mortale di Putin e Medvedev). E, per finire, uno sguardo, solo uno, al bel palazzo dell’ultimo khan, Khudoyar, troppo vasto per essere da me visitato quest’oggi. Incute timore e tocca ripartire verso Tashkent.

lunedì 14 giugno 2010

Osh in fiamme


La capitale del sud del Kirghizistan sconvolta da sommosse interetniche che hanno fatto un centinaio di morti, mentre migliaia di uzbechi sono in fuga. Visita estate 2009.

Che cosa ci sia di interessante a Osh appare evidente sin dall’arrivo nella città, guardandola da lontano. Perché al centro di essa non c’è una piazza o un monumento, e nemmeno un qualsiasi palazzo presidenziale, ma una grande roccia. Anzi, una triplice roccia, il cosiddetto “Trono di Salomone”, la cui storia è conosciuta, ma che mi piace qui riportare per il lettore. La città in effetti è antichissima, risale addirittura al V secolo a.C., forse per la sua posizione nevralgica: i suoi abitanti dicono che «Osh è più antica di Roma». E si attribuisce niente meno che a re Salomone la sua fondazione: Salomone, cioè Suleyman. In realtà fu Zahiruddin Babur, re di Fergana e futuro fondatore della dinastia moghul in India, a farvi erigere una moschea, in quanto una tradizione islamica antichissima vuole che il Profeta stesso si fosse fermato una volta a pregare in questo luogo. Tra distruzioni e attentati (uno di essi quasi sicuramente era stato provocato ad arte dal Kgb per interrompere il continuo flusso di pellegrini musulmani), ora la devozione popolare può manifestarsi in piena libertà, al punto che una nuova grande moschea viene costruita proprio in questi mesi ai piedi del rilievo.

Ed è proprio dal Trono di Salomone che abbordo la città. Fa un caldo da morire, dicono si siano raggiunti i 42-43 gradi, e la temperatura non è delle più sopportabili per via dell’umidità che si fa sentire non poco nella Valle di Fergana. D’accordo, i primi cento metri di ascesa al trono avvengono in auto, ma al di là di un certo punto si è obbligati a proseguire a piedi. E a piedi vuol dire salire dei gradini. Già disperando d’arrivare al culmine del rilievo roccioso, un’inaspettata benedizione viene a salvare salute e pace interiore: la salita conduce infatti in una sorta di caverna da cui fuoriesce a fiotti una frescura invitante. È l’ingresso del cosiddetto Museo di Salomone, che in realtà non mi assicurerà un grande aumento delle conoscenze personali, rivelandosi una collezione abbastanza sconclusionata di reperti archeologici, di animali impagliati, di cimeli delle religioni tradizionali sciamaniche. Si sale nel ventre della roccia, nella penombra tipica dei musei sovietici dovuta alla scarsa illuminazione e alle decorazioni scure. Quest’oggi mi fa un gran piacere, non lo nego. Finché emergo in un’enorme apertura rotonda chiusa da una altrettanto imponente vetrata di dubbio gusto, che non si sa bene che cosa rappresenti.
Ma non è finita qui. Slalomando tra gruppi di visitatori che si vogliono far fotografare nel sito dei loro sogni – sia kirghisi che uzbeki sono coinvolti nell’operazione –, mi dirigo infatti alla successiva altura, la terza e ultima, quella a picco sul centro della città. Improvvisamente le pietre cominciano a diventare scivolose al punto da impedire una corretta deambulazione sul costone roccioso. Ne chiedo la ragione a una graziosa donna sulla trentina, denti d’oro e tunica pure d’oro, e blu. Si sta rialzando, dopo essersi trascinata un po’ goffamente sulla roccia. Parla un po’ di francese, suo fratello vive a Lione, è medico, sono uzbeki: «Proprio in questo posto, secondo la tradizione millenaria – mi spiega –, si recano le donne che non riescono ad avere figli per invocare Dio affinché conceda loro la grazia della maternità. E lo fanno portando doni e offerte, ma soprattutto strisciando con tutto il loro corpo su quelle pietre, quasi a voler trasformare in carne quel fisico di pietra che non vuole saperne di diventare fecondo. Anch’io sono sterile», ammette. Lo stesso rilievo montuoso del Trono di Salomone, visto da una certa distanza e da una certa prospettiva sembrerebbe la silhouette di una donna incinta.

Ma si sale ancora, fino allo sperone roccioso che permette una vista senza eguali sul mare grigio della città, grigio per l’eternit dei tetti, mentre appaiono all’orizzonte montagne di ogni altezza e dimensione. Due o tre minareti interrompono la monotonia della città, dal cui ventre sale un rumore che non so definire, un mix di gracchianti altoparlanti che sparano musica d’ogni tipo e il vociare continuo della città che mercanteggia da mane a sera. Ma non c’è tempo, la discesa mi attende, l’ennesima interminabile scala: calcolo come, salendo e scendendo dal Trono di Salomone, alla fine di gradini ne avrò calpestati un migliaio. Quelle scale che, per le foto di rito, percorrerà anche la sposa che ai piedi della scalinata indovino sotto un velo che le copre totalmente la figura e il viso, in attesa della cerimonia. Un velo trapuntato di lustrini, pacchiano come pochi, ma tant’è. Lì accanto, il promesso sposo attende il momento di mostrarsi, chiuso nella sua limousine senza fine che qui non si può non affittare per la cerimonia più importante della vita. Dove sia l’Islam non lo so, ma da qualche parte c’è.

Il resto di Osh è un imponente bazar, imponente nel senso della vastità. Vi si trova di tutto, i luoghi brulicano di gente, nella classica suddivisione degli spazi che segue un preciso codice merceologico che talvolta mi sfugge: perché, ad esempio, la frutta deve trovarsi accanto ai vestiti e non alla verdura? Ma tant’è, come sempre l’immersione in un mercato del genere è esperienza visiva, olfattiva, tattile, sonora e gustativa. Tutti e cinque i sensi sono messi a dura prova a Osh.

martedì 8 giugno 2010

Salamis, i capitelli e il mare


Torna papa Ratzinger da Cipro, terra di contrasti e di bellezze.
Visita al sito archeologico di Salamis, stupefacente bellezza.

I libri mi raccontavano che il sito era straordinario. Non solo per via delle pietre antiche, ma della natura stessa. La storia era di quelle potenti, che lasciano a bocca aperta: la fondazione da parte di taluni achei di ritorno da Troia; la supremazia sulla vicina Encomi-Alasia; nel VII secolo a.C., è la più potente città-Stato di Cipro; l’amicizia con Alessandro Magno; la conquista dei Tolomei d’Egitto; la dominazione romana; il cristianesimo dell’apostolo Barnaba, che qui morì; la rivolta ebraica del 116; l’esilio degli ebrei e la fase bizantina, come Con stantia; le scorrerie arabe e il declino, l’insabbiamento e il trionfo della vicina Famagosta…

Arrivo che il sole – meno male – è già calato di molto verso l’orizzonte: sono le cinque del pomeriggio, il caldo comincia a farsi sopportabile e la luce diventa ideale per le fotografie. Anche se il sito è vasto – quattro chilometri su due – mi sento come un leone curioso di pietre antiche. Le terme, il ginnasio ricco di colonne e capitelli ancora in ottimo stato di conservazione, poi l’odeon, lo stadio, il teatro, immenso… Un sito di alto valore archeologico, non c’è dubbio, soprattutto in questa concentrazione iniziale di altissimo valore storico, in una delle zone più “trafficate” dell’intera antichità mediterranea. Noto una certa trascuratezza negli ambienti visitati, ma soprattutto in quelli circostanti, infestati da ogni tipo di sterpaglia e di detriti. Ma non ci faccio caso più di tanto.

Avevo però letto che il luogo più suggestivo dell’intero sito di Salamis era la Basilica di Kambanopetra, immediatamente a ridosso della spiaggia. Mi avvio lungo quella che era la principale via colonnata della città. Venti, cinquanta metri, poi la vegetazione riprende possesso del luogo. Riesco ad avanzare a fatica, facendomi strada tra erbe e sterpaglie. Poi mi arrendo, e debbo trasferirmi su un sentiero parallelo. Un camminamento non indicato sulle piantine sbiadite del sito che qua e là dovrebbero favorire l’orientamento del visitatore, ma che in realtà tendono a confonderlo, perché i sentieri indicati spesso non esistono più, mentre quelli reali non sono segnalati. Senza poi considerare che tali piantine sono state sicuramente tracciate da un geometra un po’ brillo in mal di geometria!

Arrivo finalmente alla basilica, che s’annuncia da una certa distanza con alcuni bianchi capitelli marmorei che sfondano l’orizzonte blu del mare interrotto dagli sbuffi verdi e gialli della vegetazione. Il luogo è altamente suggestivo, non c’è che dire, crea immagini sempre nuove, prospettive avveniristiche, scontri e incontri cromatici di alta qualità estetica. M’immergo per una buona mezz’ora in un fascio di prospettive sempre nuove e sempre uguali, in cui le linee dell’orizzonte, della rena e dei muri millenari giocano a sovrapporsi e a nascondersi.
Lascio poi le prospettive bianche azzurre verdi, e abbasso lo sguardo. Comincia allora un alternarsi di incubi e di sogni, in cui il degrado impensabile s’alterna alla scoperta emozionante. Così m’accorgo che pavimentazioni geometriche marmoree si sfanno sotto i miei passi, al punto che le singole tessere si sparpagliano ora qua ora là, tra qualche anno mese giorno, chissà, cosa mai resterà? Incubo e scoperta si alternano avvicinandomi alla spiaggia. In mezzo agli arbusti, che in fondo lo proteggono, scopro un delizioso pavimento geometrico, una quantità di piccoli triangoli iscritti in un grande cerchio: rossi gialli neri bianchi. M’incanto nell’osservare il sapiente disegno e nel cercare di immaginare il locale che se ne fregiava. E poi m’indigno, per lo stato in cui viene lasciato questo sito così altamente simbolico. L’odio interetnico e talvolta interreligioso è capace di far dimenticare il buon senso, il valore della storia, il perdono che i secoli portano con sé. La profonda avversione che divide turco-ciprioti e greco-ciprioti arriva alla distruzione, o perlomeno all’abbandono, di vestigia tanto importanti dell’ingegno umano, dell’arte, della vera creatività.

Il ritorno al punto di partenza si rivela un ulteriore incubo, perché i sentieri sono mal tracciati, perché dalla terra emerge ogni sorta di pietra, marmo e coccio, a testimonianza di un sto che, se curato a dovere, potrebbe ancora svelare tesori non da poco. Quei tesori che qua e là, al bordo del sentiero, s’intuiscono sotto un gonfiore improvviso delle erbacce o nell’improvviso diradarsi della vegetazione. Si scorgono anche veri e propri tesori, come il Tempio di Zeus, dalle enormi colonne abbattute – una sola, monumento ai caduti, svetta sul mare di marmo ed erbacce che costituisce Salamis –, o la Basilica di Agios Epifanios. Parallele al sentiero, addirittura attaccate ad esso, scopro il percorso delle antiche mura, del VII secolo a.C., violate o addirittura violentate dal nastro d’asfalto sul quale ora cammino.

Eppure, nonostante tutto, malgrado l’incuria e il degrado, continuo a sentirmi in un luogo dove le good vibration si sprecano, dove la storia rimorchia il suo strascico di gioie e dolori, di cura e d’incuria, senza battere ciglio, in attesa che le sue vestigia vengano valorizzate nuovamente.