martedì 30 giugno 2009

Dove sono le notizie internazionali?




DI FREQUENTE I LETTORI DELLA RIVISTA CHE DIRIGO Città nuova – ci rivolgono complimenti non da poco per l’attenzione che mettiamo alle notizie internazionali, quelle che provengono da mondi a noi stranieri. E si lamentano, al contrario, del poco spazio o del poco tempo che solitamente i media nostrani dedicano ad esse. È vero, lo spazio dedicato agli “esteri” tende a ridursi, in particolare nella nostra Italietta mediatica, così diversa dal resto dell’Europa, così ingabbiata in monopoli ed oligopoli che fanno solo del male alla qualità dell’informazione.
Se conoscete le lingue, guardate di tanto in tanto i notiziari della
Bbc, o leggete Le Monde, date un’occhiata al sito di Reporters sans frontières. Non vi farà altro che del bene. Sprovincializziamoci, signori e signore!




LA RAGIONE DI QUESTO DISINTERESSE PER GLI ESTERI è dovuto, anche in questo caso, a problemi di cassa: dovendo stare attentissimi ai bilanci, è molto più economico spedire un inviato a Garlasco, a Cogne o a Perugia, piuttosto che nella zona dei Grandi Laghi, in Birmania o in Bolivia. E gli ascolti possono essere sostenuti molto più facilmente con un po’ di sangue o di sesso, preferibilmente mescolati, piuttosto che con un reportage pur fantastico sui minatori di silicio in Bolivia o uno sui monaci birmani che resistono al regime militare di Rangoon. Tuttavia le ultime emergenze spingono (o costringono) ad interessarsi un po’ di più agli Esteri: il terrorismo, le pandemie e la crisi economica, ad esempio.



MA L'ELEMENTO CHE PIU' DI OGNI ALTRO spinge verso una maggior attenzione a quanto accade in altri mondi è la rivoluzione digitale: gruppi editoriali internazionali si costituiscono ogni giorno, e la Rete “obbliga” all’integrazione. Il mondo sta cambiando, che lo si voglia o no. L’ho intuito ancor più in un recente meeting che ha riunito i gruppi editoriali della mia rivista nel mondo, che sono in tutto 37 in 22 lingue. Non poco. Ebbene, anche localmente si comincia a ragionare in termini globali, si cerca di capire se una notizia locale abbia un interesse globale, e il più delle volte ci si risponde affermativamente. Saranno questi piccoli gruppi editoriali sparsi nel mondo – penso a quelli analoghi sorti dal movimento musulmano turco di Fe-tullah Gulen, penso alla galassia mediatica buddhista del movimento buddhista giapponese Rissho Kosei-kai, penso anche agli amici di NetOne – a rendere ineluttabile l’interessarsi mediatico al diverso da sé.



(da "Com&Co", pubblicato su http://www.net-one.org/ il 22.05.2009)





venerdì 26 giugno 2009

L’arte dell’intervista



CONVERSAVO IERI CON UN GIOVANE PRATICANTE GIORNALISTA, un po’ sconfortato a dire il vero. Mi diceva: «Sento un sacco di volte che vengono smentite frasi scritte sui giornali o addirittura pronunciate in tv, che l’intervistato assicura di non aver mai detto, e che quindi sarebbero da imputare alla fantasia del giornalista. A volte è vero, certo; ma altre non è affatto vero, e ci sono delle registrazioni a confermare quanto l’intervistato ha detto al giornalista. Ma nessuno ci bada, le errata corrige non esistono più e conta chi grida più forte, non i fatti».
L’intervista è effettivamente un’arte, una delle più difficili del giornalismo. Richiede tempo, dedizione, esperienza. Più la domanda è infatti pertinente, più la risposta sarà interessante. Più la genericità sarà sbattuta sull’intervistato, più la risposta sarà banale. Più l’intervistatore andrà di fretta, più l’intervistato sbrigherà la faccenda con due parole in croce.

CHI PARLA PIU' DI "DEONTOLOGIA DELL'INTERVISTA"? Nessuno, o quasi. Eppure è una delle “branche” dell’etica specializzata del giornalismo più importanti. Il recente viaggio di Benedetto XVI in Africa ha dato la stura a sentimenti eticamente riprovevoli, con la ben nota estrapolazione di una sua dichiarazione sul preservativo pronunciata nell’aereo che volava verso il Camerun. Sì, forse il papa non s’è reso conto pienamente della possibile strumentalizzazione cui sarebbe incorso con quella sua affermazione, ma è assolutamente da condannare il fatto di aver isolato quella frase dal contesto, stravolgendone il senso: si voleva dire che l’uomo (e quindi l’uomo africano) non può pensare di realizzare sé stesso solo usando il preservativo, che tra l’altro in un contesto complesso come quello africano non può avere effetti sicuri: basti pensare alla pratica di usarlo più volte…
Ma torniamo a noi. L’intervista, per essere efficace, ha bisogno di tornare alla pratica d’una volta – ne sono convinto –, cioè alla rinuncia al telefono, al bisogno di concordare le modalità dell’intervista tra giornalista e interlocutore, al dovere che il giornalista ha di documentarsi adeguatamente non solo sul personaggio intervistato, ma anche sui problemi oggetto dell’intervista.

AGGIUNGEREI UNA RACCOMANDAZIONE E UNA PRATICA, entrambe assolutamente non obbligatorie, ma sperimentate da validissimi giornalisti in testa ai quali si nota il grande Ryszard Kapuściński.
Raccomandazione: non porsi di fronte alla persona intervistata come se si dovesse fare un dibattito, come se il giornalista possedesse la verità, come se l’unico scopo dell’intervista fosse per il cronista di far cadere nel tranello l’interlocutore!
Pratica: far leggere all’interlocutore il testo dell’intervista sbobinata, o fargli vedere o ascoltare i tagli effettuati. Se si usano questi due suggerimenti, novantanove volte su cento l’interlocutore sarà soddisfatto dell’intervista, e non ci saranno malumori. L’emergenza della verità verrebbe negata? Innanzitutto, cos’è la verità? E poi, siamo sicuri che, almeno per il giornalista cristiano, la verità non coincida con l’amore? Non si può dire che Ryszard Kapuściński non abbia fatto scoop, non abbia denunciato fatti terribili, non abbia pubblicato interviste drammatiche. Eppure ha usato sempre questa raccomandazione e questa pratica.


(da "Com&Co", pubblicato su http://www.net-one.org/ il 10.09.2009)

giovedì 25 giugno 2009

I blogger iraniani

I GIORNALISTI STRANIERI SONO STATI ESPULSI o invitati caldamente a lasciare il suolo iraniano in seguito alle proteste dei sostenitori del candidato alla presidenza Mussavi. Con un funesto strascico di morti, feriti e arresti. La polveriera iraniana fatica a ritrovare la calma e il presidente eletto (secondo la guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei), Mahmud Ahmadinejad, accusa Gran Bretagna e Stati Uniti, e più in generale i Paesi occidentali, di aver ispirato, finanziato e fomentato le rivolte.

INFORMAZIONE FINITA CON LE ESPULSIONI? Mai come in quest’occasione è apparso evidente come l’avvento della tecnologia digitale e di Internet abbia radicalmente rivoluzionato non solo il mondo della comunicazione interpersonale, nemmeno solo quello della comunicazione mediatica, ma anche quello della stessa informazione. I blogger, con le loro cronache, le loro foto e i loro video ripresi coi telefonini, che nella folla si alzano mille e mille volte, hanno trasmesso sul web – e continuano a farlo, nonostante intimidazioni ed oscuramenti – i sentimenti della piazza di Teheran e delle altre principali città iraniane.

È CERTO UN’INFORMAZIONE FRAMMENTATA, puntuale, che difetta di una visone globale degli avvenimenti, che pecca di esaustività: che ne sappiamo del sentire della maggioranza della popolazione che, comunque, sembra essere dalla parte di Ahmadinejad? Che ne sappiamo delle lotte di potere che periodicamente colpiscono le diverse anime del regime iraniano? Che ne sappiamo dei brogli e delle corruzioni che invadono tutto l’ambito politico iraniano, e non solo quello dell’attuale presidente, che anzi sembra meno corrotto di tanti altri pretendenti al potere? Tutto ciò è molto difficile saperlo e ancor più difficile analizzarlo, già con la presenza sul posto di uno stuolo di giornalisti professionisti: figuriamoci di fronte ad un mosaico frammentato e frammentario di blogger.

APPUNTO, SERVE PAZIENZA. Serve aspettare che la trama del mosaico, composto dai singoli tasselli, dai singoli blogger, lasci intravedere il disegno della realtà. Allora, forse, si capirà qualcosa.


(da "Com&Co", pubblicato su www.net-one.org il 23.06.2009)

venerdì 19 giugno 2009

Messa e reality

SONO STATO A ISCHIA, ad un’ora di aliscafo da Napoli. I primi caldi della stagione e l’aria ancora tersa hanno reso la visita piacevole e non poco interessante. Ero stato invitato a tenere una conferenza pubblica in una delle parrocchie più vivaci dell’isola, quella di Sant’Antuono (Sant’Antonio abate, ma non scrivetelo secondo la tradizione!). L’indomani sono stato invitato a prendere parte alla messa domenicale celebrata nella chiesa parrocchiale e ritrasmessa in diretta su Retequattro.

ACCOMODATO NELLE PRIME FILE, ho potuto osservare attentamente lo svolgersi delle operazioni. C’era il parroco, don Carlo Candido, che officiava con la consueta semplicità, e che nell’omelia ha presentato una versione riveduta e corretta della più classica invocazione allo Spirito Santo, adattata ai temi e ai linguaggi della gente normale. C’era il bel coro di giovani, giovanissimi e adulti che associava bellezze mediterranee nel fiore degli anni ad attempate matrone dallo sguardo furbo e mite. Non mancavano i chierichetti, tutti compiti nel loro servizio, doppiamente preoccupati (o piuttosto occupati) per il solito, consueto susseguirsi dei riti liturgici e per l’insolito incatenarsi di riti televisivi (sempre di riti si tratta). A fare da contraltare al sacerdote, c’era il responsabile del palco (della scena o dell’altare televisivi), che impartiva ordini ai musicisti e dettava i tempi della trasmissione al celebrante e ai chierichetti. E c’erano i fedeli, certamente consapevoli del fatto che un milione e passa di telespettatori li avrebbero osservati pregare.

EPPURE C’ERA QUALCOSA DI DIVERSO. Nei normali set televisivi, infatti, si rappresenta qualcosa, sempre più nella logica della fiction, qualcosa d’inventato o una rappresentazione fittizia d’un fatto realmente accaduto. Tutt’al più si discetta su tutto e sul contrario di tutto, sostanzialmente allontanando la realtà, sostituita dalla virtualità sempre più spinta. Nella parrocchia di Sant’Antuono, invece, quel che si vedeva era sì una rappresentazione (televisiva) di una rappresentazione (liturgica), ma i protagonisti non fingevano, perché quella messa era solo un punto di arrivo di una vita comunitaria reale. Era la conclusione di un percorso settimanale fatto di condivisione, di preghiera, di solidarietà, di gioie e dolori.

SÌ, CERTO, LE LUCI AVEVANO UN LORO IMPATTO sull’uditorio, e le telecamere a pochi centimetri dai fedeli inginocchiati influenzavano certamente la preghiera. Ma senza luci e telecamere quella messa avrebbe avuto luogo lo stesso, magari un po’ più lunga, magari con gli elementi del coro vestiti in modo più fantasioso, magari senza i politici locali azzimati… Ma la realtà della comunità non sarebbe minimamente cambiata. Quella messa era un vero reality, immensamente più reale rispetto ai grandi fratelli, alle fattorie, alle isole dei famosi, alle talpe…

Il tour de force


IN MARGINE AL VIAGGIO PAPALE in Terra Santa, che ho seguito per la rivista che dirigo, non ho potuto fare a meno di riflettere su un fatto che ha riguardato tanti colleghi al seguito del pontefice: coloro che erano costretti a seguire le varie tappe dell’intenso programma del viaggio con il seguito ufficiale sono rimasti intrappolati dalla logistica messa in atto, nei Marriott e negli Sheraton. Cioè controlli asfissianti, trasferimenti via bus a tappe forzate in mezzi scortatissimi dalle forze dell’ordine, confinamento in aree delimitate nei grandi appuntamenti pubblici… Il sottoscritto, avendo invece deciso di recarsi a Gerusalemme solo tre-quattro giorno prima degli eventi, non ha avuto la possibilità di accreditarsi presso le autorità locali, visto che il pass vaticano aveva valore quasi nullo in quelle regioni conflittuali.

HO FATTO COSÌ IL “PELLEGRINO”, mischiandomi alla folla dei fedeli, magari approfittando di qualche biglietto per i settori vip, dormendo nelle case della gente e camminando nelle vie della città vecchia senza codazzi vari… Ebbene, ho potuto assistere meglio e più compiutamente a certi avvenimenti, parlare con tanta gente interessante, intervistando persino altissimi personaggi della politica della cultura e della religione, mantenendo una invidiabile libertà di movimento, ben superiore a quella di tanti colleghi intrappolati nel seguito papale. Certo, se avessi dovuto scrivere per un quotidiano forse avrei avuto qualche difficoltà supplementare, anche se sul mio palmare avevo a disposizione tutti i documenti necessari. Anche se non ho partecipato a tutti i breefing di padre Lombardi, anche se…

MAI DIMENTICARSI che il giornalismo, anche se deve sottostare ai dettami della rapidità e della copertura degli avvenimenti, è anche preposto a cogliere il senso delle cose e degli avvenimenti. Mai dimenticare che molto spesso l’ufficialità è una maschera della realtà. Mai dimenticare che la creatività del giornalista ha bisogno di libertà d’azione.