giovedì 24 febbraio 2011

Gli asinelli di Gaza


Viaggio in Terra Santa/9
Nella Striscia, una prigione a cielo aperto, torna un mezzo di locomozione d'altri tempi.


Una presenza ormai usuale a Gaza e in tutta la Striscia è quella degli asini e dei muli. Ce ne sono ovunque, è l’unico sistema di locazione il cui prezzo sale giorno dopo giorno. In alcune vie del centro di Gaza City il loro transito è stato addirittura vietato, per non intralciare il traffico, peraltro mai intenso di questi tempi. Le auto sono ridotte in malo modo, sgangherate è dire poco. È raro vedere una macchina con il parabrezza integro: quello del nostro taxi ha tre fori da pallottola… La benzina che viene dall’Egitto è a buon mercato, ma è cattiva; quella israeliana è carissima, più che in Italia, anche se la sua qualità è buona.

Le attività nella Striscia sono assai precarie e limitate, e si sorreggono solo sulle merci in arrivo dai tunnel verso l’Egitto, a Rafah e dintorni. Le botteghe appaiono sfaccendate, immancabilmente c’è gente seduta fuori dalla serranda in attesa di ipotetici clienti che hanno poco o nulla da spendere.

Nel city tour ci avviciniamo alla frontiera con Israele, a sud di Erez. Il quartiere che attraversiamo, uno dei più colpiti dalla offensiva israeliana del 2008, è ridotto male. Non c’è casa che non conservi tracce dell’assalto: i rosari degli impatti delle pallottole fanno ancora impressione. Al termine del quartiere, già in aperta campagna – una terra verde e fertile, ma trascurata come poche –, c’è quello che chiamano il “cimitero dei martiri”, in realtà uno dei cimiteri di Gaza nel quale sono stati sepolti molti dei mille morti dell’attacco israeliano. Poi fabbriche e depositi, greggi e asinelli, trascuratezza e pressapochismo. Mucchi di ferrovecchio e di macerie, silos di cementifici che trovano la loro materia prima nella distruzione: «Viviamo solo con lo spirito di Dio», mi dice i tassista, cercando di superare un avvallamento del terreno riempito d’acqua piovana, ieri mattina caduta assai copiosamente.

La desolazione dei campi verso Erez fa spavento: mucchi di detriti o di terra, alberi lasciati senza cura, coltivazioni sommarie… carretti trascinati da asini e muli, donne piegate su qualche mucchietto di sterpaglie, case mai terminate, in ogni caso mai intonacate. Poi il lungo tunnel dell'umiliazione. La polvere è ovunque, la penna che scivola sulle pagine del mio taccuino scricchiola.

lunedì 21 febbraio 2011

Hebron, alla Tomba dei patriarchi


Viaggio in Terra Santa/8
Dove l'odio s'è materializzato. La tomba divisa tra musulmani ed ebrei.

La Tomba dei patriarchi in realtà è un complesso edificio che contiene, oltre alla moschea e alla sinagoga, anche una chiesa e la caverna Macpela – luogo che la tradizione biblica ritiene sia stata comprata da Abramo agli ittiti per seppellirvi la moglie Sara, e poi lui stesso vi fu sepolto, assieme a Isacco e Giacobbe con le loro mogli –, con architetture miste di età erodiana, crociata e islamica.

Le tombe di Abramo, Isacco, Giacobbe, Rebecca e altri patriarchi ancora di per sé non sono particolarmente attraenti. Almeno l’interno dell’edificio, spesso piegato nella sua austera bellezza alle esigenze votive degli uni e degli altri, non appare straordinario, mentre l’esterno è possente e nel contempo elegante. Ma i check point lo deturpano, nel silenzio più totale del classico vociare dei turisti, che non ci sono più dalla strage compiuta nel 1994 da un colono israelita proprio all'entrata della tomba. Sono il solo visitatore che non sia musulmano-palestinese, nella sezione a moschea, o ebreo-israeliano, nella sezione a sinagoga.

In particolare mi colpisce la depressione che abita i musulmani nella moschea, con le loro preghiere strascicate e doloranti, direi sanguinolente, e dall’altra parte la frenesia di ebrei che paiono tutti estremamente ortodossi, al limite del fanatismo. Nella sinagoga c’è un grande afflusso di soldati, giovani reclute mi sembrano, tutti estremamente compiti e assorti nella preghiera ondeggiante e sincopata tipica degli ebrei. Si comportano come se non ci fossi, mi danno l’impressione di persone talmente concentrate su sé stesse da non accorgersi che il mondo è colorato. La paura gioca brutti scherzi.

Nel cammino a ritroso lungo l’arteria commerciale che conduce alla Tomba, tutti i commercianti palestinesi, nessuno escluso, e un numero imprecisato di mocciosetti che vogliono vendermi dei braccialetti coi colori della bandiera palestinese, mi invitano a comprar qualcosa. Anche il mercante di legumi secchi, anche il fabbro ferraio, anche il calzolaio. E vorrei offrir loro qualcosa, ma sarebbe fatica infinita, una goccia nel mare. Li prendo con me, nel mio cuore, li accetto nella loro disillusione, così come porto con me quei soldatini di piombo. Piombo di paura.

domenica 20 febbraio 2011

I marmi esplodono luce


Viaggio in Terra Santa/7

Visitare la spianata delle mosche è un'esperienza antropologica, teologica e anche politica

Ero già stato alla spianata delle moschee, o del Tempio, dipende dai punti di vista. Avevo già colto la straordinaria potenza evocativa, la bellezza estetica, la funambolica presenza araba, l’orgoglio inconfessato e inconfessabile dei musulmani palestinesi che occupano ancora quanto di più caro c’è nell’animo religioso e etnico degli ebrei. Non per niente qui ebbe inizio la seconda Intifada, allorché Ariel Sharon - il 28 settembre del 2000 - osò portare centinaia di poliziotti antisommossa israeliani nella spianata, dicendo che finalmente gli ebrei si riprendevano il luogo di culto a loro più caro, che apparteneva solo a loro e a nessun altro.

Avevo già visitato il Duomo della roccia e la Moschea al-Aqsa, ma non avevo potuto fotografarne gli interni. E non avevo mai avuto una guida come Muhammad, un sessantenne entusiasta che potrebbe essere un imam o un muftì, tanta è la passione che ci mette e la competenza che sciorina nel corso della lunga visita: cosa inusuale, cita le Scritture cristiane con esattezza, senza l’approssimazione tipica di tanti musulmani. Con Muhammad capisco ancora una volta che con gli arabi tutto è possibile (anche fotografare, anche visitare i luoghi più sacri), a condizione che il rapporto, la relazione sia tale nella sincerità e nel rispetto da generare fiducia e aprire tutte le porte. Questa è la chiave che, ne sono certo, in questa Terra Santa non è stata ancora provata. C’è sospetto invece di rispetto, prolifera il sospetto invece di lasciar spazio alla fiducia.

I marmi esplodono luce, le maioliche azzurre sposano il cielo, la cupola d’oro invita alla riconciliazione nel segno d’Abramo, fa l’unanimità. Donne, uomini, vecchi e bambini sono uniti dalla preghiera e dalla sensazione di liberazione che ogni musulmano prova dinanzi a Dio nella preghiera al Tempio. Eppure nei loro sguardi c’è tutto tranne che il sentimento della pace, c’è frustrazione e talvolta odio. Iddio sa. Un vecchio legge il Corano sui tappeti rossi e bianchi della moschea di al-Aqsa. Viene da Ramallah, ma ormai abita a Gerusalemme Est, perché suo figlio ha trovato lavoro come idraulico. Nelle sue poche parole in inglese che riesce a dire c’è tutto un popolo: «Allah mi ha fatto nascere, Allah mi ha portato alla città santa, Allah mi fa sperimentare l’impotenza, Allah mi prenderà con sé quanto prima». Ha lo sguardo umido. Mi abbraccia.

sabato 19 febbraio 2011

La festa


Viaggio in Terra Santa/6 La Città santa è anche un luogo di festa, per tutti, anche se in momenti diversi. Non c'è una sola festa veramente comune a tutti gli abitanti.

S’avvicina l’ora dello sabbath, al bar i camerieri sistemano i tavolini, i bottegai chiudono i battenti, i giovani studenti ortodossi trascinano verso casa i loro trolley di ritorno dall’università. La tradizione prima di tutto. E la città si para delle frenesie che precedono la calma della preghiera. I musulmani, invece, hanno appena finito i loro riti, loro le botteghe non le avevano mai aperte, si godono la soddisfazione della festa onorata. Solo i cristiani paiono impegnati nelle loro tradizionali occupazioni, come se niente fosse, in attesa della domenica. Mentre per loro dovrebbe sempre essere domenica, secondo l’insegnamento del Maestro. Ma raramente lo è, altrimenti il mondo sarebbe tutto una festa.

Ci sono luoghi del mondo che non potrebbero esistere senza essere degli incroci caotici, degli affastellamenti umani, delle paradossali e contraddittorie collezioni di sentimenti. Gerusalemme è tale. Guai a chi cercasse di renderla uniforme: sarebbe maledetto a vita.

Il muro di Betlemme è in qualche modo uguale a quello del Tempio, a quello di Berlino, alla barriera metallica tra Texas e Messico. È uguale al Vallo di Adriano e alla Grande muraglia cinese. Tutti i muri alla fine sono uguali. Anche se ci si adopera per sottolinearne le differenze. I muri sono simulacri della forza. I muri sono confessioni d’impotenza. I muri sono illusioni d’identità.

Poco spesso a Gerusalemme si parla d’amore. Piuttosto si cercano vocaboli legati alla divinità, alla lotta tra bene e male, all’ascesa e all’ascetica. Eppure nella Gerusalemme celeste tutto sarà amore.

venerdì 18 febbraio 2011

Haifa, il golfo della tolleranza


Viaggio in Terra Santa/5
Il porto, il Monte Carmelo, la convivenza possibile.

Una sposa in bianco con strascico e il suo sposo tutto candido, pure lui. Sono loro che mi accolgono ai piedi dei maestosi giardini della sede centrale dei baha’i, che hanno visto la loro nascita in Iran nella seconda metà del XIX secolo, dall’opera di Baha’h’ulla (qui sepolto) che si diceva ispirato dal maestro Bab. La perfezione realizzata da architetti e giardinieri trova il suo compimento nella bellezza degli sposi, nell’amore che li lega, che traspare dai loro volti raggianti. La religione è proprio amore che irraggia. Null’altro, in fondo. Che poi il giudizio sulla religione baha’i sia sospeso, nel senso che il sincretismo di cui si fa propugnatore – le loro scritture sono debitrici alla Torah, al Vangelo, al Corano – lascia qualche perplessità, la bellezza della natura modellata alla bellezza, più che i santuari e i templi simil-greci che ospitano questo centro propulsore della religione, colpisce, mostra qualche brano della infinita fantasia di Dio. Salgo gradini di marmo bianco di Carrara, scorgo prospettive perfette di scalinate che portano verso il Cielo e verso la Terra.

Non si vedono soldati né polizia per le vie di Haifa. Soprattutto, non c’è la cappa di sofferenza e di sospetto che aleggia su Gerusalemme. La città, lo sappiamo, è quella in territorio israeliano dove la convivenza delle tre religioni di Libro è meno difficile, non ci sono quartieri-ghetto, ma la convivenza è qualcosa di normale. Anche i negozi si alternano, i ristorantini di cibo kebab o kosher o occidentale… È particolarmente incoraggianti vedere sciamare bambini delle tre religioni all’uscita da scuola. Non è un caso che ad Haifa, durante la recente crisi di Gaza, si sia svolta la sola riunione che ha unito cristiani, ebrei e musulmani per pregare per la pace. Non è un caso.

Il cielo azzurro e il mare blu proteggono come i due palmi di una mano a conchiglia il candido abitato di Haifa. Vista dal Monte Carmelo, vista dall’alto. Sì, perché Haifa è luogo di benedizione, di quella amicizia divina che contagia gli uomini se gli uomini si lasciano contagiare. Dall’alto Haifa è spettacolo di eccezione, ma anche dal basso è spettacolo di ardire e di creazione. Non per niente il monoteismo è nato su queste alture, Eliah qui ha intuito la unicità del Dio, la sua infinita e misericordiosa bellezza e potenza. La grotta di Eliah, chissà se è quella giusta. Ce ne sono centinaia sul Monte Carmelo, chissà se questa è quella giusta. Ma poco importa. Importa che qui il Signore si sia manifestato nelle parole e nell’azione di Eliah per testimoniare al mondo la sua unicità.

Pranzo sulle alture del Monte Carmelo, su una terrazza con una vista mozzafiato sul Golfo di Haifa, lassù fino al Libano, paesaggio di pace ma senza pace. Nel porto una nave greca è pronta a salpare verso Cipro, Limassol. Il sole rende la giornata come una primizia d’estate, o una primavera matura.

giovedì 17 febbraio 2011

I due caffè


Viaggio in Terra Santa/4
Gerusalemme è una città dove il paradosso è di casa.

Ho preso due caffè. Il primo alla Porta di Damasco, in un bugigattolo senza imposte, esposto al freddo e al vento, discretamente sporco, seduto ad un tavolino di plastica macchiato e sbilenco. Tre ragazzi mi si sono avvicinati cercando di indovinare la mia nazionalità, per poi sciorinare con orgoglio le loro conoscenze di italiano. Solo dopo cinque minuti sono riuscito ad ordinare il mio caffè, che mi è stato servito altri cinque minuti più tardi, accompagnato da pasticcini mielosi che non avevo ordinato. Il caffè, alla turca, profumava di cardamomo. L’ho sorbito attorniato dai tre ragazzi, interessatissimi a tutto quanto mi riguardava. Ci siamo salutati con gran pacche sulle spalle e promesse di nuovi incontri.
Il secondo caffè l’ho sorbito in un elegantissimo locale della galleria commerciale costruita sotto la Porta di Jaffa. Tutto pulitissimo, inservienti impeccabili, ogni azione veniva controllata dai contatori digitali. Un espresso buono ma ordinariamente europeo, col cioccolatino di ordinanza e un biscottino secco alle nocciole francamente stopposo. Mi sono seduto a un tavolino sulla terrazza scaldata dalle fiamme del gas. C’era un silenzio insolito, mentre una sottile musica jazzy si spandeva nell’aria, come un ansiolitico. Mi sono portato il caffè sul vassoio d’ordinanza, servitomi dopo un minuto tondo tondo, cominciando a scrivere queste note. Uscendo ho salutato il cameriere, mi ha risposto con un cenno delle labbra.
Come fanno a coabitare nella stessa città due popoli dai rituali così diversi? Solo la presenza dello straniero, dell’avventore in questo caso, può tenerli assieme. Serve il terzo incomodo.

Il bacio di Gerusalemme: vento, oro e miele.

Quanti soldi arrivano qui in Israele! La solidarietà ebraica è straordinaria. Mi dice un rabbi che qui è più importante la qualità dei progetti che la loro quantificazione monetaria: i soldi, se il progetto è buono, arrivano comunque. Quel che si dice “potenza dell’idea”: Israele è comunque un’idea straordinaria.

Vento del deserto, che sbatte contro palpebre e denti. Che leviga la pelle come la pietra. A Gerusalemme ci sono volti che paiono di granito e pietre che sembrano velluto.

Gli ebrei li riconosci quasi sempre. Talvolta immediatamente, altre volte dopo qualche istante. La cultura ebraica raggiunge l’intimo dell’uomo e risale fin sulla pelle e sulla psiche, dettando comportamenti e atteggiamenti. Essere ebrei non è né una vocazione né una condanna: è semplicemente un’ontologia che sposa una fenomenologia.

Qui a Gerusalemme nulla è scontato, ma nello stesso tempo tutto vive di ritualità ripetute all’infinito e mai modificate nei secoli. Ripeterle è il solo modo per diventarne cittadini. Quando si deroga dalle ritualità, delle due l’una: o si viene espulsi naturalmente dalla poliedrica comunità gerosolimitana, oppure si diventa una nuova tradizione. (Questo secondo caso è piuttosto raro).

L’angoscia del kitsch arriva ovunque, e soppianta facilmente i tradizionali canoni di bellezza. Perché il kitsch grida, mentre la tradizione sussurra; il primo impone, la seconda evoca; il kitsch gioca sulla quantità e la rapidità, la tradizione sulla qualità e la sicurezza. Anche a Gerusalemme il kitsch riesce ad aver ragione dei millenni (per il momento).

Entro per la Porta di Damasco e scorgo un volto inusuale. Un cinese. Una volta era un’eccezione incontrarne uno cinese nelle nostre contrade. Ora non più. I cinesi sono ovunque, e ancor più il made in China. Ma paiono ancora assolutamente stranieri, ovunque. Mentre gli europei in qualche modo all’estero sanno inculturarsi, mimetizzarsi nelle pieghe delle città, immedesimarsi nei luoghi visitati. Ma non durerà a lungo: i cinesi sapranno trovare la loro patria nel mondo..

mercoledì 16 febbraio 2011

Osservando la città dall'alto


Viaggio in Terra Santa/3
Pietre e antenne, un connubio di difficile accettazione.

Dalla terrazza dell’arcivescovado maronita di Terra Santa, non lontano dalla Torre di David, si gode un panorama mozzafiato sulla città santa. Vi sono salito, rimanendo letteralmente a bocca aperta nell’osservare per l’ennesima volta tante cupole, tanti campanili, tanti minareti, tante sinagoghe. E tante paraboliche, tanti condizionatori, tanti ripetitori di telefonini. I paesaggi urbani stanno cambiando a causa della tecnologia. Che cosa hanno a che fare le tombe bianche del Monte degli ulivi con le antenne satellitari? Che cosa l’oro del Duomo della roccia con le steli al dio telefonino? Nulla. Eppure queste sono oggi le nostre città: alla tecnologia digitale non resistono nemmeno le pietre bianche di Gerusalemme che ne hanno viste di cotte e di crude in trenta secoli di storia! L’importante è non pensare che le pietre sono solo… supporto alle antenne!

Dalla finestra della mia stanza, per tre ore ho potuto seguire in diretta un matrimonio armeno. L’audio della festa. Dapprima credevo che fosse una nenia ebraica, anche se il quartiere dove sono alloggiato, a due passi dalla Porta di Damasco, è decisamente arabo. Poi ho creduto, invece, che fossero preghiere musulmane, perché qualcuno ha cominciato un sermone. Poi, invece, mi sono dovuto ricredere, perché lo snocciolarsi della lingua non era né arabo né ebraico. Si trattava di un matrimonio armeno, visto che non lontano dalla mia residenza si trova in effetti il patriarcato armeno-cattolico, uno dei tanti della città. Quel che mi ha convinto non è stata tanto la lingua, che pur mi sembrava non comune, quanto il ritmo delle musiche, così caratteristiche e uniche, né occidentali né orientali, nostalgiche delle dure montagne armene e nel contempo punteggiate di dolcezze straordinariamente verdi.

martedì 15 febbraio 2011

Il vuoto di Gerusalemme


Viaggio in Terra Santa/2. Passeggiando per la città santa, visitando il Santo Sepolcro, scoprendo la "mia" città.

Passeggiata all’alba verso il Santo Sepolcro. Il vuoto, i passi risuonano sui gradini del selciato di pietra nelle gallerie commerciali dai negozietti ancora chiusi dalle imposte di ferro scrostate. Degna propedeutica al Calvario. Il folclore dei vestimenta, i gesti che paiono dettati dalla superstizione più che dalla fede, la frenesia del dolore che vuol toccare il luogo stesso del dolore.
Emptiness, le vide, kenosis, vacuum. Si vuol toccare il dolore e si trova solo un buco, quello della croce. Anzi, non ce n’è nemmeno uno solo, ce ne sono tanti dove la lignea sospensione del Cristo può essere infilata. Il vuoto.
E nemmeno il silenzio è fedele all’appuntamento atteso. Nel caos musicale, linguistico ed egoistico che s’accalca al Santo Sepolcro. Solo l’interiorizzazione del dolore crea il silenzio nella persona, perché il Grido possa ancora farsi udire.

Quando ci si perde nelle viuzze della città vecchia di Gerusalemme, scatta un meccanismo virtuoso: non si cerca subito di capire dove si è finiti, ma si gode degli scorci che capitano sotto gli occhi, fino a quando ci si ritrova orientati. Naturalmente. Così la città diventa in modo impercettibile ma inesorabile la “tua” città. Tutti siamo cittadini della città santa per eccellenza.
A Gerusalemme i piedi fanno male. Quasi sempre, quasi senza soluzione di continuità. Non solo per il duro selciato delle pietre mai regolari, ma anche e soprattutto perché a Gerusalemme non ci si ferma mai. Ogni angolo chiede che un altro angolo venga raggiunto, ogni luogo di interesse non diventa mai fine a sé stesso, ma abbisogna di essere inserito nel contesto. Che va inesorabilmente conosciuto. A piedi, ovviamente.

domenica 13 febbraio 2011

Arrivando a Gerusalemme


Viaggio in Terra Santa/1. Pensieri sparsi.

Di nuovo in Terra Santa, e di nuovo – è la sesta volta che ci vengo, m’ha confermato la polizia di frontiera – il mistero s’accende. Sarà che la frequentazione scritturistica non cessa mai, sarà che l’immaginario collettivo associa le due scritture, araba ed ebraica, in perpetuo conflitto. Sarà come sarà, il mistero riemerge dalle profondità della memoria e dalle pieghe del pensiero. E i sentimenti s’aggrovigliano, in districabili da cuore e mente, districabili solo dall’anima. Dove Giobbe e Abramo, il Battista e il Cristo si ergono come tenebra luminosa.


Il fascino delle terre spoglie che lasciano emergere le vene della roccia e il sangue dei banchi sassosi.

Muri d’ogni consistenza, colore e forma. Specialisti in materia sono gli israeliani. Olivi e filo spinato, palmizi e muri.

martedì 8 febbraio 2011

Come a Preah Vihear

Al confine tra Thailandia e Cambogia gli eserciti dei due stati si combattono per un fazzoletto di terra, attorno ad un tempio khmer. Non siamo lontani dall'immenso complesso templare di Angkor. Visita ad uno di essi, Bakong, simile a quello conteso (dicembre 2009).

È situato un po’ in disparte rispetto all’Angkor Wat e all’Angkor Thom, a est della città di Siem Reap, in Cambogia: Bakong è il più antico “tempio montagna” dell’intero complesso di Angkor, data al IX secolo, quando salì al trono Indravarman I. È quindi un tempio in origine indù, dedicato a Shiva, di cui è scritto che il Lingam fu deportato in loco nell’881. Sono le otto e mezzo di mattina ma fa già un caldo quasi insopportabile. Si penetra per qualche chilometro in un abitato sfilacciato lungo una strada rossa di polvere e di pietra. Le palafitte, tipiche abitazioni della regione, già a quest’ora paiono albergare il riposo degli abitanti che non sanno cosa fare. Al termine della strada, appare un rilievo votivo, i cosiddetti templi-montagna a cinque torri, sul modello dell’Angkor Wat stesso. Una musica ritmata ma leggera, quasi una nenia di campanelle e pezzi di legno battuti, arriva alle mie orecchie mentre percorro il ponte di accesso al tempio, che una volta sicuramente scavalcava un ampio fossato che circondava l’intero sito.

Un giovanissimo monaco vestito di zafferano avanza, mi guarda, mi sorride, gioca colle mie fattezze e il mio abbigliamento. Pare interessarlo più la mia andatura che il mio equipaggiamento fotografico. Meno male. Salgo i cinque gradoni della piramide, cerco di capire come mai gli elefantini posti ai vertici di ogni terrazza siano rimasti qausi intatti, mentre il resto del tempio pare aver subito i danni irreparabili del tempo. Il monaco me ne spiega l’arcano: la pietra è diversa, viene da lontano, dalle montagne thai, che allora erano khmer. Scendo, seguo il fiume della musica che dall’alto si fa più preciso, più scandito, più umano. E mi ritrovo, ai piedi della piramide, sotto un tendone dove si sta svolgendo una cerimonia buddhista, che riunisce oltre a tre monaci anche un centinaio di monache biancovestite, rasate, commoventi nelle loro tuniche candide e stropicciate. Si lasciano fotografare. Una di loro mi si avvicina, mi prende per la mano con la sua, anziana e rinsecchita. Mi accompagna verso una specie di grumo umano, che capisco essere una dozzina di donne intente a cucinare qualcosa, il profumo è invitante. Prende da una graticola uno spiedino e me lo porge, come se mi volesse nutrire per raggiungere il nirvana. La carne è piacevole, dolciastra e speziata. Serpente.