martedì 27 agosto 2013

Nosso Senhor do Bonfim, la devozione finalizzata

Viaggio in America Latina/2 - Un santuario nei pressi di Salvador da Bahia: il trionfo della religiosità popolare locale.

Bonfim, cioè “della buona sorte” o “del buon fine”. Della preghiera. Della devozione. Dall’emozione. Il tono è già dato: qui si viene per ottenere una grazia e si crede di aver buoni diritti per chiederla. Mercanteggiamenti con la divinità? Pensatela come volete! Siamo alle porte di Salvador da Bahia, la città più brasiliana di tutte le città brasiliane, a una dozzina di chilometri dal centro storico, passata una lunga fila di hangar che una volta erano un mercato esemplare ma che ora è ridotta a una lunga teoria di relitti maleodoranti, lasciate alle spalle decine di favela più o meno decenti (o indecenti), antiche chiese in stile coloniale lasciate in rovina. Anche l’ônibus che mi porta a destinazione è ben più malandato di quelli che si dirigono verso l’altra parte della città, dove ci sono i grandi spazi commerciali e i grattacieli – o piuttosto grattacielini – di Salvador.
Arrivo sul posto che la messa delle 9 di mattina, è domenica, è già cominciata. I fedeli debordano da tutte le aperture possibili della chiesa-santuario. Delle dozzinali sedie di plastica bianca sono sparse ovunque: contrastano non poco con le coloratissime inferriate metalliche letteralmente ricoperte di striscioline votive di tutti i colori, su cui è scritto: Lembraça do Senhor de Bonfim da Bahia, ricordo del Signore del buon fine di Bahia. Al sole risplendono un po’ kitsch e un po’ strafottenti, il Signore Iddio sa fare le scelte giuste. C’è grande fervore, le mani levate al cielo sono normalità, le donne sgranano i loro rosari ben in evidenza, i bambini ne approfittano per inventare tutti i giochi del mondo. E chissà che fede e che devozione alberga nei cuori degli astanti. Chissà se stanno pensando a Gesù o ad Oxalá, alla Madonna o a Yemanjá. O, più probabilmente, stanno pensando ad entrambi.
Al momento della distribuzione dell’Eucaristia, le file di fedeli creano una confusione indescrivibile al punto da sembrare la scena di un festival di danza sacra più che un rito cattolico, ma solo agli occhi più superficiali. Contemporaneamente, altrettante file si orientano verso immagini sacre che mi sono sconosciute, vagamente inquietanti, scure. E con la comunione ha inizio quella serie di interminabili riti di conclusione in cui il prete s’infervora e si esalta, danza e balla e invita all’esaltazione della croce e della religiosità emotiva, in un continuo applauso frenetico, in un’ininterrotta selva di mani osannanti e sguardi misticheggianti. Il sudore cola a fiotti e si mescola alle gocce d’acqua benedetta che viene aspersa sulla folla in quantità industriale, tanto che le donne più intraprendenti s’inorgogliscono di mostrarsi grondanti di sudore maledetto e di acqua benedetta!
Terminato il rito nel santuario, il fervore dei fedeli si trasferisce all’esterno della chiesa – solito mercato, in cui però non si capisce chi commercia e chi s’immerge in operazioni pie –, oltre che in un locale dove sono esposti gli ex voto: protesi e cinti ernari, raccapriccianti foto dei tumori più strani e voluminosi, un’infinita serie di foto tessera, referti medici e sentenze tribunalizie, preghiere redatte a caratteri gotici e disegni infantili. Di tutto un po’, nel fervore più intenso e, credo proprio, autentico. Anche stavolta mi trovo spiazzato, nella mia fede che si tinge spesso e volentieri di razionalismo bigotto.
La chiesa è stata costruita sulla penisola Itapagipe, in posizione elevata e pittoresca, tra il 1746 e il 1754 dal capitano Rodrigues de Faria, per la grazia di essere sopravvissuto a una tempesta sull’Atlantico. Il rito più originale della tradizione candomblé si svolge il terzo giovedì di gennaio quando i fedeli della religione tradizionale, tutti vestiti in bianco, si avvicinano in processione al santuario (che ha le porte sbarrate, perché la Chiesa cattolica non approva il rito) allorché le donne si mettono a lavare con olio di gomito i gradini della chiesa con acqua profumata in onore del dio Oxalá.

domenica 4 agosto 2013

Pelourinho, dove abitano gli dèi che fanno la corte a Gesù


Viaggio in America Latina/1 - Salvador de Bahia svela le sue bellezze che lasciano col fiato sospeso. Anche se...

Salvador de Bahia, lo sanno tutti, è il Brasile più brasiliano che esista, storicamente parlando. Sì, perché certamente il prsente è meglio rappresentato da San Paolo per l’economia e da Brasilia per la politica, mentre turismo e glamour trovano il loro coronamento nella “città meravigliosa”, cioè Rio de Janeiro. Ma se si vuole trovare il vero Brasile andando indietro nei secoli per cercare la sua cultura originaria, bisogna venire a Salvador de Bahia e salire sull’ascensore Lacerda fino a raggiungere lo sperone roccioso su cui è stato costruito il Pelourinho. Cioè il centro storico della città, dove si concentra il meglio dell’architettura e della tradizione culturale dello Stato di Bahia.
Già la sua storia parla chiaro: Salvador fu fondata circa trent’anni dopo la “scoperta” del Brasile. Nel 1549 Salvador divenne la prima capitale del Paese, per opera di Tomé de Souza, che eseguiva una sentenza della corte reale portoghese. Per la sua protezione naturale della Baia di Ognissanti, Salvador era considerata la capitale ideale. Il Pelourinho divenne subito il luogo in cui si concentrarono le capacità architettoniche ed urbanistiche dei colonizzatori portoghesi. Per tre secoli Salvador rimase il centro del Brasile, convogliando quindi le ricchezze e le forze dei coloni europei, e attirando masse di lavoratori. Ma, a causa della fama di “popolo ozioso”, furono anche fatte confluire su Bahia masse di milioni di africani, angolani in particolare, per lavorare i campi e le piantagioni come schiavi. Da questa vicenda si capisce come la natura di questa città sia mista, anche dal punto di vista religioso, visto che i riti tradizionali africani si sono sovrapposti al cristianesimo portando ad una religione chiamata candomblé, che qui al Pelourinho ha il suo centro principale.
Come dicevo, al Pelourinho si sale grazie a un ascensore ardito che sale dal porto turistico del Terminal Maritimo e dal Mercado Modelo, piazzato al centro di un largo spiazzo che si apre magnificamente sulla baia, con alcuni edifici degni di nota – come gli stessi Terminal e Mercado – e un forte che fa la guardia al porto, mentre un lato dello spiazzo è occupato da alcuni edifici coloniali in rovina, incantevoli. Non a caso, perché non si può capire Salvador de Bahia senza aver presente che la commistione tra vecchio e nuovo, restaurato e abbandonato, tra intonaci appena ridipinti e facciate in rovina è connaturale all’essenza della città più africana che ci sia fuori dall’Africa. C’è in effetti qualcosa di paradossale nell’esistenza stessa della città, come viene in evidenza in particolare al Pelourinho, concentrato di negritudine africana e di europeismo colonialista, di oro e di colori sfacciati, di bellezze quasi leccate e di trascuratezze ingiustificabili. Se non si è avvezzi al paradosso, se non si amano i contrasti, è meglio lasciar perdere Salvador de Bahia e cercare altrove il proprio appagamento dei sensi e dello spirito.
Certamente il Pelourinho è il quartiere più turistico di Salvador de Bahia, e non potrebbe non esserlo, se solo si pensa che in pochi ettari sono concentrati i migliori capolavori del baroco brasileiro, assieme a quelli del Minas Gerais, Ouro Preto e Diamantina e altro ancora. Ma questa della vocazione turistica in fondo è la buona scusa per non lasciare andare in malora uno dei maggiori concentrati di capolavori dell’eredità universale protetti dall’Unesco. Issato su una delle tante colline scoscese del litorale che si affaccia sulla Baia di Ognissanti, il Pelourinho non può non stupire per i suoi straordinari tesori barocchi – uno stile certamente meticcio –, che t’abbagliano di riflessi dorati non appena penetri nella Catedral Basilica costruita dai gesuiti, nella chiesa di São Pedro o soprattutto in quella di São Francisco, assoluto e ineguagliato capolavoro. C’è l’Europa coloniale e l’eccesso tropicale, nel monastero e nella chiesa dedicati paradossalmente al poverello di Assisi, c’è persino l’impronta, per contrasto, della negritudine.
Ma poi esco dalle chiese e dai conventi e mi accorgo che le proporzioni tra le dimensioni europea e afro-indigena si ribaltano per la prevalenza di quest’ultima, ciò che vuol dire propriamente “stile coloniale”. L’oro e la gloria di lassù lasciano lo spazio e il tempo alle tinte forti e alle consolazioni di quaggiù. Con le baianas che cercano i clienti per farsi immortalare, con i barboni che ti fanno il filo col fiato avvinazzato, con le bellezze giovanili, muliebri e mascoline, che t’ispirano sentimenti di rinascita, con i ritmi di saudade e di festa che invitano alla spensieratezza, con i succhi di frutta esotica e i bicchieri gelati di caipirinha che invocano l’oblio gioioso.
Al Pelourinho si sale e si scende di continuo, lungo strade che sono scalinate mascherate, minuscoli gradini di pietra sconnessa che aprono prospettive sempre più affascinanti e inquietanti di bellezza; un patrimonio che va gestito dal visitatore con nonchalance, con la proverbiale lentezza dei locali, incapaci di sentimenti troppo razionali. Perché qui è ragionevole bearsi con calma.