lunedì 15 dicembre 2014

Qom, la città degli ayatollah

Viaggio in Iran/1 - La seconda città santa del Paese vive di fedeli più che di commerci

È la seconda città santa dell’Iran, dopo Mashhad. Oggi, però, quasi quasi Qom fa ombra a quest’ultima da quando proprio qui l’imam Khomeini predicava, prima di essere costretto all’esilio dall’ultimo shah di Persia, Reza Pahlevi. E qui, oggi, sono concentrate le più importanti scuole e università coraniche. Che il mausoleo che accoglie le spoglie di Fatemeh, per noi Fatima, riceva sempre più visite – sembra 40 milioni all’anno secondo la guida che ci è stata imposta dalla polizia – lo testimoniano le opere faraoniche di ingegneria che sono state messe a disposizione dei visitatori, o che lo saranno appena terminate: un megaparcheggio sotterraneo; una metropolitana aerea impressionante nel suo lungo viadotto; tre o quattro enormi moschee; una gigantesca opera di accoglienza, una sorta di ostello, che pare un aeroporto. Ma tutto ciò non conta nulla. 

Ciò che importa è il Hazrat-e Masumeh che ospita la tomba della sorella dell’imam Reza, che morì e fu sepolta in quest’edificio nel IX secolo: due cupole maestose, cortili e minareti a profusione, piastrellati incantevoli, il tutto costruito soprattutto sotto lo scià Abbas I e gli altri sovrani safavidi, anche se la grande cupola dorata fu edificata dallo scià qagiaro Fath Ali.
 

Mentre dunque la nostra guida Ali ci istruisce sui santi principali dell’Islam versione sciita, camminiamo lentamente verso il mausoleo vero e proprio, contraddistinto dalla grande cupola dorata che s’avvicina nella sua sobria ricchezza sin da lontano. Ecco la grande nicchia degli specchi e poi quella dorata, ecco i grandi cortili, quattro, con inusuali fontane e tanti servizi per i pellegrini e gli studenti; ci sono i numerosi minareti e le grandi porte di sapore persiano. Ma c’è soprattutto la gente, di tutte le età e di tutte le provenienze, su cui svettano i turbanti bianchi degli ayatollah e degli imam, avvolti nelle loro palandrane nere, bianche o beige. Assieme alle donne velate e avvolte di nero, creano un’infinita sequenza cangiante, quasi fiamme nere che svolazzano qua e là posandosi dove e quando vogliono su un concerto di note maiolicate colorate di cui si può capire il senso (e il sesso) solo dopo un lungo esercizio di assuefazione all’assenza di colore.
 

Accade così che, d’improvviso, i colori delle maioliche – gli azzurri e i verdi dominano – vengano dipinti sulle lunghe vesti che avvolgono le donne, e alcuni uomini. Anche le tante bandiere nere inalberate in occasione della festa dell’imam Hossein, il settimo imam, quellod ella kenosis islamica sciita, paiono colorarsi. Ma non è che un’illusione, o il sogno di tanti iraniani, quello cioè di avere una religione un po’ più gioiosa.
Curiosamente qualche sprazzo  di gioia la scorgo nella grande sala della preghiera dove sono riunite alcune centinaia di imam, ognuno con il suo turbante bianco e con i suoi curati mantelli bruni e grigi, elegantissimi; ascoltano la lezione di un ayatollah più importante degli altri, e intervengono e si esaltano e si infiammano, addirittura. Proprio lì accanto giace Fatemeh che riesce a trasmettere loro un po’ di grazia. Femminile, finalmente.

mercoledì 3 dicembre 2014

Astana. Dov’è la persona umana? Anche qui

Viaggio in Kazakistan/9 e ultima puntata - Nella capitale si fa sfoggio di architetture rilucenti, anche se non sempre comprensibili

Ci sono città costruite per il volere di una sola persona che, pur animata da ottime intenzioni, nei fatti considera tutti i suoi “simili” non tali ma “uguali” a sé. Quindi, facile sillogismo, quel che tale demiurgo ritiene vero e buono e bello per sé per forza di cose nella sua mente lo deve essere anche per gli altri, per i sudditi. È probabilmente questo il pensiero che ha mosso Nursultan Nazarbayev quando ha voluto trasferire la capitale del Kazakistan da Almaty ad Astana, fin’allora una modesta città di nome Akmola, uno dei tanti centri senz’anima della sconfinata steppa kazaka a cui era legato affettivamente, ma soprattutto più centrale nell’immenso Paese centrasiatico e più vicino alla Russia, cioè all’ex-Unione Sovietica di cui Nazarbayev era stato fedele servitore. Mutatosi in pochi istanti da comunista a post-comunista, il campionissimo del Kazakistan ha identificato il nuovo corso della Storia con la propria persona, peraltro non senza intelligenza e con la straordinaria fortuna di essersi ritrovato nel sottosuolo risorse di petrolio e di gas, ma non solo, che dire straordinarie è poco. La gente se non altro lo sopporta, anche se non lo supporta, per non dover cadere nelle spesso tragiche e paradossali avventure delle democrazie post-comuniste (anche se dubito che la popolazione lo ami sinceramente, salvo ovviamente i nostalgici del comunismo).
 

Astana, dunque: spazi enormi, come in tutte le città che vogliono esprimere ideologicamente un istinto di grandeur. Ma che non può mai realizzarsi senza una vera e propria grandeur culturale, che invece qui latita. Basta osservare le architetture, le insegne dei negozi, le balaustre che tocca rifare dopo un anno perché sono state tirate su troppo in fretta e senza un vero savoir faire, gli spazi occupati secondo logiche che stanno solo nella mente dei progettisti ma non in quelle degli utilizzatori. Difficile sentirsi a proprio agio in una città che non ha storia, se non di fiato corto, che non ha assunto su di sé e metabolizzato gli errori del passato, che non ha stratificato in una scala precisa di valori le bellezze sociali e culturali, scartando via via le inevitabili brutture. E potrei continuare.
Eppure il fattore umano – quello che tocca il cuore e l’anima – lo trovo anche ad Astana, non me lo sarei aspettato. All’agenzia di viaggio, al distributore di benzina, al parco giochi, al bar, alle toilette, al semaforo. Ovunque tale fattore umano, nonostante il contesto sfavorevole, trionfa, non si fa soffocare dalla grandeur pacchiana. E resterà, ne sono convinto, quando queste esagerazioni architettoniche saranno crollate. Resterà il sorriso del bimbo che mi offre un sasso, il clin d’oeil del poliziotto che mi fa usare le toilette del distributore di benzina, il barman che vorrebbe offrirmi una birra ma che non può perché il locale è ancora chiuso per gli avventori, il businessman che mi indica la via in un inglese anglo-kazako fantasmagorico. Evviva Astana, allora! Evviva gli astanini (ma si dice così?)!

lunedì 17 novembre 2014

Khoja Ahmed Yasawi: i raggi della sera creano l’opera d’arte

Viaggio in Kazakistan/8 - L'opera d'arte timuride più importante del Paese è un mausoleo perso nel deserto.

Sette di sera. Il sole sta piegando la sua forza cercando di nascondersi dietro il disordinato e trascurato abitato di Turkestan. Sono appena ritornato al Mausoleo di Khoja Ahmed Yasawi dopo la sfiancante visita in pieno giorno e un momento di pausa abbandonato in una stanza pulita ma estremamente essenziale dal letto sfondato. Sono tornato qui perché questo luogo mi attira, come già da tempo mi attirava anche solo gettando un’occhiata alle sue foto nelle guide turistiche. Ho già visitato Samarcanda, Buchara, Konjeurgench e Isfahan, dove si ergono forse i migliori capolavori dell’arte religiosa  centrasiatica, ma qui qualcosa si aggiunge. La vox populi parla chiaro: tre pellegrinaggi a questo mausoleo valgono un pellegrinaggio alla Mecca. Fu costruito su ordine di Tamerlano tra il 1389 e il 1405 in onore del profeta Khoja Ahmed Yasawi che, nato nel 1094 a Sayram, era poeta e mistico, fondatore dell’ordine sufi Tariqah. Terminò la sua vita nel 1166 in un eremitaggio su una collina non lontana dal luogo del mausoleo. Si dice che qui passò Tamerlano stesso il quale, dopo una preghiera e vedendo il pietoso stato della gente e della cittadina, ordinò che vi fosse costruito un enorme mausoleo per riscattare la città che aveva ospitato un tale personaggio. Naturalmente si servì dell’arte di artisti e artigiani iraniani all’epoca celebri, come Haddzhi Hassan e di Shems Abdul Wahhab che venivano da Shiraz. La composizione archiettonica del mausoleo è strana, decorato totalmente nella porta nordoccidentale, mentre la grandiosa porta sudorientale è in mattoni apparenti: fu l’ultima a venire costruita e forse i soldi erano finiti, e Tamerlano ormai era morto e sepolto...
Stasera tira un forte vento, caldo e secco, il mausoleo vive della sua pelle screpolata che crea disegni coi mattoni e tra i mattoni, che esalta le decorazioni timuridi azzurre e blu sul beige dei mattoni, che trasforma le imperfezioni in bellezza, come in una donna che nel fior della maturità viene resa perfetta dalle prime rughe che appaiono sul suo corpo. La luce radente della sera esalta la sapienza del tempo che passa rendendo d’oro la pelle che non è preziosa. Le due cupole, una azzurra uniforme, l’altra a scanalature sempre azzurre ma con decorazioni floreali verdi e blu, giocano tra di loro e con le pareti tracciate di armonie. C’è serenità e bellezza, merci rare in Kazakistan.
Come sempre accade, quasi sempre, nei monumenti musulmani l’interno non è la portata migliore del menù. Anche qui, più che nelle decorazioni la bellezza va cercata nel gioco delle forme e delle luci, nelle aperture che lasciano filtrare quel po’ di luminescenza atta a cercare prospettive sempre uguali e sempre nuove, a suscitare l’intersecarsi di linee che muoiono al proprio apogeo per rinascere poi nel luogo dell’altrui morte. Reciprocamente legate. L’esterno, al contrario, è stupefacente nella sua levità e nell’inconsueta leggerezza pur nelle dimensioni maestose della costruzione che per alcuni versi richiama il travagliato esempio della moschea di Bibi Kanoum a Samarcanda, che non fu mai terminata perché in parte crollò durante la costruzione. Le due cupole creano sempre nuove armonie e nuove sorprese, al punto che il fotografo che dovrei essere s’arrende: solo il filmato può rendere giustizia a un tale capolavore mutante a seconda della luce che lo avvolge.
Un pavone rallegra i visitatori all’ingresso del mausoleo orientato a Sud-Est, visitatori che peraltro debbono stare attenti alle deiezioni delle centinaia di piccioni e altri volatili che da sempre occupano la mai terminata facciata dalla quale, nella parte superiore, spuntano assi irregolari di legno che avrebbero dovuto sorreggere altre decorazioni e maiolicati, ulteriori strutture architettoniche. Quel pavone, segno di bellezza ed eternità (potente connubio!) rende i visitatori – al 99,9 per cento indigeni – perché, sia detto per inciso, chi mai si sfianca per venire in questo deserto ad ammirare un solo monumento, visto che il resto conta poco o nulla? –, consci che qui si tocca qualcosa della grazia. Quella universale, quella che non può limitarsi a baciare una sola religione, la grazia di Dio, il potente e misericordioso, il buono e il bello, il giusto e il grazioso. L’amore.
Ma non è finita qui. Il mausoleo mi trattiene ancora un paio d’ore, fino all’ultimo raggio di sole che brucia la pietra, le maioliche, i mattoni, fino alla consunzione della grazia che s’evapora in mille gocce di colore. Un cammello, un secondo, dove sono, chi sono, dove vado? Il mondo pare sospeso stasera. Chissà  quali misteriosi movimenti avvengono in un’anima per costringerla a girare attorno a un mausoleo timuride per ore e ore, fino alla benedizione dell’ultimo raggio di sole! Certamente qualcosa che ha a che fare con la grazia.

mercoledì 5 novembre 2014

Alla stazione di Shymkent

Viaggio in Kazakistan/7 - Un centro commerciale e industriale nel deserto dell'Ovest del Paese, ovvero capire i locali aspettando un treno...

Di questa città nel Sud del Kazakistan non avrei molto da dire, perché in realtà ci trascorro appena qualche ora, tra l’arrivo dell’aereo che mi ha portato qui da Almaty e la partenza del treno che mi condurrà a Turkestan. Un tassì mi ha deposto in qualche modo , è il caso di dirlo, alla stazione ferroviaria, dove ora mi trovo a trascorrere un paio d’ore di attesa. L’abitato che scorreva fuori dal finestrino mi è parso quello consueto delle repubbliche ex-sovietiche, con un evidente disordine urbanistico, una dose considerevole di trascuratezza e un’inveterata allergia alla bellezza dell’abitato, e non solo di quello.
Passano pochissimi treni, ma la gente è tanta e così le bottegucce che vendono prodotti alimentari: vivono di quel che riescono a smerciare durante la sosta dei lunghi convogli sferraglianti, sufficientemente ampie (almeno dieci minuti) perché la gente scenda dal proprio vagone e si procuri il cibo necessario per il prosieguo del viaggio.
Fa caldo, non c’è un solo caffè che fornisca un minimo di conforto, non dico l’aria condizionata... Ma tant’è, una sedia di plastica azzurra la trovo sotto un portico e così una bibita fresca e uno di quei deliziosi fagottini alla carne e alle cipolle che da queste parti sanno cuocere proprio bene. Sull’unico binario passeggeri la signora biondo platino con incongrui tacchi a spillo che aspetta il treno con atteggiamento di sopportazione e la babuska che sgrana le sue preghiere con una faccia durissima, di terra; c’è il ferroviere che suda come una fontana ma che si ostina a rimanere al sole in attesa del convoglio seguente, annunciato tra 48 minuti; c’è la muta di marmocchi che, sotto la guida della più grandicella, improvvisa una scuola di danza contemporanea; c’è il ristoratore di origini uzbeche che inalbera con fierezza la sua barba da imam integralista mentre le sue donne tirano la pasta; c’è la poveretta che elemosina una briciola di pane, nemmeno un soldino...
Al mio tavolino sbilenco s’accomoda sua sponte un uomo che ovviamente non parla una parola d’inglese ma che vuol comunque attaccar bottone col sottoscritto, attirato dalle pagine che sto vergando con la mia calligrafia regolare così diversa dal loro alfabeto e da quello russo. Riesco a capire che lavora come scaricabagagli alla stazione, che ha sette figli tra cui due ragazze, che ha una casetta in periferia, che il venerdì va sempre alla moschea, che a casa sua tutti hanno il telefonino anche se di modelli antiquati, che il figlio più grande vuole diventare medico, che Nazarbayev è poco meno di un dio, che Shymkent è grande perché ci arrivano gli aerei, che Nibali è il migliore ciclista al mondo, che Dio è grande e misericordioso e che dobbiamo temerlo, che viaggiare fino a Roma è il suo sogno nasconto e irrealizzabile perché non ha il passaporto, chissà perché, che gli spiedini sono il suo piatto preferito e che ogni domenica con la famiglia vanno al fiume per grigliarli... Tutto ciò sarà poco più del 5 per cento di quello che dice il mio interlocutore, Nusultan si chiama, comunque sufficiente per aprire uno spaccato sulla vita della gente di Shymkent.

lunedì 27 ottobre 2014

Bayauly, un caravanserraglio nel deserto

Viaggio in Kazakistan/6 - Nel deserto una stazione di posta in riva al fiume. Un incanto, un rifugio, una speranza

La mia meta odierna è il Tamgay Tas, una breve escrezione rocciosa sulle rive del fiume Ili, che sfocia poi nel grande lago artificiale di Kapshagay, la città dei casinò. Un fiume che pare un miracolo perché scorre nel deserto dello Zethisu kazako, blu intenso nel giallo paglierino della steppa che talvolta di fa deserto. Visitando le rocce del Tagsay Tas, ammirando i petroglifi incisi nella pietra, m’accorgo che a cinque o sei chilometri di distanza nella valle, dall’altra parte del fiume si erge – o, meglio, si distende – una sorta di forte nel deserto. 

Un caravanserraglio. Qui in effetti passava una delle tante deviazioni della Via della seta: un fiume del genere poteva all’epoca (ma anche ora!) sembrare una benedizione. Ha dimensioni notevoli, a occhio ritengo che di lato misuri anche più d’un centinaio di metri, con le sue torri e i caratteristici camminatoio in cima alle mura perimetrali merlate. Il fascino d’un castello nel deserto!
 

Ma come arrivarci? Il mio autista, che parla solo ed esclusivamente il russo, mi avvicina per quanto possibile al caravanserraglio, ma sempre al di qua del fiume. Più m’avvicino, più m’appare misterioso e salvifico: dopo interminabili camminate o cavalcate, giungere in uno di questi luoghi doveva suscitare qualcosa di veramente simile al sentimento della salvezza, non solo perché protetto ma anche perché prossimo a un corso d’acqua. Quasi un miraggio. Come lo è per me che mi ritrovo nell’impossibilità materiale di raggiungere il forte per esplorarlo: impossibile attraversare il fiume, non c’è nessuna imbarcazione in vista. E in auto bisognerebbe percorrere un periplo di settanta chilometri almeno, cinquanta dei quali non asfaltati, cioè piste nel deserto.
 

Per cui m’è struggente e in fondo piacevole accoccolarmi su una roccia in riva all’Ili ombreggiata dai canneti, in attesa che i miei accompagnatori – l’autista Barash e la moglie Allina – cucinino dei succulenti shashlik, spiedini alla brace, il piatto nazionale di tutte le nazioni centroasiatiche.

lunedì 20 ottobre 2014

Shimbulak Il sogno kazako delle Olimpiadi invernali

Viaggio in Kazakistan/5 - Sulle montagne del Tien Shan una stazione sciistica di grande prestigio

Raccontano che anche il presidente Nazarbayev tre o quattro volte all’anno venga da queste parti per cimentarsi nell’arte dello sci alpino, ma soprattutto per vedere a che punto è l’avanzamento dei lavori della maggiore stazione sciistica dell’immenso Kazakistan. Sì, perché non è certo un segreto quello che vede il Paese centrasiatico avere obiettivi alti, tra cui quello di portare Almaty, Medeu e Shimbulak congiuntamente a ottenere l’organizzazione di un’edizione dei Giochi olimpici invernali prima del 2050, orizzonte che il presidente dal pungo di ferro ha voluto dare ai suoi concittadini (il precedente, peraltro largamente disatteso nei suoi obiettivi, era il 2015).
Shymbulak in realtà è il quarto gradino della scala, gigantesca scala, che porta dalla steppa ai ghiacciai del Tien Shan, una delle più straordinarie catene montuose conosciute al mondo. Il primo è Almaty-1, la città vecchia, povera e piatta, che va da 100 a 500 metri; il secondo è Almaty-2, che cresce e s’arricchisce, che va dall’altezza di circa 500 metri del Parco Panfilov ai 1500 dei sobborghi residenziali più meridionali; il terzo è Medeu, l’originaria stazione invernale, tempio del pattinaggio su ghiaccio, che va dai 1500 ai 2000 metri; il quarto è, appunto, Shimbulak, che dai 2000 sale fino ai 2700 metri della sua terrazza panoramica. Gli altri gradini protesi verso le cime più alte dello Tien Shan sono di roccia e di ghiaccio.
Con gli amici mi accomodo sulla vasta terrazza di legno su cui sono distribuiti centinaia di tavolini gestiti da bar e ristoranti dai nomi italiani. La vista è d’alta montagna, con le consuete brutture delle stazioni sciistiche: skylift, cabinovie, pilastri d’acciaio, raschiature del manto erboso, percorsi e strade e mezzi meccanici. L’aria è fresca. Chi è venuto quassù non è sempre danaroso e non può permettersi un tavolino al bar, dieci euro. Così sbocconcella il suo panino portato da casa osservando le montagne o il falco che un kazako dai tratti mongoli, viene in effetti dall’Altai, “affitta” per cinque euro perché la gente possa farsi fotografare con un bestione da quindici chili appollaiato sul proprio avanbraccio, protetto comunque da un enorme e spesso guanto di cuoio.
Lascio per qualche momento la civiltà per cercare l’immersione nella natura. Bastano cinque minuti per superare un crinale e ritrovarmi nella più silenziosa e selvaggia natura del Tien Shan. E allora mi riconcilio persino con i vetero-comunisti al potere ad Astana: possono fare grandi danni alle persone e alle cose, ma alla fine l’immensa natura kazaka prende sempre e comunque il sopravvento. Almeno lo spero, per queste meravigliose montagne.

mercoledì 15 ottobre 2014

Lago di Yesik, dell’azzurro che è verde e che è grigio

Viaggio in Kazakistan/4 - Uno specchio d'acqua di carattere alpino, le brutture del collettivismo, la semplicità della gente locale

Non è certo allettante l’avvicinamento a uno dei laghi alpini più pittoresco e suggestivi del Kazakistan, il lago di Yesik, che prende il nome dell’omonima cittadina che giace nella valle, anzi all’inizio dell’infinita piana di queste parti, che qualche decina di chilometri più a Nord diventa steppa. Il fatto è che, salendo nella valle, ci si trova accompagnati da enormi tubature azzurre stese a fianco della strada, solo per risparmiare sul loro interramento. Appaiono qua e là pertugi e fessure che lasciano fuggire torrenti d’acqua. Cipressi e pini e noccioli e betulle e qualche quercia. Finché la strada si fa ripida. C’è pochissima gente in giro. Strisce di abeti scendono a scala dai pendii erbosi come slavine di color verde scuro sul verde chiaro dei prati. E si debbono sopportare le consuete brutture vetero-comuniste: una torre antincendio, casamatte abbandonate, cottage di cui rimangono solo tetti sfondato e pilastri marciti.
Finché il miracolo appare, non appena scavalcato l’ennesimo passo: un lago alpino color verde pallido tendente al grigio, lattiginoso. L’aria è fresca, le montagne boscose, in lontananza si ammirano i ghiacciai del Tien Shan. Creste di pini, ciuffi di abeti, conifere isolate, betulle flessuose e argentee. Delle rocce penetrano nel lago, invitano alla meditazione seduti sulla loro sommità. C’è pure la consueta sporcizia, purtroppo. Un gruppo di kazaki, una grande famiglia di Yesik, fa picnic sotto gli alberi: una ventina di persone salite quassù con un pulmino che avrà cinquant’anni. Mi invitano a prendere il chai con loro. Gioia e curiosità reciproche. Le donne più mature hanno i denti d’oro e appaiono più estroverse delle giovani. Gli uomini giocano a una sorta di backgammon. I bimbi corrono e si divertono. Come al solito non c’è nessun straniero nei paraggi.
Cammino verso Occidente dove emergono grosse infrastrutture di cemento atte a canalizzare le acque a fini alimentari, agricoli e idroelettrici. Orrori. Ma perché? Tre tecnici controllano la tenuta delle installazioni che appaiono consumate dal tempo. È proprio triste che le bellezze naturalistiche del Kazakistan siano gravemente danneggiate dalle scellerate infrastrutture di marca comunista e dalla trascuratezza dei comportamenti umani, come testimoniano le brutture sparse ovunque. È emendabile tutto ciò? Là buona volontà c’è, come testimonia una scaletta in pietra e cemento che risale dal lago fino al parcheggio, equipaggiata di grossi secchi di alluminio per raccogliere l’immondizia. Ma i contenitori restano vuoti o quasi, mentre tutt’attorno si estende il cimitero della maleducazione.
Forse non caso il lago era noto fino al 1963 come “la perla del Tien Shan” per le sue acque colorate di un azzurro unico nel suo genere. In quell’anno una terribile valanga-frana scese a valle provocando morte e distruzione. Il suo nome divenne perciò semplicemente “Lago di Yesik”.

venerdì 10 ottobre 2014

Kok Tobe, la collina blu

Viaggio in Kazakistan/3 - Sopra Almaty, un luogo dove la popolazione ama salire per divertirsi e sentirsi orgogliosa di appartenere a un Paese in crescita

Si raggiunge il crinale della collina, assai allungata e affilata come la morena di un ghiacciaio che accompagna la discesa della città dalla montagna alla pianura, grazie a una funivia degli anni Sessanta che dall’epoca non è mai stata rinnovata, nemmeno nelle sue cabine di legno e di metallo, con le porte che non chiudono bene, controllate comunque da un addetto stazza 150 chili che appena mette piede nell’abitacolo fa tremare sinistramente ogni cosa. I pilastri di scambio sono pitturati di fresco, ma non si sa bene quali siano le loro reali condizioni. La salita costa l’equivalente di due euro, ma molti kazaki non possono permettersi nemmeno tale modesta spesa, preferendo la salita a piedi o colla navetta, che costa 40 centesimi. Nell’ascesa mi diverto ad ammirare il paesaggio, la maestosa vista sulla città di Almaty, quella vecchia e quella nuova, ma soprattutto a cogliere negli occhi della gente la sorpresa, la gioia e la meraviglia di un mondo che s’eleva per incanto. Sguardi di gente semplice, della steppa, facce mongole senza le consuetudini vestimentarie dei musulmani.
La collina è dominata da un’altissima torre di comunicazioni in puro stile sovietico, inaccessibile a differenza di altre, come a Tashkent o a Kiev. Quel che c’è d’interessante quassù, oltre alla vista che sempre incanta verso la città e le montagne innevate, è una sorta di vasto luna park kitsch quanto si vuole ma amato alla follia da grandi e piccini: giostre, lancio delle freccette, tiro a segno, enormi castelli gonfiabili da scalare, montagne russe in tono minore... Ma anche un mini zoo con una dozzina di gabbie che ospitano malconci animali, dai lama agli stambecchi, dai cervi ai pavoni, dagli agnelli a strane galline arlecchine. E poi bar e ristoranti dalla dubbioso qualità. Una famiglia che viene dalla steppa nel cuore del Paese vuole farsi fotografare con me, che con tutta probabilità sono il solo straniero sulla collina. Mi dice: «Mi chiamo Gengis, vengo dalla steppa, ho 250 cavalli, 400 mucche e 8 figli». Mi sento povero e imbarazzato: «Mi chiamo Michele, do lavoro a 16 persone, dirigo quattro riviste e alcuni siti web, ho pubblicato quaranta libri». Riprende Gengis un po’ interdetto: «Tua moglie non ti ha dato figli?». «Non sono sposato». «E che cosa lasci di te dopo di te?». «Qualche pensiero e un po’ d’amore». Meglio cambiar discorso: «Da dove vieni?», mi fa. «Dall’Italia». «Nibali!». Sorpreso dall’inatteso riferimento ciclistico mi sovvengo che il corridore italiano, fresco vincitore del Tour de France, è capitano della squadra kazaka chiamata Astana, “la capitale”. E poi aggiunge: «Milan, Juve, Inter, Roma...». Orgoglioso. Gli faccio: «E i papi e gli imperatori romani?». E lui: «Ah sì, quel Francesco che difende gli immigrati... Ma quali imperatori?». «Gli imperatori romani...». «Ma di imperi ci sono solo quelli di Gengis Khan e di Tamerlano!». Così è se vi pare. E mi fa offrire da uno dei suoi otto figli, un frugoletto dalla faccia perfettamente rotonda e schiacciata, una caramelle color verde pisello, un pasticcio glutinoso troppo dolce: «Modernità», mi dice soddisfatto. Chissà che cosa significa per lui una tale parola.
La discesa a piedi è un ringraziamento per la semplicità di questi popoli centrasiatici, che spero non venga spazzata via dal consumismo globale. Ma il timore di sbagliarmi è grande.

giovedì 25 settembre 2014

Alma Arasan, le Alpi sul Tien Shan

Viaggio in Kazakistan/2 - Nelle montagne a sud di Almaty, una valle che par d'essere nelle Dolomiti...

Almaty è una città particolare perché vive della corona di montagne che l’abbracciano a Sud. Oggi la mia amica modista, assieme al suo compagno, vuole portarmi per un picnic in una delle valli più belle della regione, che sin dal nome promette momenti elevati: Alma Arasan. Pochi tornanti, qui le strade tirano dritto qualsiasi sia la pendenza, poco importa. Che non sono mai eccessive, fino all’inizio delle valli che penetrano in quella massiccia e nevosa catena che è il Tien Shan. A un tiro di schioppo c’è Biskek, la capitale del Kirghizistan. 

La strada finisce con un’ampia curva che prosegue verso il Big Almaty Lake, purtroppo chiusa per i ripetuti incendi che colpiscono la regione: in cielo passano di continuo gli elicotteri antincendio. Un villaggetto di yurte – bar, ristoranti, botteghe d’artigianato – segna l’inizio della valle, un torrente ricco d’acqua e un paesaggio alpino. Sì, pare proprio di trovarsi in piene Alpi, la vegetazione è simile anche se da queste parti si frammettono al paesaggio botanico a noi noto una gran quantità di betulle che conferiscono all’insieme un che di russo o siberiano che non stona per nulla. Anzi, altrimenti mi chiederei perché io sia venuto fin qui! I miei amici imbandiscono un picnic gustoso e ricco di spezie locali su un’isoletta al centro del torrente dalle acque chiare che attraversiamo a piedi nudi, assaporando un’acqua fresca e trasparente. La convivialità semplice e concreta di queste parti lascia lo spazio a una dolce pennichella cullata dalle note monotone ma musicali del torrente.
 

Dopo pranzo, per sgranchirmi le gambe, m’avvio lungo un sentiero che costeggia il torrente, seguendone mimeticamente il percorso: non ci sarebbe spazio per altre ipotesi di itinerario, visto che il corso d’acqua ha scavato il suo letto tra pareti quasi a strapiombo. Arrivo a un ponticello metallico arrugginito e mal in arnese, fatto di due tubi di ferro arrugginito e da traversine che non sono altro che tondino da cemento armato sommariamente reciso. Avanzo e ben presto fa la sua apparizione una scaletta di metallo e legno che permette di superare un gran blocco di roccia piovuto da chissà quale cima. Nulla di più precario: ruggine, tremolii, scalini mancanti, scorrimano sganciato dalla base, improvvisi cedimenti dei materiali... Ma si supera l’ostacolo per giungere alla seguente scaletta, al successivo ponticello che paiono una sfida all’equilibrio della forza di gravità, al buon senso e alla sicurezza. E così via, fino a che la valle, o per meglio dire il canyon, viene attraversato a una decina di metri d’altezza da una condotta forzata d’un metro abbondante di diametro, completamente arrugginita.
 

Ma il sentiero a questo punto abbandona il corso del torrente per issarsi sul pendio orientale, sempre nella più assoluta precarietà, per giungere, superato un centinaio di metri di dislivello, a una strana costruzione in rovina, una sorta di gazebo in muratura, un’edicola, un portichetto che ancora conserva le tracce di patine di pittura argentea o dorata, chissà com’era pacchiano quand’era curato e frequentato. Ma la vista da quassù è straordinaria, verso il verde passo che porta a un altro passo e così via fino al Kirghizistan. Le montagne innevate a Levante e a Ponente fanno il resto. La discesa? Lasciamo perdere. La consueta meditazione centrasiatica sul tracollo delle ideologie collettiviste e l’eredità di incuria e pressapochismo che le popolazioni locali non riescono a debellare.

mercoledì 27 agosto 2014

Almaty, la città alberata

Viaggio in Kazakistan/1 - La vecchia capitale del Paese ha ancora il piglio e la vitalità necessari per rimanere il centro culturale ed economico dello Stato centrasiatico.

Poche città al mondo mi hanno dato l’impressione di essere verdi come Almaty, che è rimasta capitale del Kazakistan fino a quando il presidente-padrone Nursultan Nazarbayev, nel 1997, non ha ceduto alla follia della grandeur, trasferendo il governo e il Parlamento, peraltro insignificante e inoffensivo, in piena steppa, nella nuova città di Astana, pensando di farne una New Delhi, una Brasilia kazaka, la propria Washington. Oddio, nemmeno Almaty aveva e ha una lunga storia: si ricorda il suo nome Alma Ata (montagne delle mele, significa), ancor prima della distruzione a opera del solito Tamerlano, della fondazione poi nel XIX secolo da parte dei russi del forte chiamato Verniy, per difendersi nella regione dei sette fiumi, come veniva chiamato anticamente il Zhetisu. Poi, durante e dopo la Rivoluzione d’ottobre crebbe a dismisura, raggiungendo le 222 mila anime. Un milione nel 1982.
Almaty non avrebbe granché di cui fregiarsi – restano appena una dozzina di abitazioni del XIX secolo, le sole sopravvissute al terremoto del ... –, anche perché l’epoca sovietica qui ha fatto non pochi danni architettonici. Non restaurati e non restaurabili, enormi parallelepipedi, spropositati casermoni giacciono lungo le avenue di Almaty fortunatamente preclusi in parte alla vista dagli alberi che accompagnano quasi tutte le strade della città. Ecco, gli alberi. Sono ovunque, alti e slanciati, possenti e maestosi: creano la città quasi più degli edifici. Sì, la loro concentrazione è accentuata nei tanti parchi della rete urbana, anche molto estesi – ... –, ma di alberi se ne vedono in ogni via e in ogni giardino, privato o pubblico che sia.
La città è stata concepita in modo da permettere una sana circolazione dell’aria e una buona esposizione: l’abitato scende dai contrafforti del Tien Shan e dalle sue cime innevate con lunghe allée longitudinali che permettono la canalizzazione delle fresche correnti d’aria, rendendo perciò vivibili anche le estati infiammate dai venti del deserto. In aggiunta a ciò, la cultura urbanistica di Almaty ha posto grande attenzione alle fontane, che impazzano coi loro getti rinfrescando al passaggio coloro che cercano un qualche refrigerio.
Un luogo simbolico della città è Piazza della Repubblica e il Monumento all’Indipendenza che svetta al centro della vastissima area. Palazzoni dozzinali, ancora di epoca sovietica, inalberano i proclami del dittatore per lanciare il Paese nella sfida del 2050, quando  il Kazakistan dovrebbe raggiungere il livello di vita degli europei.
Su tutto ciò impone la propria presenza l’imponente catena dello Tien Shan, un orizzonte mai raggiungibile, o quasi, e una presenza sicura. Nessuno potrebbe immaginare Almaty senza le sue montagne. Nemmeno i tanto odiati russi.

martedì 22 luglio 2014

Aeroporto di Paro, pare che sia il secondo più pericoloso al mondo


Viaggio in Nepal e Bhutan/12 e ultimo - Lascio una terra fantastica, difficile, colorata. Ne valeva la pena

In Bhutan non esiste altra valle che possa ospitare degli aerei della taglia di un A320, non di un Boeing 777. Non esiste altro spazio pianeggiante, o spianabile, di due chilometri di lunghezza. È nella valle di Paro, ad una settantina di chilometri da Thimphu, la capitale del piccolo regno himalayano. Ma c’è un ma. La valle è estremamente ventosa e i due chilometri che ospitano la pista muoiono in due montagne che obbligano il pilota a una doppia virata che, se in partenza è ancora difficile ma fattibile, in atterraggio richiedere perizia e maestria: non è ammesso errore. Senza poi parlare dell’altra decina di virate necessarie per raggiungere quota e velocità adatte al landing. In compenso, sull’aerodromo infonde la sua sicurezza il grande e bellissimo Rimpung Pung Dzong, il centro amministrativo e religioso della regione più occidentale del Paese.
Stamattina levataccia per essere alle 6 all’aeroporto, due ore prima del volo per Kathmandu. Fa freddo e le nuvole sono basse. Formalità rapidissime, accompagnate dagli inevitabili sorrisi di tutti, dico tutti, gli addetti ai voli e alle frontiere. Poi, verso le 7 e mezzo, m’accorgo che in effetti nessun volo sta partendo, né alcun aereo atterra. Chiedo informazioni, effettivamente la nebbia copre la visuale della delicata partenza, per cui è vietato ogni volo prima che il cielo non si liberi delle nuvole. E non è per niente sicuro che ciò accada rapidamente. C’è solo da attendere con pazienza. Tanto più che le gentilissime addette offrono ai passeggeri in attesa tè, caffè e pastorelle. Non ci sono linee invalicabili, sembra di essere nel proprio ufficio, ci si muove con libertà, si possono lasciare i propri bagagli incustoditi senza timore alcuno. Par di essere in un altro mondo. Anzi, siamo in un altro mondo.

martedì 15 luglio 2014

Drukgyel Dzong, dove è cominciata la storia del Bhutan



Viaggio in Nepal e Bhutan/11 - Un'altra fortificazione militare e votiva nel Paese più felice del mondo. Questa volta in rovina. Scavando nei secoli

Nel 1644 i bhutanesi riuscirono a liberarsi dagli invasori tibetani, finalmente! L’unità del Paese era possibile. Per commemorare l’evento, il Zhabdrung Ngawang Nangyal, cioè il lama leader spirituale e politico più influente, decise di far costruire, proprio sulla via del Tibet dalla cui occupazione ci si liberava, uno dzong, tempio e fortificazione assieme, che testimoniasse la vittoria (gyel) del Bhutan (Druk). Scelse la via che porta al Tremo La, il passo che dà sul Tibet, e poi al massiccio Jumolhari. Ma la costruzione non aveva solo finalità commemorative: qui in effetti si riuscì a rintuzzare l’attacco che gli indemoniati tibetani sferrarono contro i bhutanesi sperando di ottenere una decisiva penetrazione nel terreno perso. Lo stratagemma di costruire una falsa entrata allo dzong, che s’apriva su un vasto cortile chiuso, permise di intrappolare gran parte degli assalitori, tra cui il loro capo, e di decimarli, mettendo gli assalitori sopravvissuti in fuga.
Più forte dei tibetani, però, è stato il fuoco, che nel 1951 ha distrutto lo dzong. Finora non sono stati trovati i fondi necessari per restaurarlo e così la fortificazione giace come una memoria della caducità degli uomini e del loro presunto potere. Attorno allo dzong è cresciuto un modestissimo abitato, per giunta assai disordinato, che vive del trekking: qui la strada più o meno carrozzabile finisce, poi fino al confine col Tibet, e molto più in là, c’è solo montagna. Un bel sentiero lastricato conduce a quel che resta dello dzong, le cui mura, abbarbicate sulla roccia viva a picco sul cammino, fanno forse più impressione nello stato attuale che se fossero nello stato originario. Pare che una enorme massa nera incomba sulla valle. L’ingresso, quello vero, non quello fittizio, è un budello a scalinata che eleva fino alla spianata dinanzi all’utse (torre) e poi al lhakhang (tempio). Si vedono ancora le travi bruciate infisse ai muri che, senza più l’intonacatura bianca, appaiono quello che sono, cioè terra pressata e seccata secondo il tradizionale metodo locale. Solo le mura perimetrali e quelle degli edifici più elevati sono in pietra.
M’aggiro tra le rovine in cerca di qualcosa, non so nemmeno io cosa, però. E mi par di trovare, più che nello splendore dei templi tutti d’oro, la natura più vera del buddhismo, quello che cerca il nulla…

lunedì 7 luglio 2014

Changi Pünsel Podrang, il più grande del mondo

Viaggio in Nepal e Bhutan/10 - Una enorme statua del Buddha che svetta sulla capitale Thimphu


È alto 51 metri, tutti di bronzo. E nel basamento sono ospitati 100 mila statuette dello stesso Buddha alte 8 pollici e altre 25 mila alte 12 pollici. Sono questi i numeri del Buddha Dordenma, che dovrebbe essere il più grande al mondo. È stato voluto nel sito del Changi Pünsel Podrang da Trizin Tserin Rinpoche, un grande leader spirituale, ed è quasi terminato, dopo una dozzina d’anni di lavoro. La statua (fusa in Cina e poi trasportata fin qui a pezzi) si trova a picco sulla capitale Thimphu. La statua è visibile da tutta la città e anche oltre. Pare aver preso esempio dal Cristo Redentore di Rio de Janeiro o dalla enorme croce fatta costruire dai cristiani sopra Skopije, capitale della Macedonia.

Inutile dirlo, fa veramente impressione arrivandovi per i tornanti della strada che parte da Thimphu, immersa com’è in un bosco attraversato in ogni direzione adlle sventolanti bandiere-preghiere buddhiste dei cinque colori degli elementi naturali. La statua è ormai completata e liberata dalle impalcature, mentre il basamento è da completare, anche se l’esterno è interamente ricoperto di piccole mattonelle dorate. Dinanzi, un enorme piazzale nel quale, si dice, si svolgeranno le cerimonie più suggestive della tradizione bhutanese, a cominciare da certe manifestazioni dello tsechu di Thimphu, il festival di musiche e danze che fa la gioia di esteti e fotografi. Tutto si svolgerà sotto lo sguardo altamente misericordioso del Buddha.

mercoledì 2 luglio 2014

Punakha Dzong, dove s’è fatto il Bhutan

Viaggio in Nepal e Bhutan/9 - Nell'antica capitale del regno himalayano, uno dei più fantastici luoghi del Paese



Nel grande tempio all’interno dell’ancor più grande dzong di Punakha, un centinaio di monaci di tutte le età sta recitando un ossessivo mantra sotto gli occhi del Buddha, anzi, di tre Buddha. Ma anche dal Zhabdrung Ngawang Namgyal, che viene considerato l’unificatore del Bhutan, il padre della patria in qualche sorta, e che completò lo dzong, il palazzo-tempio fortificato, nel 1637, installandovi la bellezza di 600 monaci. Quelli di oggi hanno atteggiamenti assai diversi – c’è il giovanissimo, quasi un bambino, che scherza col compagnetto accanto a lui, l’adolescente che pare stia sollevando il mondo, il lama che sembra stia solo a contare le offerte dei fedeli –, ma tutti danno l’impressione di una grande fierezza, quella di far parte del piccolo-grande Bhutan himalayano.

Maestoso è questo dzong di Punakha, detto anche “Palazzo della grande felicità”. Non a caso Punakha è stata la prima capitale del Regno del Bhutan, nel 1907, proprio per la ricchissima storia che l’ha contrassegnata sin dalla fondazione. Qui a Punakha s’è fatto il Bhutan e forse si continua a farlo, più che nella nuova capitale Thimphu. Lo dzong si erge in posizione straordinaria, alla confluenza dei due fiumi della regione, il Mo Chhu e il Pho Chhu, che danno poi vita al Punak Tsang Chhu. I suoi muri straordinariamente alti e spessi (perimetro di 180 metri su 72), le sue decorazioni lignee preziose e raffinate, i suoi sapienti spazi, il suo primo cotile ombreggiato da un secolare albero di fichi, le sue scalinate d’accesso quasi verticale ai ballatoi finemente decorati, dai pavimenti giallini… Qui il Bhutan si esprime nella sua grandiosa bellezza tradizionale…

lunedì 23 giugno 2014

Dechen Phodrang, quando la religione è di Stato

Viaggio in Nepal e Bhutan/8 - Un monastero per monaci buddhisti "novizi", fiamme rosse nella montagna



A qualche chilometro dal centro di Thimphu, capitale dello stranissimo Stato del Bhutan, con una stupenda vista sul Trashi Chhoe Dzong e sul palazzo del re, oltre che sulla nuovissima sede dell’Alta corte di giustizia, si erge un antico monastero che dal 1971 è diventato la scuola nazionale per giovani monaci. Statale. 

15 insegnanti per 400 studenti. Tanti, forse troppi per un corpo docente così ristretto e non eccezionalmente preparato. Ma, sicuramente, i criteri d’insegnamento non sono quelli delle nostre parti: qui s’impara a pregare, a suonare gli strumenti della devozione, a leggere e capire i libri sacri del buddhismo, con qualche infarinatura di  materie più civili. Ogni piccolo monaco ha a disposizione un materassino pieghevole, due vestiti color della porpora e una cassa di metallo nel quale tiene sotto chiave le sue poche cose, qualche libro, qualche caramella, la biancheria…

Ma quel che mi colpisce, appena entrato nel recinto del monastero, è l’apparizione di centinaia di piccole fiammelle bordeaux che folleggiano nei giochi e negli sport, continuamente mobili, ora a gruppi ora isolati, ora in competizione, ora in pace. Hanno tutti le teste rasate, gli occhi vivi e furbi, l’impegno di una missione esistenziale. Salgono i gradini del tempio veloci come caprette d’altura, fanno girare la ruota della preghiera come furetti, in un moto perpetuo che dice l’argento vivo della loro età ma anche la sanità di un tale sistema educativo. Qui c’è naturalezza, i piccoli monaci non sembrano minimamente infelici. Giocano con palle di stracci un football che pare quello che giocheremo in paradiso.

venerdì 20 giugno 2014

Tamchhong Lhakhang, il tempio sopra il ponte



Viaggio in Nepal e Bhutan/7 - L'opera di un monaco famoso per le sue produzioni d'ingegneria

Di solito il ponte è un passaggio che porta alla meta. Ma quest’oggi mi rendo conto che ciò non è sempre vero. Bhutan, strada che conduce da Paro a Thimphu, seguendo il corso del fiume Paro Chhu: una strada in discesa, in una valle che si stringe sempre di più, arida e inospitale. D’improvviso scorgo il monastero Tamchhog Lhakhang, classica architettura bhutanese-tibetana, bianco e rosso porpora con medaglioni dorati, finestre di legno a piccole aperture decorate, grandi travi evidenti sopra le aperture. 

Edifici immacolati in mezzo all’aridità, come ancora di salvezza, rifugio, luogo di ritiro e meditazione. Poi lo sguardo scende a valle, un centinaio di metri di dislivello che portano lo sguardo verso il fiume incassato. E lì, ecco due torri che paiono monasteri e tra di esse un ponte ad arcata unica che pare fatto solo di preghiere buddhiste, tante sono le orazioni di tessuto che giocano al vento con fantasia estrema. Avvicinandomi, m’accorgo che il ponte è composto da cavi, anzi da catene – ne conterò nove – ancorate ai grossi muri delle due torri. Poi mi rendo conto che tra le catene non è stata posta alcuna asse di legno, ma solo una rete metallica a maglie larghe, cosicché il deambulare sul ponte non solo impressiona per il movimento dondolante, ma anche per la vista delle acque sottostanti. Sotto i piedi. Bello, glorioso, affascinante.

La storia qui ha la sua importanza: Thangtong Gyalpo (1385-1464) era un monaco originale, un santo taumaturgo tibetano che a tempo perso si dilettava di architettura e meccanica, tanto che ebbe l’intuizione di utilizzare delle catene di ferro per costruire ponti nelle valli bhutanesi. Ne costruì otto. Ma aveva anche altri interessi, come fosse un esponente del Rinascimento italiano, o come i monaci benedettini che coltivavano tutte le arti: inventò l’Opera lirica tibetana, costruì monasteri, inventò nuove forme di meditazione, ed ebbe pure delle capacità in campo agricolo… 

E si capisce così la fierezza di questo popolo mite, che fa proprio della mitezza la sua forza. Protetto dalle montagne, privo di eccessivi interessi strategici, scarsamente popolato, dalla sua riunificazione avvenuta nel 1639 ad opera di Zhabdrung Ngawang Namgyal, il Bhutan ha potuto preservare le sue note culturali, le sue inveterate tradizioni. Solo ora si trova ad affrontare la sfida più grande, quella con la globalizzazione: deve mantenere, per vincere, la solidità di questo ponte di ferro!

martedì 10 giugno 2014

Rinchen Pung Dzong, il più armonioso



Viaggio in Nepal e Bhutan/6 - La fortificazione votiva di Paro dimostra come potenza ed eleganza possano convivere

Non è forse lo dzong (fortificazione, tempio, monastero, amministrazione pubblica, rifugio e centro commerciale nel contempo) più importante storicamente del Bhutan (Punakha è di gran lunga il più antico e ricco di tradizione), né il più grande (quello della capitale Thimphu, sede attuale dell’amministrazione del regno, è maestoso), ma certamente è quello architettonicamente più apprezzato. Tanto che in esso Bernardo Bertolucci volle girare numerose scene del suo Il piccolo Buddha. La storia: l’utse, cioè la torre centrale, fu costruita nel 1649 dal primo governatore di Paro, il penlop. Delle scale scendono al monastero, sei metri più in basso rispetto alla parte amministrativa, in un tripudio di legni colorati e pareti bianche, che trasmettono la sensazione di potenza e di ricchezza. E talvolta di spiritualità.
Visito il Rinchen Pung Dzong – il cui nome significa “fortezza edificata su un mucchio di gioielli” – venendo dal vicino tsechu, la festa più fantasiosa e fantasmagorica cui abbia mai assistito in vita mia. Ho gli occhi pieni di colori, volti, movimenti, tamburi e regine, folla bhutanese povera ma degna ed elegantissima, direi felice. Mentre le danze continuano, lo dzong è quasi deserto, la condizione forse migliore per poter apprezzare la purezza delle sue linee architettoniche, i suoi possenti muri quasi imprendibili; le preziose carpenterie decorate; il tempio ricco di statue buddhiche; i camminatoi sospesi nei quali qualche silhouette di monaco riempie di riconoscenza per la sua eleganza; gli affreschi curati nei dettagli come non c’è eguale altrove nel mondo; le ruote della preghiera che, incastonate in finestrelle decorate, paiono inviti all’orazione estetica; le scalinate di pietra che cambiano di pendenza a seconda dell’uso che se ne deve fare – più ripide se riservate al culto, meno se destinate all’amministrazione –; le ringhiere lignee che riprendono le decorazioni delle finestre e delle porte, ma con qualche auspicabile licenza; la larga striscia bordeaux che, posizionata poco sotto il tetto e decorata con grandi soli dorati, indica che quello è un luogo di culto; le soglie di ottone o di rame che ricoprono il legno nelle principali entrate, tutte punteggiate delle naturali incertezze della deambulazione; le scarpe abbandonate alla rinfusa all’ingresso del tempio principale; la purezza delle linee, la perfezione delle dimensioni, l’equilibrio delle decorazioni né eccessive né insufficienti, la maestria di certe soluzioni architettoniche… Tutto ciò, e molto altro ancora, è il Rinchen Pung Dzong di Paro, capoluogo del dipartimento più occidentale del Bhutan.

martedì 20 maggio 2014

Dumtse Lhakhang, sembrerebbe una cappella della Bucovina



Viaggio in Nepal e Bhutan/5 - Il Paese himalayano del Bhutan mi accoglie con la visita ad un piccolo ma glorioso tempio buddhista

È un insolito tempio costruito nel 1433 quello che mi trovo a visitare nella valle di Paro, nel Bhutan occidentale, un tempio che sembra una torre buddhista, un chorten. Fu costruito da un noto personaggio della regione, tal Thangtong Gyalpo, santo taumaturgo tibetano che era anche pontefice, ossia costruttori di ponti, in ferro. Anche questa costruzione ha non poco metallo ferroso nei suoi muri, così da ancorarsi al suolo, anche perché voleva significare l’ardua lotta contro un demone locale, terribile e fiammeggiante. Ha tre livelli, che rappresentano l’inferno, la Terra e il paradiso. Guarda un po’, anche per i buddhisti la Terra è una sorta di limbo, o piuttosto di purgatorio.
L’interno è assai oscuro. Trovo un uomo, il custode, che accetta di farmi entrare in cambio di un’offerta insignificante a Buddha. Poco alla volta lo sguardo si assuefà alla scarsissima luce e scopre, brano dopo brano, una Sistina buddhista, o piuttosto una cappella interamente affrescata come quelle della Bucovina, una cappella nella cappella. Unica rappresentazione è quella del Buddha nei suoi innumerevoli atteggiamenti e significati. Ecco un’aureola rosa, ecco una veste verde, ecco un tocco di giallo nella cintura… Poco alla volta emerge un universo di significati, di virtù, di gradini sulla scala del nirvana da raggiungere senza mai abbandonare la battaglia. Giro e rigiro, strettamente in senso orario, e non posso non concludere che, in fondo, Buddha ha saputo cogliere nell’animo umano la via dell’elevazione. Per gradi.

venerdì 21 marzo 2014

Transnistria, il Paese-striscia che nessuno vuole riconoscere


Reportage (2009) dalla nazione-non-nazione che chiede di nuovo, approfittando dell'annessione della Crimea da parte di Putin, di diventare una provincia russa. 

Da quando ne avevo sentito parlare, cioè circa sei anni fa, nel mio carnet mentale mi ero riproposto di visitare la Transnistria, prima o poi, a tutti i costi. La mente del viaggiatore conosce questi imperativi categorici ai quali è difficile derogare, salvo incidenti maggiori, impedimenti insuperabili. Il viaggiatore è paziente e sa che prima o poi i suoi desideri si avverano. Così quest’oggi – accompagnato da Irena, trentenne che lavora alla Caritas Moldova, e Galina, ricercatrice sociale e madre di quattro figli – mi trovo sulla strada per Tiraspol, la “capitale” dello “Stato” della Transnistria, sottilissima striscia di terra di circa tremila chilometri quadrati e 400 mila abitanti (quasi la metà sembra che sia però all’estero) che separa la Moldova dall’Ucraina, a 76 chilometri da Chisinau e a 102 da Odessa. Uno Stato assolutamente unico nel panorama geopolitico europeo, ma assai vicino agli unici “Stati”, tutti caucasici, che l’hanno riconosciuta: Abkhazia, Ossezia meridionale e Nagorno-Karabakh. Bozzoli di entità statali che approvano altri bozzoli, quasi per reciproco conforto. Unica eccezione, la Russia, che guarda caso ha riconosciuto anche Abkhazia e Ossezia meridionale…

Cos’ha d’interessante la Transnistria? È un Paese povero, in alcune remote regioni addirittura poverissimo, quasi misero, afflitto ancora da mancanza d’elettricità costante, con un’agricoltura rudimentale, fabbriche ormai chiuse, come quelle che scorgo nel centro della “capitale”, popolazione giovane alla sola ricerca di espatrio, un’economia che quindi si regge solamente sulle rimesse degli immigrati… È un Paese nato dopo una guerra cruenta, guerra che fece alcune centinaia di morti nel 1991, nel periodo del crollo dell’Unione Sovietica e della corsa all’indipendenza selvaggia. Un Paese che ha fatto della sua fedeltà al comunismo e alle relazioni con la Russia il proprio dover essere e soprattutto il proprio poter esistere. Non a caso nella via principale di Tiraspol, di fronte al monumento che ricorda la vittoria sui moldavi – un carro armato, manco a dirlo –, si ammira una gigantografia dell’ultimo incontro tra il presidente russo Medvedev e “quello locale”, di nome Smirnoff, come la vodka. Tutto è perciò rimasto come ai tempi del comunismo, l’architettura e i monumenti, la retorica degli striscioni e delle foto così come la povertà poco dignitosa delle periferie delle città.
Una pubblicistica assai sviluppata nelle riviste di geopolitica, vuole che la Transnistria sia il concentrato di tutte le perversioni politiche del continente. Così sarebbe il luogo privilegiato di alloggio delle cosche mafiose russe congiunte con quelle di altri Paesi; così sarebbe una plaque tournante, cioè uno snodo particolarmente libero del traffico di armi e di segreti militari provenienti dal disfacimento dell’impero sovietico, così sarebbe persino il luogo delle perversioni massime della prostituzione dell’Est europeo, così le auto in circolazione nella regione sarebbero al 70 per cento di provenienza illecita. Capirete bene come, avendo nella memoria questa pubblicistica, mi attendessi di vedere poco meno che uno Stato anarchico, in preda alle peggiori delinquenze e alle più sfrenate depravazioni. E invece no.

È vero, una giornata passata in Transnistria non può avermi dato una visione esauriente della situazione; ma quel che ho visto coi miei occhi e soprattutto i contatti avuti con persone che vi vivono, e che pure godono di osservatori privilegiati per la conoscenza della regione, mi fanno dire che sì, lo “Stato” della Transnistria è veterosovietico, marchiato da un chiaro trasporto nostalgico verso la “madre di tutte le rivoluzioni”; è vero che la miseria di vede oltre i paraventi ben dipinti del centro della città. Ma è anche vero che tutte queste colpe gettate sulle spalle di questo povero Paese sembrano veramente eccessive. Anzi, la gente pare accogliente, aperta allo straniero, povera ma degna; parla poco di politica, una cosa delicata come lo era nei Paesi ex-comunisti, ma parla di tante altre cose. E le auto non sono tutte rubate, e l’estetica del mobilio urbano non è popolata di donne senza veli, e le mafie se pur esistono – perché in terre di passaggio come la Transnistria esistono per forza, in tutto il mondo – non hanno certo una grande visibilità, e nemmeno una forte influenza sulla gente comune. Insomma, la Transnistria pare uno “staterello” che coagula interessi convergenti negativi (no alla Moldova, no alla Romania e no all’Ucraina) più che positivi (sì alla continuazione della sovieticità, sì allo sviluppo della malavita).

Nei fatti, la Transnistria opera come uno “Stato”, coi suoi ministeri e le sue amministrazioni, ma patisce l’isolamento: il treno Chisinau-Kiev non funziona più, e la via ferrata è stata saccheggiata, diventando inutilizzabile; le strade sono malmesse, e non consentono più collegamenti adeguati; il commercio, almeno quello ufficiale, è diminuito, perché deve fare impossibili percorsi per giungere a destinazione; i telefoni analogici per lungo tempo sono stati interrotti, ed ora quelli cellulari funzionano grazie alle compagnie ucraine o moldave; l’edilizia s’è fermata, salvo nella costruzione di villette finanziate dalle rimesse degli immigrati; di fabbriche non si vede nemmeno l’ombra, o meglio si vedono le ombre delle officine dismesse… Ma la gente sorride, riesce ancora a farlo, e pure con una certa fierezza. L’identità della Transnistria? «Avere due passaporti – mi risponde un uomo d’affari –, ed essere molto pratici nello sbrigare le proprie faccende: se non si arriva al proprio scopo in un modo, ce ne sarà un altro». Mentre un pope ortodosso, Vladimir, mi conferma un’impressione provata dinanzi al palazzo del parlamento vedendo la gente passare: «La gente vuole vivere, ma la politica glielo impedisce nei fatti. Allora bisogna cercare di vivere senza la politica».

mercoledì 5 marzo 2014

Tra i giovani della Maidan



Diario da Piazza Maidan/7 - Qualche chiacchera tra i giovani e i meno giovani che stazionano in Piazza Indipendenza (Maidan Nezalezhnosti). Eroismi e contraddizioni...

Passeggiando in piazza Indipendenza e conversando con i giovani (e i meno giovani della rivolta) ci si rende conto delle grandi doti di coraggio di questa gente che ha pagato col sangue la “rivoluzione della dignità”, ma anche delle tante ambiguità che hanno contraddistinto e che soprattutto contraddistinguono l’attuale momento d’incertezza. C’è stanchezza negli occhi e nelle membra, c’è chi raccoglie soldi per continuare la permanenza nella piazza, c’è chi lucra sul sangue, sono riapparse le bancarelle tradizionali della piazza, c’è chi se la gode a guardare le ragazze, c’è chi beve. Ma c’è soprattutto un’immensa fierezza nazionale nelle centinaia di migliaia di persone che sfilano in quello che è ormai diventato un “mausoleo della dignità”.
Un giovane che staziona accanto a una cassetta dove si raccolgono soldi per i giovani di Maidan (scorgo biglietti da 100 e 200 grivne, belle sommette), Igor mi racconta qualcosa della sua lunga battaglia: è studente, fa avanti e indietro tra l’università e la piazza, viene dall’Ovest del Paese, ha una gran voglia di vedere sparire dalla faccia dell’Ucraina la gente corrotta e corruttrice. Poco lontano, in una tenda che raggruppa della gente di Kharkiv, fief di Yanukovich, un cinquantenne che pare avvezzo ai lavori pesanti si racconta: «Sono pensionato, ho voluto venir qui per aiutare questi giovani, almeno mi sento utile. Non appartengo a nessun partito, ma sono certamente anti-russo. Sono pagato per star qui? No, assolutamente, ma le offerte arrivano abbondanti, abbiamo di che mantenerci».
In uno dei palazzi più eleganti della Avenue Khreshchatyk, che dà sulla Maidan, in quello che fu il negozio di una nota marca di abbigliamento per giovani, s’è installato il Gruppo di autodifesa della piazza, creatosi sin dai primi giorni della rivolta, il 30 novembre. Il giallo è il colore della rivolta, il giallo è il colore di questo gruppo che trova la sua origine nel partito della Tymoshenko. Computer, telefoni e telefonini, grossi thermos di tè, via vai un po’ frenetico, qualche walkie talkie, manifesti propagandistici dall’iconografia (mi si perdoni) un po’ vetero-sovietica o se vogliamo da Quarto Stato… Nessuno vuole parlare dei giovani presenti, un po’ più smart di quelli che stanno in piazza, devo aspettare che uno dei portavoce si liberi. Si chiama Yurij Yuzych, ha una trentina d’anni, è sposato con un figlio. Ha studiato informatica. «Il primo gruppo non era ben formato – mi spiega –, avevamo pochi soldi e pochi mezzi, ma c’era un grande fervore. Eravamo sistemati nel Palazzo del sindacato, quello che è stato bruciato nei giorni più violenti della rivolta. Ora siamo un gruppo molto ben affiatato e ben organizzato, che cerca di mantenere l’ordine anche in mancanza di polizia ufficiale, qui non c’è nessun furto e non c’è più nessun delitto. Non vogliamo diventare una milizia armata, ma in attesa che il governo decida cosa fare noi siamo qui per non rovinare la rivoluzione della dignità». Mi spiega che il loro capo è un deputato, Andriy Volodymyrovych Parubiy, del partito della Tymoshenko, che durante la manifestazione aveva la responsabilità dell’organizzazione della difesa della piazza. «Le nostre decisioni vengono prese democraticamente n el direttivo del gruppo – mi dice convinto –, d’accordo col nostro capo che è stato nominato segretario del Consiglio di sicurezza e di difesa ucraino. Altri due nostri deputati sono entrati nel direttorio dei servizi segreti e della sicurezza interna. Sì, siamo filo-governativi, è il popolo ucraino che ha preso il potere contro colui che non faceva che i suoi interessi, dimenticando il bene comune». Gli cheido cosa pensi dei rapporti tra la sua leader e il Cremlino: «Putin e Julia arriveranno a un accordo, ne sono sicuro – dice convinto –. Bisogna evitare ora di rispondere alle provocazioni russe, per evitare la guerra a tutti i costi. Noi ucraini non siamo capaci di fare la guerra. E non vogliamo separarci: abbiamo notizie dirette dai nostri compagni ad Odessa, Kharkiv, Donetsk… che ci dicono come le rivolte dei filo-russi siano molto limitate, anche se i media occidentali riportano solo quelle rivolte. Ad Odessa, ad esmepio, c’è stata una manifestazione in favore della politica del governo, c’erano anche degli ebrei. E pare che i tatari di Crimea stiano pensando di ribellarsi al nuovo potere russo». Gli chiedo perché la Tymoshenko non sia stata applaudita come ci si sarebbe aspettati dalla piazza:«Dividere la piazza non è cosa buona. In realtà è stata molto ben accolta». Qualche ricordo sulle manifestazioni più cruente: «Sono stato in piazza durante tutti questi mesi. Mia moglie è sempre molto più preoccupata di me. Paura? No, non ne ho mai avuta, se non quando nel Palazzo del sindacato ci hanno accerchiato le forze dell’ordine e mi sentivo preso in trappola, due volte hanno cercato di sgombrarci, prima di appiccare il fuoco all’edificio. La notte dei 100 morti ero a casa quando ho avuto una chiamata e sono corso in piazza. Mi sono occupato di evitare che i giovani fossero colpiti dai cecchini». Tra un mese? «Resteremo qui fino alle elezioni del 25 maggio, spero che Julia venga eletta.La sua uscita di prigione ha mischiato le carte. Vitalij Klitschko era il nostro naturale candidato, ma ora chissà…. I sondaggi dicono che Julia vincerebbe».

lunedì 3 marzo 2014

La speranza ucraina non deve morire

Diario da Piazza Maidan/6 - Il ritorno a Roma non fa che accentuare i sentimenti di storicità di quanto sta avvenendo in Ucraina. Pensieri sparsi.


Esausto al termine di tre giorni scarsi, ma di grandi emozioni, analisi ripetute, interviste continue, traduzioni faticose. Ne è valsa certamente la pena, mi sembra, perché in queste terre si sta giocando un pezzo del futuro dell’Europa. E forse dell’intero pianeta. C’è da sperare che l’irreparabile non accada. A meno che non ci sia già un accordo scritto tra la dama di ferro e lo zar, due personaggi da romanzi di Dostoevski. (Ucraina, Kiev, Quartiere ebraico, 2 marzo 2014)

Tutti i miei vestiti puzzano di… piazza Maidan! Un odore di fuoco da legna, ma anche di marciume, di olezzo di umani che si lavano poco, di plastica arsa e decomposta, di fiori in fermentazione, di lumini consumati, di cibo cotto nelle cucine da campo. L’odore della morte pure c’è, appena un po’. (Ucraina, Kiev, Quartiere ebraico, 2 marzo 2014)

Quanti giornalisti, quanti fotografi, quanti cameraman in piazza Maidan! E pensare che più della metà, si stima, è partito all’avventura in Crimea. IL mondo mediatizzato ha bisogno della violenza della notizia, dell’immediatezza assoluta con l’evento, dello spettacolo a tutti i costi, anche quello del sangue, soprattutto quello. Ma chi cerca di capire sul serio dei miei colleghi? Chi ha il tempo, i soldi, la testa e le conoscenze adeguate per scavare le motivazioni vere dei cambiamenti storici cui stiamo assistendo? Pochi, pochissimi tra i miei colleghi sempre di corsa. Riconosco di aver avuto, in questi tre giorni, una serie impressionante di aiuti e di buoni contatti che mi hanno, poco alla volta, svelato alcuni dei misteri di piazza Maidan. Senza poter tuttavia celare l’eroicità dei giovani ucraini. (Ucraina, Kiev, Quartiere ebraico, 2 marzo 2014)

Comincia a nevicare, fa freddo, tutto è grigio. Oppressivo. LA gente vive come sempre, le notizie della radio sono interlocutorie, anche se la follia di Mosca pare avviata. Il Dniepr scorre come sempre, le auto inseguono le lancette del tachimetro, come sempre, la moneta locale corre ancor più velocemente nell’inflazione. Ma nulla è come prima qui a Kiev. Il sogno di una nuova dignità non è ancora tramontato. (Kiev, lungo il Dniepr, 3 marzo 2014)

Palazzoni di periferia a Kiev. Enormi dormitori vetero-comunisti appena vivacizzati da qualche insegna luminosa neo-capitalista. Il contrasto è stridente, non lascia spazio a pensieri che non siano paradossali, o piuttosto contradditori. La transizione è lunga, non bastano pochi tocchi di colore. Cambiare i cuori e le menti, questo è il grande, immenso problema di questi Paesi ex-sovietici. (Kiev, lungo il Dniepr, 3 marzo 2014)

E se l’Ucraina dichiarasse il default? Che rivoluzione ne nascerebbe? Quali conseguenze per milioni di persone che già ora faticano a sbarcare il lunario? C’è da sperare che la comunità internazionale, e in primo luogo l’Unione europea, siano generose. Non si possono abbandonare questi giovani e queste madri che hanno dato la vita per l’Europa! (Kiev, verso Borispol, 3 marzo 2014)

«Se la Russia alza il prezzo del gas e costringe il governo ucraino ad elimninare il prezzo politico del riscaldamento, il Paese scoppierà», mi ha detto un diplomatico. Nelle case in cui ho abitato la temperatura era decisamente superiore a quella normale della nostra abitazione italiana tipo. La Russia prenderebbe l’Ucraina non per la gola ma per il gelo. (Kiev, verso Borispol, 3 marzo 2014)

Fenomenologia delle code. Ovvero del complicato passaggio da una mentalità da socialismo reale ad una semplicemente civile. All’aeroporto di Borispol, peraltro modernissimo, al momento di passare i controlli di sicurezza e del passaporto ci si scontra con una concezione del dovere civile assolutamente alla sovietica. Primo: gli sportelli aperti sono assolutamente insufficienti e le guardie di frontiera sono occupati da tutto, anche dai dettagli insignificanti di un passaporto, tranne che dall’imperativo di snellire le attese. Secondo: i viaggiatori formano una coda assolutamente irrazionale, a zigzag, ondeggiante, scomposta. Terzo: una gran quantità di viaggiatori cerca di far la furba e di bruciare qualche meandro del fiume umano come se niente fosse. Quarto: sono soprattutto i bellimbusti e le bellocce issate su tacchi impossibili che cercano di far i furbi incollati ai loro smartphone con perline Swarovski. Quinto: quando si apre uno sportello supplementare sembra che un branco di iene si avventi sulla povera preda. Sesto: la gente più umile e modesta (è tanta e bella e da abbracciare) fa la coda regolarmente, ma tace, solo un giovane (che viene da Maidan) protesta e biasima chi cerca di fregare il prossimo. (Kiev, aeroporto di Borispol, 3 marzo 2014)

E così volge al termine questo rapido soggiorno a Kiev, cominciato per capire meglio che cosa abbia generato la “rivoluzione della dignità”, che alla fine ha fatto più di cento morti e un migliaio di feriti, concentrati nel luogo-simbolo della rivolta, quella piazza Maidan, piazza Indipendenza, che sostanzialmente è l’agorà della politica ucraina: qui il partito teneva le sue adunate oceaniche e sempre qui era maturata la “rivoluzione arancione” di Yushenko, poi arenatasi in una grande disillusione. Andare sul posto non è solo curiosità ma è anche il modo principe per penetrare il cambiamento. Ascoltare un politologo in un bar di piazza Maidan non è la stessa cosa che leggere un suo articolo su un quotidiano. Ripartire col cappotto impregnato dell’odore di piazza Maidan per i soggiorni nelle tende e nei viali tra i fuochi per scaldarsi non è la stessa cosa che vedere immagini della piazza in un maxischermo in casa propria. IL giornalismo ha sempre e ancora bisogno della conoscenza diretta, ed è questa la sua bellezza e la sua grandezza. Bisogna toccare, incontrare, rispettare, ascoltare, interrogare, stupirsi, convincersi, mettersi in dubbio, amare. Sì, l’amore autentico è la principale fonte di conoscenza. Posso dire che in questa breve tournée in qualche modo sono riuscito ad avvicinarmi con libertà e rispetto ai ragazzi di Maidan, a vescovi ed ambasciatori, a semplici cittadini e a tanti colleghi, mantenendo il rispetto persino dei filo-russi. Ciò mi è stato possibile perché tanti, tantissimi ucraini mi hanno rispettato, ascoltato, sopportato, amato. Una buona lezione di giornalismo sarebbe stata per i miei allievi! (Partendo dall’Ucraina, Kiev, Borispol, 3 marzo 2014)