mercoledì 29 luglio 2015

Nairobi National Park, il safari urbano

Viaggio in Tanzania e Kenya/6 - La sorpresa di un ambiente naturale straordinario in piena città. Tra l'aeroporto e gli slum.

Una delle sorprese più inattese di questa mia breve tournée kenyota, è la visita al Nairobi National Park, 117 chilometri quadrati di terreno tra l'aeroporto internazionale e lo slum di Kibera, che anticipa il centro della città, che coi suoi grattacieli crea un costante orizzonte insolito per un parco nazionale: uno skyline di insolita forza quando nel mirino appare un rinoceronte bianco sullo sfondo dei grattacieli.
È qui che partecipo al primo safari della mia vita. Mi hanno sempre interessato piuttosto gli umani, ma avverto che qui in Africa non posso esimermi dal conoscere da vicino la bellezza stucchevole della natura, con le sue icone e le sue riproduzioni. A parte il prezzo inquietante (alla fine si pagano 100 dollari a testa!), il breve safari, che durerà in tutto quattro ore, colazione compresa in un delizioso country club con tanto di prato all'inglese su cui scorrazzano dei plaicidi cinghiali e qualche timida gazzella, si rivela per me una vera scoperta, come se per 58 anni avessi vissuto all'oscuro dell'esistenza di una natura che è madre e terra madre e terra matrigna, nel mistero dell'alternanza tra vita e morte, pace e violenza. Capisco di più gli uomini e le donne e le loro relazioni umane osservando gli animali allo stato naturale.
 

Mi reco nel parco grazie a un'amica kenyota, una vera forza della natura, moglie di un deputato, promotrice di innumerevoli attività di solidarietà. Con la sua fuoristrada, accompagnati da una guida corpulenta al punto da sembrare lui stesso un partecipante della naturalità dell'ambiente (è un complimento sincero, non uno scherzo!), ci avviamo partendo, come d'uopo, da un sacrario insolito, il luogo dove nel ... fu bruciato uno stock di zanne d'avorio sequestrato ai trafficanti illegali, che avevano ammazzato in quell'occasione centinaia di elefanti per orbarli delle zanne d'avorio tanto prezioso. Fu un tournant, una vera svolta nella politica naturalistica del Kenya, che avviò così una strategia di protezione dei grandi parchi nazionali, capendo che la preservazione dell'integrità della natura era nel contempo il maggior investimento finanziario che si potesse immaginare per il Paese est-africano.
 

Inizia poi la lunga peregrinazione nel parco, alla fine una quarantina di chilometri su piste in terra battuta. Se l'inizio è timido, con qualche bufalo e qualche gazzella che pascolano lontano negli spazi erbosi della savana, che la nostra guiida riesce a vedere ma che noi a malapena vediamo coi nostri teleobiettivi, come piccole macchie nere. Poi, addentradoci nelle piege del parco, nelle valli e negli altipiani dai nomi esotici (...), gli incontri con gli animali aumentano di frequenza e d'intensità, finché ci ritroviamo ad osservare ippopotami, rinoceronti bianchi e neri, gazzelle e zebre in quantità, mandrie di bufali, vari gruppi di simpaticissime giraffe, cervi e caprioli, altri animali cui non so nemmeno dare un nome. Solo i 140 leoni e leonesse del parco si nascondono, ma non è l'ora giusta e nemmeno la giornata. Ma non fa nulla, li vedremo poi nelle gabbie all'entrata...
 

Confesso di sentirmi particolarmente felice per essere almeno un po' entrato in comunione con la Natura, con queste stupende giraffe che sono opere d'arte assolutamente uniche, con queste giraffe che paiono esseri arrivati dalla preistoria col solo scopo di rallegrare la nostra vista, con questo enorme rinoceronte bianco che ci attraversa la strada con una calma olimpica dapprima, poi con una corsa impetuosa che assomiglia tanto a una danza elegantissima, con questi bufali che si abbeverano in un invaso fangoso e che sollevano nuvole di polvere che paiono effetti cinematografici da milioni di dollari ma che sono invece totalmente gratis, degli avvoltoi che qui paiono addirittura meno minacciosi...
 

Mi sento più uomo dopo un tale safari urbano, che tanto urbano poi non è. Piuttosto si tratta di un safari nell'anima dell'Africa.

venerdì 24 luglio 2015

Kilimanjaro, colui che sta

Viaggio in Kenya e Tanzania/5 - Sorvolando con l'aereo la cima più alta dell'intera Africa.

Avrei voluto ma... non ne avevo il tempo, non avevo le forze fisiche necessarie, e forse non avevo nemmeno la voglia di spendere 2000 euro per foterlo violare. Il Kilimanjaro non ho potuto avvicinarlo, né tantomeno raggiungerne la cima. Qualcosa che rimane nel cuore come una mancanza, come un'occasione mancata, come un sogno rimasto tale. Non mi resta che leggere le mie guide: 5896 metri, la più alta cima del continente africano, uno tra i dieci vulcani più alti del mondo, un massiccio isolato, non parte di una catena montuosa ma espressione di sé stesso, tre cime sommitali, una calotta nevosa che ha perso l'80 per cento della sua superficie negli ultimi cinquant'anni...

Non ci pensavo più, quando ho prso l'aereo da Dar es Salaam la calda per atterrare a Nairobi la fresca. Un'ora di volo, nulla di speciale. Salvo che a un certo punto il pilota si premura di avvisare la gentile clientela che sulla sinistra dell'aeromobile apparirà tra pochi istanti lui, il sogno, il grande fratello, la «chiara coscienza divina» per tanti masai e per altre genti dell'Est dell'Africa. E mi trovo proprio dal lato giusto e la visibilità s'è d'improvviso fatta eccellente dopo mezz'ora di nubi e tappeti di cotone idrofilo sparsi sulla Tanzania. E allora osservo poco alla volta apparire la sagoma imponente del Kilimanjaro, che svetta come un'evidenza, come un'escrescenza della Terra, come un'elezione. Sta. Sale imperioso per poi verso la cima proporre un altipiano che non è tale, ma che appare tale nonostante sia costruito da tre vette principali e altre secondarie. Sì, c'era la neve una volta, ora c'è solo un residuo di nevaio che potrebbe essere un'icona del bianco Kilimanjaro che si ricordava decenni addietro. Ma intanto mi godo la vista, che se ne va, della Montagna dell'Africa.

giovedì 2 luglio 2015

Stone Town, la città di pietra

Viaggio in Kenya e Tanzania/4 - Il cuore della città di Zanzibar svela una cultura che non è solo africana.

Dopo la messa delle 6, in inglese, alla presenza di una dozzina di fedeli, usciamo per la città, dirigendoci verso la spiaggia per vicoli ancora deserti, sotto i grandi edifici arabo-coloniali che svettano sulle casette tipo suq. Una città che da subito mi affascina, questa Stone Town, ricchissima di belle sorprese, di connubi architettonici inusitati, di scorci maestosi e di vedute quasi da slum, giardini che par d'essere nell'Eden e spiagge di sabbia bianca che verrebbe voglia solo di sedersi e bere un drink contandone i granelli. Non ci sono ancora turisti, cioè bianchi, in giro per la città, hanno senza dubbio fatto bisboccia nella notte, ci sono solo indigeni, le donne con il loro hijab (ce ne sono addirittura che fanno jogging sulla spiaggia, qualche anno fa solamente sarebbe stato impossibile) e gli uomini con il loro copricapo cilindrico di chiara origine omanita. 

Ali guarda il mare, e il mare lo guarda. Avrà ottant'anni, lo sguardo è quello corto delle cataratte, ma la sua vista è di quelle che vanno lontano: «Qui stiamo bene, la natura ci asseconda, il mare ci dà il cibo, una casa ce l'hanno tutti, c'è forse un po' di povertà qua e là ma non possiamo lamentarci. Ma da qualche tempo, da quando cioè la politica ha cominciato ad occuparsi di religione, le cose non vanno più tanto bene. Ci sono le donne che si coprono troppo e ci sono gli uomini che comandano senza limitarsi, gli anziani non vengono più rispettati e i cristiani vengono considerati kafir, mentre sono i miei fratelli e le mie sorelle. I politici pensano di accaparrarsi i voti facendo i duri in materia di religione, mentre poi di Allah e dei suoi precetti non gliene importa nulla. Speriamo che la smettano di mescolare politica e religione». Abbraccio Ali, mio fratello.
 

Il porto è come tutti i porti del mondo: nei suoi dintorni si concentrano coloro che non riescono a sbarcare il lunario e che quindi cercano di offrire piccoli servizi, di spillare qualche moneta o addirittura qualche biglietto verde. Ahmed ci porta al botteghino dei traghetti per le prenotazioni. Racconta di una vita grama, non ha una casa fissa, ha tre figli ma non sa dove siano, la moglie si offre ai turisti, ma da tempo non stanno più assieme. Le tracce di umidità su molti muri non sono più tracce isolate, ma colore principale, in uno stato di abbandono che potrebbe inquietare. Un vecchio palazzo coloniale rimane in piedi perché puntellato da grossi funi metalliche ancorate in blocchi di cemento chee circondano la mole minacciosa dell'edificio.
 

Girando per le stradine della Stone Town, quasi a caso, si scoprono le ben note porte lignee intagliate di Zanzibar, il principale manufatto artistico locale. Ce ne sono di antiche e di recenti: quelle nuove di zecca non riportano più le incisioni di frasi del Corano, ma semplici decorazioni, anche qui pare che lo spirito religioso abbia qualche problema a perpetuarsi. Sono belle, a volte incantevoli, queste porte, anche se talvolta appaiono d'improvviso lungo un budello di via che pare un'anticamera dell'inferno in mezzo a brutture del tempo e a immondizie. Un vecchio imam mi offre una tazza di tè dentro un bricco di alluminio che par avere due o tre secoli. Accanto a lui delle pie donne sembrano fiamme cangianti nei loro sari che suggeriscono il fuoco, il sole, il mare, la foresta. Questa e tanto altro è Stone Town, la città di pietra che è anche Soul Town, cioè la città dell'anima.