giovedì 25 marzo 2010

Thailandia in subbuglio

Sullo sfondo di sacche di povertà ancora estese, la Thailandia si ritrova in una grave situazione di conflittualità politica, che contrappone il governo e il re all'ex premier Takshim, magnate dei media e politico rampante, ora in esilio. Reportage da una bidonville di Bangkok (2006).

A circa mezz’ora dalla mia abitazione nel centro moderno della metropoli di Bangkok, c’è il vecchio porto, ormai abbandonato da ogni forma di attracco commerciale o turistico. È una landa desolata d’umanità, Klong Toey. La spiaggia è ridotta ad una sottile striscia sporca e maleodorante: qui non si ci si bagna per una lunghezza di almeno cinquanta chilometri di costa attorno alla capitale. Purtroppo solo da qualche anno nel Paese si sta sviluppando una certa sensibilità ecologica.

È qui che – attraversati dei binari che corrono sotto due grandi viadotti ovviamente accompagnati da due teorie di baracche –, incontro Prateep Unsongtham Hata (per tutti solo Prateep), una donna gentile e sorridente ma estremamente volitiva, senatrice nella passata legislatura, nata da queste parti. Nata cioè nello slum di 60 mila persone che occupa questa vasta area ex-portuale, ambita da molti imprenditori ma difesa strenuamente dalla piccola-grande donna, una buddhista.

Nel 1978 volevano distruggere tutto, senza indennizzare gli abitanti della baraccopoli; vi furono gravi incidenti, sommosse, morti e feriti. Fu allora che la donna decise di impegnarsi per la sua gente. Nacque la Duang Prateep Foundation. Quattro i semplici principi della sua azione: risolvere i problemi con la gente; fare vita comunitaria; sviluppare le opportunità economiche; puntare sull’educazione. Da quel momento la qualità della vita a Klong Toey è migliorata, e di molto. Il problema antico più grave resta quello degli incendi, mentre il problema nuovo più inquietante è quello della droga, e di conseguenza quello dell’Aids.

Quello che Prateep ha sviluppato è una sorta di welfare privato, una necessaria sussidiarietà, non per decreto legge ma per scelta personale. In occasione del recente tsunami, poi, che in Thailandia ha fatto 5 mila morti e centinaia di migliaia di senzatetto, è iniziata una nuova tappa della fondazione – concentrata soprattutto a Ban Nam Khem, tra le zone maggiormente colpite dal maremoto –, mettendo a frutto soprattutto la vastissima esperienza avuta con i bambini econ le scuole elementari. Non per niente il simbolo della fondazione racchiude il segno della lingua thai che indica proprio l’infanzia. Oggi un centinaio di persone sono impiegate direttamente dalla fondazione, mentre sono circa 2500 i volontari che svolgono la loro azione nei diversi campi seguiti dalla Duang Prateep Foundation.

Prateep mi sta dinanzi sempre sorridente e orgogliosa in questi uffici semplici ed essenziali, dove non si sa minimamente cosa sia il lusso ma dove le cose funzionano egregiamente. La donna è vestita elegantemente, un leggero trucco la rende una bella sessantenne fiera della sua condizione di social worker, di donna che ha saputo ridare una dignità alle persone del “suo” slum.

Non è più senatrice, signora Prateep? «No, perché il mandato è scaduto, e dopo sei anni non si può essere rieletti. Ma non mi dispiace, perché negli ultimi mesi la situazione è peggiorata, politicamente parlando. Mi hanno chiesto di far parte del governo in carica, ma ho declinato l’invito».

La Thailandia sembra sospesa perennemente tra democrazia e dittatura… «Il nosto è un Paese con una grande confusione, perché il regime democratico non è veramente tale. Chi ha il potere quest’oggi, potrà come e quando riportare la democrazia che oggi però non c’è. Sono stati 24 i colpi di stato dall’introduzione del suffragio universale: perché? Forse perché siamo troppo attenti alle personalità dei singoli politici che alla legge. Dobbiamo appoggiare il ritorno alla democrazia, per quanto imperfetta essa sia».

Cosa mi dice dello sviluppo economico tailandese? «Il potere del consumismo colpisce tutta l’umanità, ormai. Certamente nello sviluppo economico c’è anche una buona dose di elementi positivi, indiscutibilmente, nel campo della salute, del lavoro, della lotta alle arretratezze. Ma la gente è ridotta troppo spesso a robot, e pensa solo a far soldi. E questo provoca gravi disequilibri sociali».

Qual è la qualità principale dei thailandesi? «La pazienza. Senza di essa sarebbe saltato tutto da parecchio tempo».

Qual è stata la sua esperienza politica, in sintesi? «Ho costatato che quando abbiamo una buona posizione in politica, possiamo usare tale ruolo per aiutare la povera gente. Ma ho pure costatato che tanti senatori e deputati usano la propria poszione solo per il proprio tornaconto. E questo è triste».

La povertà è diminuita o aumentata in Thailandia? «Penso che si debba ridefinire la categoria di “poveri”. Non basta più il solo criterio della ricchezza, dei beni posseduti. Nella povertà è la sofferenza che conta, i pericoli che si corrono, la tranquillità, l’infelicità insomma. Sì, dal punto di vista prettamente materiale ci sono stati progressi, ma nel complesso la gente è molto più infelice di prima».

Lo stato dell’infanzia? «Diminuisce la tutela dei genitori, e il sistema educativo non è una delle priorità dei governanti. Gli insegnanti sono pagati male e non hnno futuro, e quindi la gente di valore abbandona la carriera di insegnate. Così divenatno insegnanti coloro che non sanno nulla. Più ci si allontana da Bangkok e peggio è».

Qual è la situazione dell’istituto familiare? «La situazione della prostituzione infantile sta diminuendo, perché tanto è stato fatto, anche per una questione di immagine del Paese all’estero. Ma i genitori si occupano sempre meno dei figli, sono impegnati tutto il giorno a guadagnare, e lasciano i loro bimbi soli. C’è un degrado della qualità della vita, anche familiare. Nojn si pensa al futuro, ma solo al presente consumista».

Quale bilancio fa della sua fondazione, a 28 anni dalla sua istituzione? «In realtà la mia attività era cominciata dieci anni prima… È posa cosa quanto ho fatto, perché quello che ho ricevuto è stato immensamente più grande. Ho solo cercato di sviluppare i diritti della gente. Ciò mi ha fatto sentire che noi siamo un’organizzazione non sostenuta dai potenti, ma solo dai piccoli. Solo i poveri possono veramente aiutare i poveri».

Dove sta andando il suo lavoro? «Vorrei far sì che i potenti si occupino dei poveri. E nel contempo vorrei spiegare ai potenti le ragioni dei poveri».

Cambierebbe qualcosa, se potesse tornare indietro? «Non ho mai avuto desideri particolari, non volevo mai fare grandi cose. Ho lottato coi governi, ho studiato i problemi, ho lavorato per i poveri, ma non ho mai fatto piani. Spero di aver fatto tutto bene».

Che importanza ha la religione per lei e per la sua azione? «Ha importanza nella vita nostra il buddhismo. Ma anche nelle altre religioni c’è un insieme di principi egualmente positivi. Mia madre è stata un esempio di buon buddhismo per me; il contenitore di riso di casa nostra, che pure non era certo ricca, si svuotava continuamente, perché mia madre lo dava ai più poveri. “Perché lo fai?”, le chiedevo. E lei, candidamente, mi rispondeva: “Siamo poveri, ma loro lo sono di più. Bisogna aiutare gli altri, come gli altri ci aiuterebbero se stessimo peggio”. Mio padre lavorava, faceva cesti di vimini, era cinese. Lavorava anche la notte per darci il pane. È stato un esempio di onestà e pazienza, come lo sono tutti i thailandesi».

Prateep deve lasciarmi, non senza avermi dato qualche regalo, magliette confezionate dalle donne povere del quartiere. Poi deve ricevere un tedesco benefattore della fondazione. Mi lascia come se non volesse farlo. È questa Prateep. Mi lascia con Minittaya Promnrochuianboon, responsabile delle attività che riguardano giovani, Aids e droga. «Contro l’Aids cerchiamo di educare i giovani, di renderli edotti dei gravissimi rischi che corrono con comportanemnti poco igienici dal punto di vista sessuale. Siamo stati i primi a parlare di questi problemi alla gente, prima non se ne parlava minimamente, fino a vent’anni fa, perché i tailandesi sono molto pudichi. Ora cerchiamo di far sì che siano dei giovani a parlare ai giovani e a convincerli. Curiamo nel quartiere 122 malati di Aids, ma non sappiamo in realtà quanti sono i sieropositivi, perché non c’è né controllo né statistiche adeguate. Ipotizziamo che siano almeno un migliaio du 60 mila, tra l’uno e il tre per cento della popolazione in ogni caso. Miglioramenti non se ne vedono molti, perché la droga si sviluppa fortemente e, soprattutto, stanno cambiando i costumi morali, per cui i rapporti prematrimoniali ora sono frequentissimi… E non vengono prese precauzion, perché se uno le prende viene considerato un poco di buono… È una battaglia molto dura, ma dobbiamo vincerla. Altrimenti questo quartiere rischia di scomparire».

Visito lo slum. C’è acqua corrente – una delle conquiste di Prateep –, ma non potabile. Tanta gente è in casa sdraiata a guardare la tivù, senza lavoro. Piccole rivendite di cibi fritti. Grida di bambini. Qua e là i centri della fondazione, per i bambini, per i giovani e per gli anziani. Odori dappertutto, d’ogni tipo, e pensare che ora fa fresco…

lunedì 22 marzo 2010

Srebrenica, le tombe verdi


Nuove rivelazioni spiegano come l'ignavia, la pavidità, la poca responsabilità dei caschi blu olandesi fu all'origine della strage di 8000 musulmani del luglio 1995. Visita nel 2005.

Il cammino, quasi un pellegrinaggio verso Srebrenica, dura circa tre ore di sola andata. I miei accompagnatori, cattolici di Sarajevo, paiono turbati, perché da queste parti non c’erano mai venuti prima della guerra e tanto meno si erano avventurati per più di una ventina di chilometri in questo territorio a prevalenza etnica serba, nella Bosnia del dopo Dayton. Timore di rinnovare sentimenti a fatica repressi. Il paesaggio è superbo, i boschi alti e incantevoli, i campi grassi di verde e d’umidità. Gli abitanti, invece, sono precari e disordinati, tutti o quasi feriti in qualche loro parte dai combattimenti della lunga guerra civile. Le mucche pascolano sui cigli delle strade – vecchia abitudine dei tempi del socialismo reale –, e persino nei cimiteri che sorgono un po’ ovunque le tombe paiono quasi tutte assai recenti. Ma gran parte di questo affascinante territorio nasconde il pericolo delle mine anticarro ed antiuomo, per cui Sarajevo in certo modo pare avere ancora un assedio da combattere, quello dei boschi minati.

Arrivando nel cantone di Srebrenica, c’è qualcosa che colpisce ancora lo sguardo, a dieci anni di distanza dal massacro perpetrato dai serbi di Mladić ai danni della locale comunità musulmana: le case scarnificate, con lo scheletro di cemento armato – in ogni caso precario e artigianale – a cui sono rimasti attaccati a volte penzolante moncherini di muro. Gli altri mattoni sono stati prelevati, assieme a tutto ciò che eventualmente esisteva, ed ora compongono altri muri, magari quelli della casa del vicino. Dell’ex vicino serbo. La valle di Srebrenica è una lunga serie di abitazioni assai simili costruite senza alcun piano regolatore, case da rimesse di immigrati, costruite in economia, poco alla volta, e in un caso su due, ancora prive di intonaco. In queste case vivevano – e in parte vivono ancora – famiglie musulmane in prevalenza bosniache e famiglie ortodosse, quasi tutte serbe. E poi qualche nucleo croato e cattolico. Ma il sangue che è colato nel torrente di Srebrenica era quasi esclusivamente sangue misto: la purezza della razza da queste parti non è che illusione e imbroglio. Più imbroglio che illusione, a dire il vero.

Prima di arrivare all’abitato, musulmani, ma non solo, hanno edificato un mausoleo che è pure cimitero, per le vittime del “genocidio” ufficialmente riconosciute. Un migliaio, sulle 8 mila stimate. I cadaveri di coloro ai quali non è stato ancora associato un nome sono raccolti nella sconfinata camera frigorifera approntata apposta a Tuzla, dove si cerca di districarsi nella foresta dei dna, sperando di non sbagliarsi. Tra le file di tombe tutte uguali, segnate da lapidi di legno verde, ecco una famiglia, solo una, che passa tra le sepolture, riconoscendo un nome, un altro, un terzo. Hasan Jukić, accompagnato da madre, moglie e figlio, qui ha sepolto il padre e due fratelli. Ad ogni tomba conosciuta, le due donne si inginocchiano e levano le mani verso Allah, con dolore ma compostamente. Direi con raccoglimento.

Hasan mi racconta della fuga nei boschi, nottetempo, quando i serbi, come cani ringhiosi finalmente liberati dal guinzaglio delle Nazioni unite, allora e in quel posto di marca olandese, hanno dato fondo a quanto di più bestiale esiste nell’uomo. Una fuga precipitosa, senza nulla, cercando di salvare la pelle propria e quella dei cari, in particolare della moglie incinta. Poi la sopravvivenza nel bosco, la paura di scendere sulle strade, d’imbattersi in qualche pattuglia serba, di conoscere la verità sui propri cari. Tre mesi della sosta, tre mesi di selvaggia disperazione come frutto d’un insopprimibile istinto di sopravvivenza. Nel corso dei quali nacque Nazer. Una vita nella morte. Oggi un simbolo, a dieci anni dall’abominio, tanto più che la famiglia Jukić vuole vivere ancora in un paese in cui cristiani e musulmani, serbi e bosniaci e croati abitano gli uni accanto agli altri, hanno le stesse scuole, gli stessi negozi, gli stessi campi, gli stessi uffici. Le stesse strade, gli stessi mattoni.

Discorsi analogo ritrovo nelle parole dell’iman Alija Jabokovic, anch’egli figlio di questa terra, anch’egli fuggito nei boschi e scampato alla morte quand’era ancora un adolescente. Alija accoglie i musulmani che stanno tornando poco alla volta nel loro villaggio, erano 18 mila, 8 mila sono stati uccisi, 4 mila sono tornati o rimasti, 6 mila sono ancora in esilio ed esitano a tornare, anche se di pericoli sembrano non essercene più, per via della presenza internazionale assai massiccia – ci sono tutti: Osce, Nato, Unione europea, Care International, Caritas… – che secondo l’iman non sono più indispensabili per assicurare una convivenza pacifica, ma solo per fornire qualche posto di lavoro che sembrano ora crudelmente latitare. «Al bar ci salutiamo, spesso sediamo allo stesso tavolo, non abbiamo risentimenti particolari, salvo eccezioni, per qualcuno che ha denunciato noi musulmani. Ma sono casi isolati, che spesso se ne sono già andati. Chi ha ucciso non era di queste parti». Alija ha perso padre, madre e fratelli nel massacro di Srebrenica: «Non posso dimenticare, non sarà mai possibile. Ma posso vivere, questo sì, cercando di non pensare troppo a quei momenti, e di coltivare nel mio cuore sentimenti di pace».

Erano 18 le moschee di Srebrenica. Ora una sola è in funzione, ma altre tre stanno per essere riaperte. A fatica ricomincia una vita che si vorrebbe normale, anche se le tracce degli incendi e delle distruzioni non sono e non saranno facilmente cancellati. L’Europa è presente – ci mancherebbe altro – perché qui essa ha qualcosa di molto grave da farsi perdonare.
Giuseppe Terrasi, un docente italiano qui lavora per una Ong, la Icmo, Centro di ricerca per l’educazione alla pace. La sua analisi è lucida: «È il terzo anno che vengono organizzate le Giornate di Srebrenica, le Dani Srebrenice, un modo per far sentire agli abitanti della cittadina che si può ricominciare. Oggi inauguriamo il nuovo Centro giovanile. Ci sono momenti di sconforto che si alternano ad altri invece di speranza, come l’istituzione di un organismo ad hoc che cerca di rimettere dell’ordine nella titolarietà di case e terreni, permettendo ai legittimi proprietari di tornare in possesso dei loro beni. Fino all’anno scorso i profughi tornavano sotto scorte per il timore di rappresaglie, mentre oggi tornano senza troppe preoccupazioni. Tuttavia di notte Srebrenica fa ancora paura: nessuno gira per le strade, nessuno cerca di trovare un qualsiasi divertimento nella città».

Salgo i gradini che conducono alla moschea, e poi quelli identici che portano alla chiesa ortodossa. A fianco, ovunque distruzioni e qualche ricostruzione. I fori dei proiettili, visibili ancora su quasi tutti i muri, testimoniano la violenza e la brutalità dei combattimenti. I cimiteri sono gli unici terreni curati e in espansione. I due luoghi di culto si fronteggiano, issati su due alture che sovrastano la piazza principale del paese. Paiono voler meditare mentre il primo sole estivo inonda il paesaggio di una luce troppo forte. Una strage, quasi una pulizia etnica, un piccolo genocidio non può mai avere una spiegazione plausibile, ma solo tentativi di comprensione.
E allora, scendendo le scale della moschea e quelle della chiesa non posso che cercare di raggruppare nell’anima sentimenti e ragioni. E decidere di soprassedere: solo il silenzio spiega. Un silenzio rotto a sera dalla tivù di mezzo mondo: l’emittente serba ha in effetti mandato in onda un lungo e drammatico filmato che documenta la cattura e l’esecuzione di una dozzina di musulmani di Srebrenica da parte delle famigerate milizie paramilitari serbe, sotto gli occhi di un ufficiale dell’esercito regolare. In seguito al filmato, otto persone sono state arrestate. Mi sembra di riconoscere alcuni luoghi visitati proprio quest’oggi. Insostenibili sono gli sguardi di quegli uomini inermi che si chinavano di fronte alla vergogna di cristiani che non solo hanno tradito, ma che hanno crocifisso di nuovo il loro Dio. Perdono è una parola che bisogna riempire di fatti per riuscire a far dimenticare queste immagini.

mercoledì 17 marzo 2010

Trani, non solo "Annozero"


La cittadina pugliese è improvvisamenet salita al centro dell'attezione di tutta Italia per l'indagine sulle presunte pressioni sulla Rai e sull'Authority per le comunicazioni per l'oscuramento di alcune trasmissioni sgradite al premier. Visita del settembre 2006.

L’odore, la puzza o il profumo dei cefali e dei tonni, delle spigole e delle seppie si spande ovunque nei vicoli della città vecchia, viuzze su cui si affacciano palazzi dallo stile indecifrabile per un occhio frettoloso: dal romanico al barocco, dal normanno a una nuance di gotico veneziano, incappando persino in una chiesa, quella di Ognissanti, che fu haut-lieu dei templari fino al tempo della loro soppressione. Si svicola come anguille nel centro cittadino, seguendo gli effluvi, talvolta di grigliate o di acque pazze, certi così di giungere al mare, di schiaffeggiare i piedi contro le onde di cui si ode la musica e si odora l’indecifrabile salsedine. Il mare, l’Adriaticum, la madre di tutti i mari per la gente di queste contrade. Non hanno altri mari con cui confrontare il loro amico-nemico d’ogni giorno.

È il castello svevo l’ultimo ostacolo che si frappone tra mne e il mare. Lo intuisco dall’austera sagoma squadrata, dominata da due paurose e tozze torri: una tale costruzione non può che avere come vocazione quella di bloccare marosi o pirati, gli sfrontati contrabbandieri o persino l’impeto del vento. Il castello, come altri nella regione, a cominciare dal celeberrimo Catsel del Monte, fu voluto da quella inesauribile mente che fu Federico II. Ospitò nel 1259 le nozze di Manfredi, l’imperatore timido, con la principessa Elena Gomneno. Poveretta, la regale consorte fu poi catturata e rinchiusa proprio in questo maniero austero e pauroso.

Accanto al castello, di cui riprende gli archi verso il mare, ecco la cattedrale dedicata a Santa Maria, una vera e propria basilica completata a metà dell’XIII secolo a ridosso del porto, azzurro della quiete del cielo e del movimento delle acque (che non sono elementi contradditori, tutt’altro!). La facciata è mossa da una scalinata a doppia rampa che sale ripida e decisa al portale maggiore guardando al rosone, come avvolta da un incanto marittimo. L’odore dei ceri si mescola a quello del pesce e della salsedine, creando un profumo che stupisce per la sua inusitata delicatezza, quasi che gli effluvi liturgici avessero bisogno della quotidianità più ovvia – ma altrettanto rituale –, quella del cibo, per dimostrare che il divino poggia sull’umano, e viceversa.

Ma quel che più stupisce è l’inclinazione, l’asse assunto dal duomo nei confronti dello spazio del porto. Non si volge infatti verso di esso con la facciata delicata e ricca di aggraziate decorazioni, ma con l’abside, o meglio con le grandi forme semicilindriche delle tre absidi. Ed è perciò questa, e solo questa, l’immagine che i pescatori e i marinai scorgono entrando in porto, magari dopo una notte buia e tempestosa o una giornata nella nebbia impenetrabile. Che cosa avrà spinto il progettista a inventare sulla carta quest’anomalia? Me lo chiedo con curiosità. Mi rispondo che sì, queste tre absidi così uniche hanno qualcosa di materno, di forte e nel contempo d’aggraziato, come un utero multiplo e accogliente. È questo che chi arriva dal mare desidera e aspetta: una protezione dolce e forte, alla fine della lunga battaglia con le onde e coi marosi.

lunedì 15 marzo 2010

Sarkozy, pensa a Aigues Mortes


Grossa sconfitta del partito del presidente alle elezioni amministrative di ieri. In questi momenti non è male per lo sconfitto pensare a quei luoghi dove la perdita alla lunga è diventata un guadagno. Aigues Mortes, profondo Sud della Francia, visita nell'agosto 1998.

1241: dal nulla di una palude salmastra un re santo erige un monumento di forza guerriera, all’entrata della mitica Camargue. Il re di Francia, Luigi VIII, aveva in effetti intrapreso da un decennio una politica espansionistica della corona di Francia verso il sud, nei ricchi feudi del duca di Tolosa, con la forza e con i matrimoni. Il figlio completerà l’opera, creando un nuovo porto sul Mediterraneo, e proteggendolo con una città dal carattere altero, imprendibile, superba nella pietra e nelle forme, quasi una sfida alla rivolta catara che si organizza proprio in quegli anni. Aigues Mortes, acque morte, come nelle paludi.

Luigi IX, più noto come il re santo, dà il via all’impresa nel 1241, e tre anni più tardi il più è fatto, proprio quando arriva la notizia della presa di Gerusalemme da parte dei mercenari turchi al soldo del sultano di Damasco. Il papa lancia un appello per una crociata, e naturalmente Luigi IX ne ottiene il comando. L’esercito si riunirà proprio ad Aigues Mortes, da dove salperà nell’agosto del 1248.

Si respira ancora aria di crociata girovagando nelle calde serate d’agosto su e giù per le strade perpendicolari della città rettangolare, dominata dalle mura perfettamente conservate. Anche se non le vedi, sia pure solo per qualche istante, la loro presenza si fa sentire nella pietra, nei respiri di un selciato che sembra riflettere il lume delle torce delle sentinelle che montano la guardia. E stemmi in pietra, e massicci anelli di ferro arrugginiti, e lastricati incisi da scalpelli latini. Nelle stradine aleggiano odori e profumi forti, mediterranei, solari. Carne di toro arrostita alla legna di eucalipto, filetti di calamari ai peperoni, bouillabaisse (terrina di pesce mediterraneo profumata allo zafferano, con salsa all’aglio su fette di pane abbrustolito) e ogni altro ben di Dio acquatico. Il tutto innaffiato col Listel, il vinello “grigio” della terra di Camargue, dall’inconfondibile carattere che sposa terra e mare.

Inutile è poi resistere alla tentazione di una passeggiata sulle mura, sui rempart, nel calore di mezzogiorno. La Camargue va ammirata col sole a picco, con la fronte madida di sudore per l’ascesa negli stretti cunicoli a pioli, cullati dal canto stantio delle cicale, e così apprezzare la frescura dell’ombra delle torri e, più tardi, il pastis al bar nella sola piazza alberata della città, attorno al monumento del re santo. Fuori c’è la distesa di acqua e sale; dentro ci sono i tetti, quasi un tessuto ininterrotto, ingentilito dai merli delle mura di fronte.

Poi la Torre di Costanza, inconfondibile, un cilindro massiccio inquietante nella sua nuda geometricità. È sormontato da un cilindro agile e slanciato, il faro. Le poche fenditure nella costruzione accentuano il sentimento di minaccia che naturalmente ispira. Qui si consumò uno dei drammi più conosciuti della guerra di religione che oppose nel XVII e nel XVIII secolo cattolici e protestanti; in seguito all’editto di Nantes, qui furono rinchiuse e perirono diverse decine di seguaci di Lutero. Con emozione si ricorda ancor oggi Marie Durant, figlia di un pastore, che rimase segregata per trentotto anni. Sarebbe sua la scritta incisa sul pavimento all’entrata: résister.

Le mura vanno poi ammirate di sera, dall’esterno questa volta, accompagnati dal canto stridente dei grilli e dai rumori inquietanti della fauna della Camargue, selvaggia già due passi fuori dalla porta dei mulini o da quella della regina. Il vento caldo anche nel buio della notte s’infrange contro le pietre che proteggono cappelle e confrerie e cortili, abituate da secoli alla resistenza. Ma una resistenza in qualche modo gioiosa, come la gente che abita la città.
Viene un pensiero sibillino, in contrasto col carattere guerriero della città: hortus conclusus deve essere la comunità della gente, un giardino protetto. Gli abitanti di Aigues Morte, ormai respirano pace e serenità.

giovedì 11 marzo 2010

Lo sceicco Tantawi se n'è andato


E' morto a Riad (Arabia Saudita) per un attacco di cuore. Era considerata la massima autorità musulmana sunnita al mondo, gran sceicco della più autorevole istituzione culturale musulmana al mondo, l'Università Al Azhar del Cairo. Avevo incontrato lo sceicco nel 2005. Una persona in fondo mite, anche se non gli mancava il coraggio, soprattutto quando prendeva posizioni "moderate" rispetto al radicalismo di certe tendenze musulmane, egiziane in particolare. Il mondo musulmano, e anche quello cristiano, ne rimpiangerà la presenza. Ecco quello che mi aveva detto in una intervista del 2005, pubblicata sul libro "L'Islam che non fa paura" (San Paolo).

A proposito della globalizzazione: «Per noi musulmani il problema principale posto dalla globalizzazione è quello dell’ignoranza. Chi raggiunge una conoscenza sufficiente non trova difficoltà nella vita. Chi è sano, chi capisce, chi conosce la fede e le realtà della sua vita, non trova mai ostacoli insormontabili. L’uomo che non sa, invece, pensa male e, ad esempio, arriva a credere che non tutti sono fratelli su questa terra, e che l’umanità deve essere uniformizzata». Chi è allora il prossimo, l’altro per un “musulmano globalizzato”? «Colui che amo e che rispetto. Colui che è sano, che ama la giustizia, che ama agire con fedeltà, che ama la verità, che ama le virtù, che non fa del male agli altri, che non provoca disastri e rovine, che non pratica il terrorismo per distruggere o per ammazzare la gente. L’altro è l’uomo che ama le virtù, che non ama le cose negative. Questo è il prossimo amato, che sia governante o governato, maschio o femmina, chiunque».

A proposito dell'immigrazione musulmana nei Paesi occidentali: «Io raccomando sempre – mi risponde –, quando un egiziano arriva in Italia, in Francia, in Usa o in Inghilterra, di essere un buon esempio di musulmano per tutti, nella verità, nell’onestà, nell’osservare le leggi del paese dove è emigrato. L’immigrato deve essere un esempio per la cittadinanza, deve fare il suo dovere di cittadino, non allontanandosi perciò dalla legge del paese di cui è ospite». È allora auspicabile che si instauri un’etica globale? Lo sceicco risponde solo indirettamente alla domanda: «Un’etica globale è presente sin da quando Dio ha creato il mondo, e continuerà ad esistere fino alla fine dell’esistenza dell’uomo sulla terra. Sin dall’antichità la giustizia è una virtù e l’ingiustizia è un vizio, e ciò non cambia nel tempo e nello spazio: la giustizia rimarrà giustizia fino alla fine del mondo. E così l’onestà, la cooperazione, la benevolenza, i rapporti positivi tra la gente…».
A proposito della donna: «La donna – mi dice – è nostra madre, nostra sorella, nostra figlia, nostra moglie. È tutto nella nostra vita», mi risponde in certo modo disarmante e con lo sguardo lucido. Da una settimana ha perso la sua amata consorte.

A proposito del dialogo interreligioso: «Ci si riunisce spesso con i fratelli del Vaticano. Le nostre porte sono sempre aperte per loro. E capiamo sempre più che siamo d’accordo su cose fondamentali, come le virtù: aiutare i più deboli, i poveri, i miseri, gli ammalati. Nel dialogo coloro che hanno la fede si aiutano a propagare giustizia, fedeltà e cooperazione. Noi preferiamo questo dialogo alle accuse di infedeltà. Certo, non discutiamo sulla dottrina, perché tale dialogo fa più male che bene: tu non puoi convertirmi al cristianesimo, e io non posso convertirti all’Islam, io offro quello che ho, tu offri quello che hai. Il giudizio finale spetta a Dio». Lo sceicco Tantawi mi dice che questo è anche il pensiero di Giovanni Paolo II. Quando ne parla, pare ricordare l’amico ricevuto proprio nello studio dell’intervista: «Ci siamo seduti su queste due sedie, abbiamo riso insieme, conversando con calore e rispetto. Quando si è allontanato, gli ho raccomandato di curare la sua salute, perché il papa è importante per tutti, anche per noi musulmani. L’impressione più profonda avuta incontrandolo è stata… la fraternità. Il papa è un uomo di fraternità; ho avuto la certezza che siamo tutti figli di Adamo».

A proposito delle religioni abramitiche: «La diversità dei pensieri e degli obiettivi sono gli ostacoli e nello stesso tempo le sfide del dialogo. C’è chi occupa la terra di un altro, e c’è chi prende possesso dei beni dell’altro, malgrado le religioni di Abramo spingano alla cooperazione tra gli uomini. Lì sta la religione, quella che Dio ha fatto scendere sulla Terra tramite i profeti, quella delle tre fedi di Abramo. Chi ha uno spirito religioso combatte contro ingiustizia, fanatismo e terrorismo, e collabora al bene».

A proposito della fraternità: «La fratellanza universale! Tutte le religioni celesti, e quindi anche l’Islam, hanno sempre detto che tutti abbiamo un padre e una madre comuni. Che siamo in Asia, Europa, Africa, Australia, America, Egitto o Italia, tutti siamo fratelli nell’umanità, anche se le religioni sono diverse. Siamo in Egitto, un paese dove vivono musulmani e cristiani. Il seguace di Muhammad va alla moschea per pregare e il cristiano alla chiesa. Quando escono, si salutano. In ogni palazzo dell’Egitto si trovano abitanti delle due religioni. Quasi tutti, perciò, cooperano: talvolta un musulmano e un cristiano hanno addirittura un affare comune. Dunque la diversità nella fede non impedisce tale cooperazione vera, la prosperità e il bene».

mercoledì 10 marzo 2010

Portogallo in crisi economica, ma...


Il governo portoghese sta varando una "stretta" notevole per combattere la crisi finanziaria ed economica del Paese. Ma le sue bellezze non si dimenticano facilmente. Andiamo in vacanza in Portogallo (e in Grecia) per sostenere questi Paesi! Visita all'abazzia di Batalha, nel novembre 2004.

Il brullo interno del Portogallo manifesta una sua bellezza austera, che sembra racchiusa nella caducità e nella forza degli eucalipti, che tutto l’anno si spogliano del fogliame, attratto irresistibilmente dalla gravità terrestre, creando un tappeto vegetale che profuma di essenze mentolate. Una bellezza inusitata.

Dieci chilometri di curve a ponente del santuario mariano dei portoghesi e del mondo intero, Nossa Señora da Fatima, oltre una breve catena di montagne che pare quasi una steppa, si erge una abbazia in stile manuelino che pare un’astronave posatasi sulle brutture dell’opera dell’uomo, non è dato di sapere per quale benedizione celeste. Batalha, Santa Maria da Vitória. Vittoria, cioè la battaglia di Aljubarrota del 1358. Vincitori: Dom João, figlio illegittimo di Fernando I, e i portoghesi armati alla meno peggio. Perdenti: Juan de Castilla e gli spagnoli armati fino ai denti. Risultato: due secoli di indipendenza dei portoghesi dall’odiata Spagna. Il re lusitano aveva fatto voto, in caso di vittoria, di edificare una chiesa alla Vergine. Cosa che intraprese con lena e fervore già nel 1388, per lavori ciclopici che si conclusero solo due secoli più tardi, con diverse interruzioni, la più visibile delle quali fu quella imposta dal suo successore, Manuel I, perché aveva nel frattempo intrapreso l’impossibile impresa del Monsterio dos Jerónimos a Belém: le “Cappelle incompiute” ne sono la più evidente delle tracce.

Una vasta e slanciata chiesa, una cappella che ospita il sepolcro di João I e della sua amata consorte Filippa di Lancaster – i coniugi reali sono sepolti mano nella mano –, due chiostri aperti sulla bellezza, un refettorio che guarda alla sostanza delle cose, una sala capitolare che ospita due militi ignoti con tanto di picchetto d’onore, le cappelle incompiute di pietra ma non di sogno. E guglie slanciate e ardite, e pietre traforate come merletto, e archi dalle decorazioni così frastagliate e precise da sembrare arabeschi, e deambulatori dalle vertiginose prospettive che parrebbero percorsi purificatori verso l’Eden. Lo sguardo è incapace di concentrarsi su qualcosa di preciso, per il continuo inseguirsi di scorci stupefacenti e di ardimenti prospettici: la schizofrenia del turista dal collo di fil di ferro è dietro l’angolo.

Ma dietro l’angolo c’è pure la sorpresa assoluta di Batalha, ordita con la complicità di una luce autunnale penetrante e trasparente come poche. Nella grande e slanciata chiesa progettata da Alfonso Domingues, dall’altissima volta a pianta semplice di croce latina, su tre navate longitudinali, i pilastri si ergono come fulmini ascendenti, decorati ma semplici, intransigenti nella loro austerità quasi ieratica. Avvolti di luce. Dipinti di un caleidoscopio di colori e forme, effetto delle vetrate attraversate dai raggi pomeridiani di luce bianca che assorbe la pigmentazione del vetro colorato. È l’incanto della pietra calcarea che muta vocazione, divenendo tavolozza della creazione. La fredda e austera giustezza dell’architettura diventa quasi divertissement, gioiosa esaltazione dell’umana sorte. M’incanto di pigmenti trasparenti e volatili, e mi siedo e fotografo e rifotografo e ammiro e piango. Quei colori che mutano di posizione impercettibilmente ma inesorabilmente mi paiono metafora del tempo umano, impalpabile ombra del terrestre deambulare e traccia della similitudine divina dell’essere creato. M’incanto di pietra e di colori.

domenica 7 marzo 2010

Albanese a proposito de "Sull'ampio confine"


Giulio Albanese, direttore di "Popoli e missione", editorialista di "Avvenire" e fondatore di "Misna" ha scritto una recensione per il mio ultimo libro. La pubblico, anche se le sue parole mi paiono un po' esagerate...

La grande bufera che ha investito in questi anni la regione caucasica, linea di faglia tra Oriente e Occidente, manifestatasi con guerre, esodi ed eccidi, ha prodotto una comunicazione solitamente giornalistica e a tratti addirittura letteraria. Narratori del calibro di Kapuscinski hanno saputo dare voce a chi non ha voce, imprimendo il brivido della scoperta. Zanzucchi, cronista-viaggiatore d’eccellenza, sta dentro la medesima vena letteraria, raccontando attraverso fonti dirette il vissuto di tanta umanità dolente e paradossalmente aperta alla speranza.

Riaffiorano allora realtà distanti anni luce dal nostro immaginario, fatte di lingue, culture e rivendicazioni inedite, drammatiche e sconvolgenti, comunque intrise di un’umanità prorompente. Tante le storie di uomini e donne che l’autore ha incontrato, cristiani tutti d’un pezzo che vivono la loro fede con impegno, talvolta nella paura, in ogni caso solidali con la loro gente. C’è la Cabardino-Balcaria dove la convivenza è possibile; l’Inguscezia con la paura rinascente; la Cecenia, terra dell’abominio radicato; il Nagorno-Karabakh, l’armenità perduta e ritrovata; fino all’Azerbaijan che galleggia sul petrolio. L’assenza di ideologia e la presenza del angelo in ogni pagina testimoniano un cristianesimo in cui non contano i numeri ma la qualità della fede. Si legge d’un fiato, portando i segni dell’autore. È davvero tutt’uno con lui.


Giulio Albanese

giovedì 4 marzo 2010

Alessandro Gisotti: "Dio e Obama"


Riporto quanto ho detto ieri sera alla presentazione del libro del collega della Radio Vaticana pubblicato dalla Effatà, a Roma, alla quale sono stato invitato assieme al prof. Gray della John Cabot University di Roma, a Paolo Mastrolilli, caporedattore de "La Stampa", moderati da Fabio Colagrande della Radio Vaticana. Erano presenti tra gli altri l'ambasciatore statunitense presso la Santa Sede e il Direttore della Sala Stampa Vaticana.


Certamente Obama ha portato un vento di novità negli Usa e nella sua politica, ha sparigliato le carte in tavola. E non possiamo non affrontare le questioni che sta sollevando, dalla gestione della crisi economica alla riforma sanitaria, dall’atteggiamento verso il mondo musulmano al rinnovato impegno nella guerra d’Afghanistan. Questioni che stanno buttando per aria la tradizionale divisione tra conservatori e progressisti, tra destra e sinistra. Obama ha buttato per aria una serie di preconcetti e pregiudizi: ad esempio 1) che un nero non potrebbe essere presidente, e buon presidente; 2) che gli Stati Uniti non possano essere amati nel mondo, ma solo temuti per la loro forza economico-militare; 3) che Dio debba essere un monopolio della destra… E altri ancora.

Premetto che non sono un politologo e nemmeno un americanista. Sono un semplice cronista che si è interessato in particolare di tutto quanto c’è ad Oriente della nostra Italietta. L’Oriente mi attira più dell’Occidente, indiscutibilmente, come accadde a Ella Maillart, a Tiziano Terzani, a Robert Fisk… Ma andando ad Oriente mi è sembrato sempre più chiaro che l’Occidente è indispensabile all’equilibrio del mondo, e che gli Usa hanno un ruolo straordinario da svolgere ancora.

Più giro per il mondo, più mi sembra vero quanto scrisse Alexis de Toqueville: «L’America è grande perché è buona. Se cessasse di essere buona, cesserebbe pure di essere grande». Frase sibillina, ma verissima! Ho costatato a iosa nei miei viaggi – soprattutto in quelli fatti nei Paesi islamici, ma non solo, penso all’America Latina – che gli Usa sono generalmente ammirati ma anche disprezzati, se non francamente odiati. Durante gli anni difficili dell’amministrazione Bush, questo odio ha toccato vette difficilmente ipotizzabili in precedenza.

Ricordo una visita a Baghdad nell’aprile 2003, appena finita la guerra d’Iraq. Nell’incontro con mons. Warduni intuii come la guerra avrebbe scavato il solco della divisione in modo impensabile. Ricordo pure una visita al Cairo. In un’intervista, lo sceicco di Al Azhar Tantawi, era il 2005, mi disse affranto: «Non so proprio come fare per evitare che gli egiziani e i musulmani in genere possano arrivare non odiare gli Usa e Israele. La presidenza Usa attuale sta distruggendo la nostra pazienza».


Eppure oggi qualcosa cambia. Quest’estate in Uzbekistan il gran muftì di Taskent mi ha dichiarato: «Con Obama si può parlare, non è più un anti-musulmano». E, al seguito del papa, nel suo viaggio in Terra Santa, ho potuto parlare con il prof. Abu Sway, già ministro in uno dei tanti governi palestinesi, vicino ad Hamas: «Ci costringono a condannare Obama, ma ti assicuro che c’è molta speranza nella sua persona per risolvere il problema israelo-palestinese».

In questo senso mi ha particolarmente interessato, ovviamente, il capitolo del libro di Alessandro Gisotti dedicato al rapporto di Obama con i musulmani – “Da Pennsylvania Avenue ad Al Azhar” s’intitola –, ben documentato e oggettivamente chiaro. Il discorso del 4 giugno 2009 al Cairo è stato il segno di un cambiamento portato dal 44° presidente Usa. Un segnale recepito da chi di dovere. E mi sono chiesto: perché il Dio di Bush allontanava gli Usa dai musulmani e quello di Obama invece li avvicina? La risposta sta forse nella genealogia di Obama. Soprattutto in essa. Ma sta anche e soprattutto nella sua cultura, in quella elaborata tra ateismo, Islam, cristianesimo evangelico e radicalità sociale.

Poco prima di questo importante libro di Alessandro Gisotti, il valdese Giorgio Bouchard ha dato alle stampe, per la Claudiana, un libro simile e diversissimo: La fede di Baraci Obama. Quando la religione non è oppio. Da prospettive assai diverse, ma comunque entrambi da cristiani e da credenti, concordano nel sottolineare la fede «comunque vera» del presidente Usa. Bouchard riporta una citazione di Obama che mi piace leggere: «Non ho soltanto fatto dei discorsi, ho agito di conseguenza» (p. 47). Bouchard parla così di un «realismo cristiano» (p. 35). Gisotti, invece, non giunge a plaudire (o denigrare) della sorta Obama, ma guarda a lui con un grande interesse, da studioso cristiano: più distaccato e oggettivo di Bouchard, Alessandro Gisotti offre un documento, lasciando poi al lettore il compito di farsi la sua opinione, in particolare per quanto riguarda le ancora difficili relazioni col mondo cattolico statunitense, meno con la realpolitik del Vaticano.

In particolare mi sembra importante sottolineare come Gisotti abbia evitato di cadere nel tranello di giudicare Obama solo col metro del “valore non negoziabile” dell’aborto o dell’eutanasia. I “valori non negoziabili” della Chiesa non sono solo questi, invertendo tutto il campo della vita dell’uomo, non solo l’inizio e la fine.

Insomma, dobbiamo ringraziare Alessandro Gisotti per averci portato per mano, con chiara lucidità e ampia documentazione, alla scoperta di un aspetto non sempre sottolineato dai nostri media, come spesso accade troppo provinciali. Un tema che certa intellighenzia italiana ed europea considera di scarsissimo interesse, ma che in realtà è forse la chiave di lettura principale per capire la presidenza Obama nel suo complesso. E tutte le presidenze statunitensi da Lincoln in qua. Abbiamo così capito un po’ di più il personaggio Obama che, come dicevo, certamente rientra a fatica negli stereotipi destra/sinistra, conservatore/progressista, bianco/nero. È un presidente che certamente può aprire una nuova stagione della politica statunitense e mondiale.

martedì 2 marzo 2010

Dio e Obama


Domani, mercoledì 3 marzo, sono stato invitato a dare il mio contributo per la presentazione del libro di Alessandro Gisotti "Dio e Obama", un'acuta analisi del rapporto tra il presidente statunitense e la religione. Siete tutti invitati, care amiche e cari amici, alla libreria Ave, in via della Conciliazione 12, a Roma, alle 17.30.


lunedì 1 marzo 2010

Per ricordare il Cile martoriato dal terremoto


L'incredibile devastazione provocata dal terremoto che ha colpito la regione andina mi ha fatto tornare alla visita a Santiago Sud (dicembre 2008), in un quartiere di povertà della capitale. Di danni ce ne sono stati non pochi anche lì, tra gente dignitosa.

Quanto ho sentito e capito in questi giorni a proposito dell’iniquità del sistema politico e sociale del Cile lo costato, almeno un po’, in una visita che faccio ad alcune opere sociali. Mi accompagna un giovane studioso di comunicazione ed esperto informatico, Rodrigo Garcia, che svolge anch’egli diversi lavori, tutti al servizio della diocesi di Santiago. È un entusiasta, un catartico, una persona che crede che il meglio finisca sempre per accadere.

Il primo progetto si trova a Lo espejo, lo specchio, un sobborgo nella periferia meridionale della capitale, che ospita il grande mercato all’ingrosso del pesce della capitale (odori compresi!), cui si giunge dopo un’ora di macchina dal centro, e dopo essere passati attraverso abitati via via degradanti come ricchezza, come manutenzione, come bellezza. I grattacieli lasciano lo spazio al palazzo, il palazzo alla casa, la casa alla catapecchia, la catapecchia alla baracca. E alla polvere onnipresente.

Il progetto vuole portare i bambini del barrio a usare il computer e Internet. Per questo nella parrocchia – in realtà una cappella di legno dipinta di blu e immersa in un contesto urbano degradato, a metà industriale e a metà abitativo – è stata installata una antenna che permette di connettersi a Internet, seppur a velocità ridotta, nel raggio di un paio di chilometri. I bambini sono in vacanza, e quindi si presentano solo tre donne e un giovane uomo, che mi spiegano sommariamente il progetto. Poi mi fanno visitare la sala dei computer: sono 15, diligentemente ricoperti di plastica nera, per proteggerli dalla polvere che s’intrufola dappertutto in questa periferia desolata di Santiago.

Il servizio, gratuiti per i bambini, è a pagamento per gli adulti, 100 pesos all’ora, circa 15 centesimi, che qui sono comunque una somma non indifferente. Gli insegnanti sono tutti studenti universitari volontari, dai 22 ai 17 anni. Il progetto cerca di favorire anche la crescita di “leader di comunità”, che possano in qualche modo prendere in mano lo sviluppo del loro quartiere, e non solo della loro parrocchia. E si cerca, ovviamente, di non dimenticare minimamente le famiglie dei bambini, con programmi espressamente dedicati a loro. Ma non mi è dato di verificare di persona la bontà del progetto. Posso solo dire che le persone che mi accolgono paiono motivate.

E sono sempre loro che mi portano a visitare un centro per il recupero di tossicomani, promosso e gestito da una signora sulla sessantina che aveva perso un figlio, assassinato nel quartiere, e che in sua memoria ha deciso di mettersi al servizio dei più deboli della comunità. Non posso capire che metodo pedagogico usino – mi sembra estremamente rozzo –, né se la gente riesca poi a riabilitarsi. C’è una forte frammistione con la sinistra politica, tanto che il centro si chiama “Gesù di Nazareth-Resistencia”.

Passiamo poi, con mezz’ora d’auto, alla visita di un secondo progetto finanziato dalla Porticus, a San Miguel, un barrio certamente meno misero del precedente, e tuttavia assai povero. Si alternano commerci e abitazioni, alcuni mantenuti dignitosamente, altri lamentevolmente in stato di abbandono o quasi. Qui la fondazione ha finanziato l’apprendimento di informatica da parte di alcune madri di famiglia che hanno poi aperto un Internet Point che funziona egregiamente. E contemporaneamente loro stesse si sono trasformate in insegnanti di informatica per le donne del quartiere, ma anche per chiunque voglia istruirsi nel campo.

Sono cattoliche, Maritza e Rosita, e ci tengono a dirlo. Hanno una buona comunicativa, una simpatia debordante e una competenza certamente crescente. La pulizia del locale è perfetta, e le ragazze che entrano per connettersi alla Rete paiono conformarsi allo stile del locale. «Eravamo molto emozionate all’inizio – mi spiegano –, perché d’improvviso ci siamo rese conto che potevamo essere protagoniste della nostra vita, non solo delle donnette di casa obbligate a tirar su i figli e a far da mangiare al marito senza nessuna prospettiva migliore. Abbiamo potuto addirittura mettere su la nostra piccola azienda e contribuire così ai bisogni familiari. Eravamo così prese, all’inizio, che durante le lezioni del sabato ci dimenticavamo persino di fare la spesa!

Non era facile sottrarre del tempo alle normali attività domestiche, resistendo tra l’altro alle proteste dei nostri mariti, sorpresi dalle nostre energie e dalla nostra determinazione». C’era una clausola nel progetto: che le donne diventassero a loro volta insegnanti. Cosa che è puntualmente avvenuta. «Molti giovani vengono qui in periodo scolastico per le loro ricerche, e non di rado siamo noi ad aiutarli, ad indirizzarli verso la giusta direzione. Alcuni di loro hanno dovuto e devono ancora resistere alle resistenze delle madri, che vedono nell’informatica qualcosa che sottrae loro i loro figli…

Fatale e naturale è collaborare ai progetti di solidarietà della parrocchia: attraverso questo Inernet Point, in effetti veniamo a conoscenza di non pochi casi umani anche gravi, per cui è naturale per noi rendere loro visita e capire come possiamo aiutarli, sia come parrocchia che come azienda. Con questo progetto aumenta nelle donne l’autostima, il coraggio, al qualità della vita e anche il loro lato spirituale. Un altro modo di entrare in contatto con gli adulti è attraverso i figli ai quali insegniamo l’informatica, o che l’apprendono a scuola: sono loro a diventare maestri dei genitori e a mostrare loro un mondo che nemmeno sospettavano che esistesse, attraverso Internet». Queste due donne mi hanno conquistato. Mi hanno preso il cuore.