venerdì 21 marzo 2014

Transnistria, il Paese-striscia che nessuno vuole riconoscere


Reportage (2009) dalla nazione-non-nazione che chiede di nuovo, approfittando dell'annessione della Crimea da parte di Putin, di diventare una provincia russa. 

Da quando ne avevo sentito parlare, cioè circa sei anni fa, nel mio carnet mentale mi ero riproposto di visitare la Transnistria, prima o poi, a tutti i costi. La mente del viaggiatore conosce questi imperativi categorici ai quali è difficile derogare, salvo incidenti maggiori, impedimenti insuperabili. Il viaggiatore è paziente e sa che prima o poi i suoi desideri si avverano. Così quest’oggi – accompagnato da Irena, trentenne che lavora alla Caritas Moldova, e Galina, ricercatrice sociale e madre di quattro figli – mi trovo sulla strada per Tiraspol, la “capitale” dello “Stato” della Transnistria, sottilissima striscia di terra di circa tremila chilometri quadrati e 400 mila abitanti (quasi la metà sembra che sia però all’estero) che separa la Moldova dall’Ucraina, a 76 chilometri da Chisinau e a 102 da Odessa. Uno Stato assolutamente unico nel panorama geopolitico europeo, ma assai vicino agli unici “Stati”, tutti caucasici, che l’hanno riconosciuta: Abkhazia, Ossezia meridionale e Nagorno-Karabakh. Bozzoli di entità statali che approvano altri bozzoli, quasi per reciproco conforto. Unica eccezione, la Russia, che guarda caso ha riconosciuto anche Abkhazia e Ossezia meridionale…

Cos’ha d’interessante la Transnistria? È un Paese povero, in alcune remote regioni addirittura poverissimo, quasi misero, afflitto ancora da mancanza d’elettricità costante, con un’agricoltura rudimentale, fabbriche ormai chiuse, come quelle che scorgo nel centro della “capitale”, popolazione giovane alla sola ricerca di espatrio, un’economia che quindi si regge solamente sulle rimesse degli immigrati… È un Paese nato dopo una guerra cruenta, guerra che fece alcune centinaia di morti nel 1991, nel periodo del crollo dell’Unione Sovietica e della corsa all’indipendenza selvaggia. Un Paese che ha fatto della sua fedeltà al comunismo e alle relazioni con la Russia il proprio dover essere e soprattutto il proprio poter esistere. Non a caso nella via principale di Tiraspol, di fronte al monumento che ricorda la vittoria sui moldavi – un carro armato, manco a dirlo –, si ammira una gigantografia dell’ultimo incontro tra il presidente russo Medvedev e “quello locale”, di nome Smirnoff, come la vodka. Tutto è perciò rimasto come ai tempi del comunismo, l’architettura e i monumenti, la retorica degli striscioni e delle foto così come la povertà poco dignitosa delle periferie delle città.
Una pubblicistica assai sviluppata nelle riviste di geopolitica, vuole che la Transnistria sia il concentrato di tutte le perversioni politiche del continente. Così sarebbe il luogo privilegiato di alloggio delle cosche mafiose russe congiunte con quelle di altri Paesi; così sarebbe una plaque tournante, cioè uno snodo particolarmente libero del traffico di armi e di segreti militari provenienti dal disfacimento dell’impero sovietico, così sarebbe persino il luogo delle perversioni massime della prostituzione dell’Est europeo, così le auto in circolazione nella regione sarebbero al 70 per cento di provenienza illecita. Capirete bene come, avendo nella memoria questa pubblicistica, mi attendessi di vedere poco meno che uno Stato anarchico, in preda alle peggiori delinquenze e alle più sfrenate depravazioni. E invece no.

È vero, una giornata passata in Transnistria non può avermi dato una visione esauriente della situazione; ma quel che ho visto coi miei occhi e soprattutto i contatti avuti con persone che vi vivono, e che pure godono di osservatori privilegiati per la conoscenza della regione, mi fanno dire che sì, lo “Stato” della Transnistria è veterosovietico, marchiato da un chiaro trasporto nostalgico verso la “madre di tutte le rivoluzioni”; è vero che la miseria di vede oltre i paraventi ben dipinti del centro della città. Ma è anche vero che tutte queste colpe gettate sulle spalle di questo povero Paese sembrano veramente eccessive. Anzi, la gente pare accogliente, aperta allo straniero, povera ma degna; parla poco di politica, una cosa delicata come lo era nei Paesi ex-comunisti, ma parla di tante altre cose. E le auto non sono tutte rubate, e l’estetica del mobilio urbano non è popolata di donne senza veli, e le mafie se pur esistono – perché in terre di passaggio come la Transnistria esistono per forza, in tutto il mondo – non hanno certo una grande visibilità, e nemmeno una forte influenza sulla gente comune. Insomma, la Transnistria pare uno “staterello” che coagula interessi convergenti negativi (no alla Moldova, no alla Romania e no all’Ucraina) più che positivi (sì alla continuazione della sovieticità, sì allo sviluppo della malavita).

Nei fatti, la Transnistria opera come uno “Stato”, coi suoi ministeri e le sue amministrazioni, ma patisce l’isolamento: il treno Chisinau-Kiev non funziona più, e la via ferrata è stata saccheggiata, diventando inutilizzabile; le strade sono malmesse, e non consentono più collegamenti adeguati; il commercio, almeno quello ufficiale, è diminuito, perché deve fare impossibili percorsi per giungere a destinazione; i telefoni analogici per lungo tempo sono stati interrotti, ed ora quelli cellulari funzionano grazie alle compagnie ucraine o moldave; l’edilizia s’è fermata, salvo nella costruzione di villette finanziate dalle rimesse degli immigrati; di fabbriche non si vede nemmeno l’ombra, o meglio si vedono le ombre delle officine dismesse… Ma la gente sorride, riesce ancora a farlo, e pure con una certa fierezza. L’identità della Transnistria? «Avere due passaporti – mi risponde un uomo d’affari –, ed essere molto pratici nello sbrigare le proprie faccende: se non si arriva al proprio scopo in un modo, ce ne sarà un altro». Mentre un pope ortodosso, Vladimir, mi conferma un’impressione provata dinanzi al palazzo del parlamento vedendo la gente passare: «La gente vuole vivere, ma la politica glielo impedisce nei fatti. Allora bisogna cercare di vivere senza la politica».

mercoledì 5 marzo 2014

Tra i giovani della Maidan



Diario da Piazza Maidan/7 - Qualche chiacchera tra i giovani e i meno giovani che stazionano in Piazza Indipendenza (Maidan Nezalezhnosti). Eroismi e contraddizioni...

Passeggiando in piazza Indipendenza e conversando con i giovani (e i meno giovani della rivolta) ci si rende conto delle grandi doti di coraggio di questa gente che ha pagato col sangue la “rivoluzione della dignità”, ma anche delle tante ambiguità che hanno contraddistinto e che soprattutto contraddistinguono l’attuale momento d’incertezza. C’è stanchezza negli occhi e nelle membra, c’è chi raccoglie soldi per continuare la permanenza nella piazza, c’è chi lucra sul sangue, sono riapparse le bancarelle tradizionali della piazza, c’è chi se la gode a guardare le ragazze, c’è chi beve. Ma c’è soprattutto un’immensa fierezza nazionale nelle centinaia di migliaia di persone che sfilano in quello che è ormai diventato un “mausoleo della dignità”.
Un giovane che staziona accanto a una cassetta dove si raccolgono soldi per i giovani di Maidan (scorgo biglietti da 100 e 200 grivne, belle sommette), Igor mi racconta qualcosa della sua lunga battaglia: è studente, fa avanti e indietro tra l’università e la piazza, viene dall’Ovest del Paese, ha una gran voglia di vedere sparire dalla faccia dell’Ucraina la gente corrotta e corruttrice. Poco lontano, in una tenda che raggruppa della gente di Kharkiv, fief di Yanukovich, un cinquantenne che pare avvezzo ai lavori pesanti si racconta: «Sono pensionato, ho voluto venir qui per aiutare questi giovani, almeno mi sento utile. Non appartengo a nessun partito, ma sono certamente anti-russo. Sono pagato per star qui? No, assolutamente, ma le offerte arrivano abbondanti, abbiamo di che mantenerci».
In uno dei palazzi più eleganti della Avenue Khreshchatyk, che dà sulla Maidan, in quello che fu il negozio di una nota marca di abbigliamento per giovani, s’è installato il Gruppo di autodifesa della piazza, creatosi sin dai primi giorni della rivolta, il 30 novembre. Il giallo è il colore della rivolta, il giallo è il colore di questo gruppo che trova la sua origine nel partito della Tymoshenko. Computer, telefoni e telefonini, grossi thermos di tè, via vai un po’ frenetico, qualche walkie talkie, manifesti propagandistici dall’iconografia (mi si perdoni) un po’ vetero-sovietica o se vogliamo da Quarto Stato… Nessuno vuole parlare dei giovani presenti, un po’ più smart di quelli che stanno in piazza, devo aspettare che uno dei portavoce si liberi. Si chiama Yurij Yuzych, ha una trentina d’anni, è sposato con un figlio. Ha studiato informatica. «Il primo gruppo non era ben formato – mi spiega –, avevamo pochi soldi e pochi mezzi, ma c’era un grande fervore. Eravamo sistemati nel Palazzo del sindacato, quello che è stato bruciato nei giorni più violenti della rivolta. Ora siamo un gruppo molto ben affiatato e ben organizzato, che cerca di mantenere l’ordine anche in mancanza di polizia ufficiale, qui non c’è nessun furto e non c’è più nessun delitto. Non vogliamo diventare una milizia armata, ma in attesa che il governo decida cosa fare noi siamo qui per non rovinare la rivoluzione della dignità». Mi spiega che il loro capo è un deputato, Andriy Volodymyrovych Parubiy, del partito della Tymoshenko, che durante la manifestazione aveva la responsabilità dell’organizzazione della difesa della piazza. «Le nostre decisioni vengono prese democraticamente n el direttivo del gruppo – mi dice convinto –, d’accordo col nostro capo che è stato nominato segretario del Consiglio di sicurezza e di difesa ucraino. Altri due nostri deputati sono entrati nel direttorio dei servizi segreti e della sicurezza interna. Sì, siamo filo-governativi, è il popolo ucraino che ha preso il potere contro colui che non faceva che i suoi interessi, dimenticando il bene comune». Gli cheido cosa pensi dei rapporti tra la sua leader e il Cremlino: «Putin e Julia arriveranno a un accordo, ne sono sicuro – dice convinto –. Bisogna evitare ora di rispondere alle provocazioni russe, per evitare la guerra a tutti i costi. Noi ucraini non siamo capaci di fare la guerra. E non vogliamo separarci: abbiamo notizie dirette dai nostri compagni ad Odessa, Kharkiv, Donetsk… che ci dicono come le rivolte dei filo-russi siano molto limitate, anche se i media occidentali riportano solo quelle rivolte. Ad Odessa, ad esmepio, c’è stata una manifestazione in favore della politica del governo, c’erano anche degli ebrei. E pare che i tatari di Crimea stiano pensando di ribellarsi al nuovo potere russo». Gli chiedo perché la Tymoshenko non sia stata applaudita come ci si sarebbe aspettati dalla piazza:«Dividere la piazza non è cosa buona. In realtà è stata molto ben accolta». Qualche ricordo sulle manifestazioni più cruente: «Sono stato in piazza durante tutti questi mesi. Mia moglie è sempre molto più preoccupata di me. Paura? No, non ne ho mai avuta, se non quando nel Palazzo del sindacato ci hanno accerchiato le forze dell’ordine e mi sentivo preso in trappola, due volte hanno cercato di sgombrarci, prima di appiccare il fuoco all’edificio. La notte dei 100 morti ero a casa quando ho avuto una chiamata e sono corso in piazza. Mi sono occupato di evitare che i giovani fossero colpiti dai cecchini». Tra un mese? «Resteremo qui fino alle elezioni del 25 maggio, spero che Julia venga eletta.La sua uscita di prigione ha mischiato le carte. Vitalij Klitschko era il nostro naturale candidato, ma ora chissà…. I sondaggi dicono che Julia vincerebbe».

lunedì 3 marzo 2014

La speranza ucraina non deve morire

Diario da Piazza Maidan/6 - Il ritorno a Roma non fa che accentuare i sentimenti di storicità di quanto sta avvenendo in Ucraina. Pensieri sparsi.


Esausto al termine di tre giorni scarsi, ma di grandi emozioni, analisi ripetute, interviste continue, traduzioni faticose. Ne è valsa certamente la pena, mi sembra, perché in queste terre si sta giocando un pezzo del futuro dell’Europa. E forse dell’intero pianeta. C’è da sperare che l’irreparabile non accada. A meno che non ci sia già un accordo scritto tra la dama di ferro e lo zar, due personaggi da romanzi di Dostoevski. (Ucraina, Kiev, Quartiere ebraico, 2 marzo 2014)

Tutti i miei vestiti puzzano di… piazza Maidan! Un odore di fuoco da legna, ma anche di marciume, di olezzo di umani che si lavano poco, di plastica arsa e decomposta, di fiori in fermentazione, di lumini consumati, di cibo cotto nelle cucine da campo. L’odore della morte pure c’è, appena un po’. (Ucraina, Kiev, Quartiere ebraico, 2 marzo 2014)

Quanti giornalisti, quanti fotografi, quanti cameraman in piazza Maidan! E pensare che più della metà, si stima, è partito all’avventura in Crimea. IL mondo mediatizzato ha bisogno della violenza della notizia, dell’immediatezza assoluta con l’evento, dello spettacolo a tutti i costi, anche quello del sangue, soprattutto quello. Ma chi cerca di capire sul serio dei miei colleghi? Chi ha il tempo, i soldi, la testa e le conoscenze adeguate per scavare le motivazioni vere dei cambiamenti storici cui stiamo assistendo? Pochi, pochissimi tra i miei colleghi sempre di corsa. Riconosco di aver avuto, in questi tre giorni, una serie impressionante di aiuti e di buoni contatti che mi hanno, poco alla volta, svelato alcuni dei misteri di piazza Maidan. Senza poter tuttavia celare l’eroicità dei giovani ucraini. (Ucraina, Kiev, Quartiere ebraico, 2 marzo 2014)

Comincia a nevicare, fa freddo, tutto è grigio. Oppressivo. LA gente vive come sempre, le notizie della radio sono interlocutorie, anche se la follia di Mosca pare avviata. Il Dniepr scorre come sempre, le auto inseguono le lancette del tachimetro, come sempre, la moneta locale corre ancor più velocemente nell’inflazione. Ma nulla è come prima qui a Kiev. Il sogno di una nuova dignità non è ancora tramontato. (Kiev, lungo il Dniepr, 3 marzo 2014)

Palazzoni di periferia a Kiev. Enormi dormitori vetero-comunisti appena vivacizzati da qualche insegna luminosa neo-capitalista. Il contrasto è stridente, non lascia spazio a pensieri che non siano paradossali, o piuttosto contradditori. La transizione è lunga, non bastano pochi tocchi di colore. Cambiare i cuori e le menti, questo è il grande, immenso problema di questi Paesi ex-sovietici. (Kiev, lungo il Dniepr, 3 marzo 2014)

E se l’Ucraina dichiarasse il default? Che rivoluzione ne nascerebbe? Quali conseguenze per milioni di persone che già ora faticano a sbarcare il lunario? C’è da sperare che la comunità internazionale, e in primo luogo l’Unione europea, siano generose. Non si possono abbandonare questi giovani e queste madri che hanno dato la vita per l’Europa! (Kiev, verso Borispol, 3 marzo 2014)

«Se la Russia alza il prezzo del gas e costringe il governo ucraino ad elimninare il prezzo politico del riscaldamento, il Paese scoppierà», mi ha detto un diplomatico. Nelle case in cui ho abitato la temperatura era decisamente superiore a quella normale della nostra abitazione italiana tipo. La Russia prenderebbe l’Ucraina non per la gola ma per il gelo. (Kiev, verso Borispol, 3 marzo 2014)

Fenomenologia delle code. Ovvero del complicato passaggio da una mentalità da socialismo reale ad una semplicemente civile. All’aeroporto di Borispol, peraltro modernissimo, al momento di passare i controlli di sicurezza e del passaporto ci si scontra con una concezione del dovere civile assolutamente alla sovietica. Primo: gli sportelli aperti sono assolutamente insufficienti e le guardie di frontiera sono occupati da tutto, anche dai dettagli insignificanti di un passaporto, tranne che dall’imperativo di snellire le attese. Secondo: i viaggiatori formano una coda assolutamente irrazionale, a zigzag, ondeggiante, scomposta. Terzo: una gran quantità di viaggiatori cerca di far la furba e di bruciare qualche meandro del fiume umano come se niente fosse. Quarto: sono soprattutto i bellimbusti e le bellocce issate su tacchi impossibili che cercano di far i furbi incollati ai loro smartphone con perline Swarovski. Quinto: quando si apre uno sportello supplementare sembra che un branco di iene si avventi sulla povera preda. Sesto: la gente più umile e modesta (è tanta e bella e da abbracciare) fa la coda regolarmente, ma tace, solo un giovane (che viene da Maidan) protesta e biasima chi cerca di fregare il prossimo. (Kiev, aeroporto di Borispol, 3 marzo 2014)

E così volge al termine questo rapido soggiorno a Kiev, cominciato per capire meglio che cosa abbia generato la “rivoluzione della dignità”, che alla fine ha fatto più di cento morti e un migliaio di feriti, concentrati nel luogo-simbolo della rivolta, quella piazza Maidan, piazza Indipendenza, che sostanzialmente è l’agorà della politica ucraina: qui il partito teneva le sue adunate oceaniche e sempre qui era maturata la “rivoluzione arancione” di Yushenko, poi arenatasi in una grande disillusione. Andare sul posto non è solo curiosità ma è anche il modo principe per penetrare il cambiamento. Ascoltare un politologo in un bar di piazza Maidan non è la stessa cosa che leggere un suo articolo su un quotidiano. Ripartire col cappotto impregnato dell’odore di piazza Maidan per i soggiorni nelle tende e nei viali tra i fuochi per scaldarsi non è la stessa cosa che vedere immagini della piazza in un maxischermo in casa propria. IL giornalismo ha sempre e ancora bisogno della conoscenza diretta, ed è questa la sua bellezza e la sua grandezza. Bisogna toccare, incontrare, rispettare, ascoltare, interrogare, stupirsi, convincersi, mettersi in dubbio, amare. Sì, l’amore autentico è la principale fonte di conoscenza. Posso dire che in questa breve tournée in qualche modo sono riuscito ad avvicinarmi con libertà e rispetto ai ragazzi di Maidan, a vescovi ed ambasciatori, a semplici cittadini e a tanti colleghi, mantenendo il rispetto persino dei filo-russi. Ciò mi è stato possibile perché tanti, tantissimi ucraini mi hanno rispettato, ascoltato, sopportato, amato. Una buona lezione di giornalismo sarebbe stata per i miei allievi! (Partendo dall’Ucraina, Kiev, Borispol, 3 marzo 2014)

domenica 2 marzo 2014

Il paradosso di chi crede all'Europa

Diario da Piazza Maidan/5 - Le voci dalla Crimea e da Mosca si succedono, ma l'immensa folla che sfila nel luogo della rivoluzione mostrano la dignità di un popolo realmente europeo.

Domenica di “turismo politico” nella piazza Maidan. Centinaia di migliaia di ucraini, provenienti da tutto il Paese, sono sfilati dinanzi ai tanti, piccoli mausolei ai martiri che sono stati eretti dalla pietà popolare. Le notizie provenienti dalla Crimea e dalle cancellerie mondiali che s’inseguono l’una dopo l’altra senza avere un chiaro segnale da offrire alla popolazione ucraina, non sembrano sconvolgere più di tanto il flusso delle famiglie di Kiev e delle altre città del Paese.

Un collega ucraino, ora in Crimea, al telefono mi conferma la sensazione generale: «Certamente la presenza militare russa si è intensificata quantitativamente e qualitativamente – mi spiega Lubomir –, coi militari russi piazzati attorno ai palazzi del potere e alle caserme ucraine, mentre la flotta russa dispiega appieno le sue forze. Lo speaker "autoproclamatosi" del Parlamento della Crimea non riconosce il potere di Kiev, paragonato ai nazisti, e invoca la tenuta di un referendum per il 30 marzo, data della possibile secessione della regione dall’Ucraina. La maggioranza della popolazione in Crimea è certamente filo-russa e ieri c’è stata una grossa dimostrazione di questa parte della popolazione. Mentre i tatari, il 20 per cento in Crimea, non sono usciti di casa, non hanno fatto manifestazioni di sorta, ma sicuramente non sono d’accordo con Putin». Attacco dei russi? «In realtà i russi ci sono già in Crimea – mi ha risposto –. Eventualmente dovrebbero attaccare le città dell’Est dell’Ucraina, e forse lo stanno già facendo con le loro forze speciali. Ma nulla è sicuro, come invece è sicuro che la maggior parte della popolazione dell’Est non vuole certo una guerra civile».

A piazza Maidan, intanto, si attende, determinati a restare sul posto fino alle elezioni presidenziali del 25 maggio. Il “Gruppo di autodifesa” che vuole proteggere la piazza Maidan, guidato ora dal deputato filo-Tymoshenko Andrij Parubij, guarda con attenzione all’incontro di domani (ancora incerto, peraltro, e diffuso più in ambienti occidentali che ucraini) della loro leader con il presidente Putin. Non pochi osservatori credono che quel momento sarà decisivo per il futuro della Crimea e della stessa Ucraina. La “pasionaria”, che pure aveva stretto da premier degli accordi discutibili con il presidente russo, potrebbe trarre beneficio dall’incontro (domani o più avanti nel tempo), ripresentandosi come la salvatrice della patria, mentre il presidente Putin potrebbe trovare una qualche scusa, una qualche scappatoia compensatrice per non scatenare una guerra difficilissima da gestire a livello diplomatico mondiale, come manifestano le reazioni delle cancellerie occidentali.
E intanto la gente d’Ucraina, fiera della propria indipendenza e della propria dignità, continua a sfilare a piazza Maidan, credendo ancora che la loro patria ha la forza di autodeterminarsi, di mantenere una dignità che è umana e cristiana nel contempo. Gente che crede ancora all’Europa, paradossalmente quando nell’Unione europea si diventa sempre più euroscettici. Questo è forse il più grande paradosso che noi europei dobbiamo tenere in cuore. C’è gente che dà la propria vita per l’Europa.

Maidan, gli ucraini e la fede

Diario da Piazza Maidan/4 - Giornata calma a Kiev, la frenesia della Crimea è lontana. Per cercare di capire la "rivoluzione della dignità" bisogna entrare in una chiesa ucraina...

Messa domenicale nella chiesa greco-cattolica di San Nicola, appena sotto la stazione della metropolitana Arsenalna, che dicono conducesse a tunnel segreti della presidenza, tra piazza Maidan e il Lavra. C’è nebbia, pioviggina, l’umidità penetra nelle ossa. La chiesa è immersa nel grande parco che scende verso il Dniepr, il fiume grande e largo e grasso d’acqua che fa parte dell’identità stessa nazionale, di Kiev in particolare. La larga strada asfaltata che porta alla chiesetta color giallo Maria Luigia è deserta, perché non porta da nessuna parte, essendo ancora interrotta dalle barricate che l’ostruiscono nei pressi dei palazzi del potere. Qui i ragazzi delle associazioni ortodosse radicali sono venuti nei giorni scorsi in corteo pretendendo che la chiesetta fosse restituita al popolo. In realtà lo è già, del popolo, perché appartiene allo Stato che l’ha concessa in uso alla Chiesa greco-ortodossa, che tra l’altro soffre di cronica mancanza di luoghi di culto, eredità delle catacombe sotto Stalin. I beni ecclesiastici sono stati concessi dopo la caduta del muro di Berlino alle Chiese ortodosse… Qui, tra l’altro, è passato Giovanni Paolo II, appena arrivato a Kiev, per pregare sulla strada che dall’aeroporto arriva al centro del potere. I ragazzi di Maidan erano invece scesi quaggiù perché accanto alla chiesa si erge il monumento a ricordo dei 33 ragazzi ucraini che si sacrificarono fino alla morte per difendere l’effimera indipendenza del Paese, era il 1918. Il monumento, ben curato, non rende ragione del sangue giovane versato, ma ha un potente potere evocativo in tutti i giovani di piazza Maidan, che hanno pagato un tributo di sangue ancora maggiore, per la libertà e la giustizia. Per la dignità.

Comincia la cerimonia. Abbondanti aspersioni di incenso con un turibolo fornito di campanelle. Iconostasi che separa i preti dal popolo. Fedeli che stanno in piedi, strettissimi. Cori potenti e delicati, evocatori di grandi dolori e di indistruttibili speranze. Affreschi d’inizio secolo scorso, ridipinti a causa d’un incendio di una dozzina d’anni fa, con figure angeliche (ma barbute) che osservano i fedeli da ogni dove con la gloria promessa che pare tanto distante dal presente incerto, senza un “padre” che dia sicurezza. Molti dei ministri del nuovo governo sono greco-cattolici, a partire dal premier Yatsenjuk, in massima parte provenienti dall’Ovest del Paese, troppi per non infastidire Mosca e i filo-russi ucraini. Tra i fedeli c’è un certo orgoglio nazionalista, più che evidente nei gesti e nelle parole, anche se accompagnato da un velo d’inquietudine e di paura (vetero-comuniste forse). Che succederà? Qualcuno guarda lo smartphone che parla dei 15 mila soldati russi già in Ucraina, della guerra fredda tra Usa e Russia, della risposta del parlamento ucraino riunito in seduta d’emergenza, delle rivolte nell’Est del Paese… Gli alleluia ripetuti paiono evocazioni della benedizione del Cielo, affinché si faccia benedizione anche della politica.

La chiesa si riempie, non c’è più un centimetro quadrato disponibile, la preghiera è intensa. Le note dei canti e degli inni paiono voler sublimare le preoccupazioni del presente, portando al cielo la preghiera che i fedeli scrivono all’entrata su foglietti di carta. Le voci potenti ma vagamente stridule dei quattro celebranti si risolvono immancabilmente nell’armonia del coro, che trasforma ogni debolezza umana, ogni imperfezione, così almeno sembra. Negli sguardi si legge la disillusione, mista alla speranza d’un nuovo corso che non vuole morire. L’ingenuità di fronte alla menzogna appare la vera cifra di questo passaggio storico dell’Ucraina. Tutti stanno in piedi stoicamente, lungo la cerimonia che s’allunga col ritmo classico delle Chiese d’Oriente, nelle ore. Il prete giovane, deciso e nel contempo mite, ha il nome dell’arcangelo Michele, dice nell’omelia: «Serve perdono, serve solidarietà, serve la forza di fronte all’avversità, bisogna sostenere i giovani di piazza Maidan». E qualche lacrima spunta sui volti delle donne più belle dell’Est dell’Europa, sangue misto scandinavo, slavo e chissà cosa d’altro, miracolo del meticciato europeo. Dal battesimo della Rus’, origine della stessa Russia – non solo di Mosca, non solo ortodossa, non solo uralica –, Kiev ha una sorta di primazia sull’intero Est europeo, che lo zar Putin non vuole certo perdere, a nessun prezzo.

L’ascolto è denso, profondo, sincero. C’è la volontà e c’è la pietà. C’è forse l’amore. Per la patria ucraina, senza dubbio, per i ragazzi di Maidan senza dubbio, per la Chiesa ovviamente, per i nemici… non so, credo proprio di no. Una fede cristiana in via di risoluzione escatologica, insomma, visto che la rivoluzione appare quasi profetica. Escatologia che si esprime nel salmodiare monotono della preghiera del prete, interminabile, che si risolve solo nel momento dell’esasperazione dell’udito nella gloria della polifonia orientale. Poca gente esce dalla chiesa, come sarebbe naturale da queste parti. Oggi ci si sacrifica per i ragazzi di Maidan e perché “il Dio” illumini la mente e il cuore dei potenti. Anche di Putin. Ho appreso a questa cerimonia una lezione importante: non si può spiegare Maidan senza penetrare nell’anima religiosa di questo popolo, così come si esprime nella liturgia della domenica. Anche gli ortodossi-atei, forse la maggioranza del Paese, hanno una fede. Nazionalistica.

sabato 1 marzo 2014

Maidan vibra per la Crimea

Diario da Piazza Maidan/3 - La calma del centro di Kiev viene scosso dalle notizie inquietanti provenienti dalla Crimea. Le opinioni sono diverse, ma la speranza di una Ucraina libera e indipendente non cessano.


Giornata di lavoro e speranza a piazza Maidan. Con un appello lanciato attraverso i social network, la popolazione s’è messa a ripulire sia il grande parco dinanzi al Parlamento, dove erano stazionati i supporter del presidente Yanukovich, sia la stessa piazza Maidan e dintorni. Uomini, donne, anziani e bambini si sono impegnati a fondo per cancellare le tracce della lunga battaglia di Kiev. Le barricate non sono state rimosse, ma il terreno è stato ripulito, anche se il lastricato ormai è stato divelto. Una giornata trascorsa ad inseguire le notizie provenienti dalla Crimea, che la gente ha seguito minuto per minuto dai loro smartphone, sui tablet o sui grandi schermi di piazza Maidan, vero luogo di dialogo e dibattito politico. Un po’ incredula, ma comunque decisa, la piazza s’è ritrovata ferita anche per la coscienza di una certa ingenuità che forse ha accompagnato gli ultimi sviluppi della “rivoluzione della dignità”. Come pensare che la Russia avrebbe accettato un governo sostanzialmente anti-russo? Come avrebbe accettato la destituzione di Yanukovich? Ora la diplomazia è al lavoro: si spera nella mediazione dell’Unione europea e dell’Onu, anche se non ci si fanno soverchie illusioni.

L’ambasciatore Fabrizio Romano, da me incontrato, sostiene che bisogna aspettare ancora qualche ora, o piuttosto qualche giorno, per capire che piega prenderanno gli eventi in Crimea, ma soprattutto se la contestazione al nuovo governo dovesse prendere piede nella parte orientale del Paese. Non è della stessa opinione il professor Kyryluk, docente di dottrine politiche all’Università Taras Shevchenko di Kiev, che vede nella protesta di piazza Maidan un punto di non ritorno e una speranza che non può essere tradita dalla comunità internazionale. «Non bastano 3000 filo-russi che manifestano nelle città dell’Est per dire che la popolazione si sta sollevando». Certo è che la situazione è grave, e si ha la coscienza, forse ancor più di ieri, che in questa piazza-simbolo si sta giocando in qualche modo il futuro dell’Europa. La crisi diplomatica internazionale è gravissima, e coinvolge ovviamente anche gli Stati Uniti, assai implicati nella vicenda ucraina nonostante le smentite che arrivano da Oltreoceano. 

Ma la gente di Maidan resta nel cuore, coi suoi lumini e i suoi fiori. La gente normale, quella che oggi, a centinaia di migliaia, ha voluto vedere i luoghi del martirio di un centinaio dei suoi figli. È per questa gente che l’Europa deve intervenire. Con la diplomazia. Le armi hanno fatto il loro tempo nella soluzione dei conflitti. «Possibile che non si possa immaginare una Ucraina che non sia né russa né americana, ma solamente sé stessa?», mi dice una delle dottoresse che da una settimana si sta prodigando per curare feriti e malati di piazza Maidan, nell’ospedale da campo improvvisato nell’Hotel Ucraina che domina la piazza Indipendenza. La vicenda non è finita qui. Nella piazza i preti e i pope di diverse Chiese continuano a pregare assieme alla gente.

Nel luogo dove la Storia si sta facendo

Diario da Piazza Maidan/2 - Fa sera e fa freddo. Ma le migliaia di giovani rivoluzionari non hanno abbandonato le loro tende. Un mausoleo a cielo aperto, ormai.


Quando si osservano dal vivo scene già viste in tv o sul computer, si prova la strana sensazione di vedere cose già conosciute ma si capisce nello stesso tempo che non si è capito assolutamente nulla scorgendo qualche fuggitiva immagine sugli schermi. Sarà che i cinque sensi vengono tutti messi in moto, e non solo la vista e l’udito, sarà che la visuale spazia a 360 gradi e non è limitata dal rettangolo digitale; fatto sta che l’impressione è di quelle che rimangono. Provo sensazioni simili a quelle provate a Piazza Tahrir, o nella scuola di Beslan, o ancora in Kosovo. Dove il sangue è stato versato, dove la guerra ha imperversato, la Storia s’è fatta.
Arrivo a Piazza Maidan che la sera è già scesa. Fa freddo, siamo sotto lo zero. Nelle strade del potere, a ridosso della piazza, si vive in un’atmosfera surreale di silenzio, quasi assenti le macchine, di poliziotti non c’è nemmeno l’ombra. Dinanzi alla Banca centrale e al Palazzo del governo staziona un soldatino e poco oltre brucia il fuoco acceso nei bidoni di lamiera dalle originali milizie, espressione dei giovani di Piazza Maidan. S’ascoltano le notizie provenienti dalla Crimea, le mosse di Putin e dell’esiliato Yanukovich vengono ancora tenute in grande considerazione, non si dimenticano facilmente cento morti. Scendo verso la piazza.
Ecco i luoghi dove sono stati ammazzati i primi giovani, colpiti dai cecchini appostati sui tetti degli edifici del governo più che dalle forze dell’ordine. Ovunque lumini accesi e fiori deposti, a delimitare in qualche modo le barricate costituite da ogni sorta di suppellettili, frigo in disuso, sacchi di pietrisco, neve congelata, travi di legno, blocchi di cemento, stracci, vecchie valigie, mobilio riciclato, pneumatici in quantità. Le tende dei giovani di Maidan sono ben rizzate, ognuna con la propria stufa, con la propria protezione, con mobilio sommario.
Qui i giovani sono installati da novembre, da qui hanno con la loro determinazione portato alla caduta del presidente, ed hanno messo in discussione l’accordo col grande fratello di Mosca. Davide contro Golia, indubbiamente, il mito biblico resiste e raddoppia. Ancora una volta. C’è ingenuità, certamente, c’è il rischio di colpi di coda dell’avversario, le elezioni del 25 maggio, promesse dal nuovo presidente ad interim, Turcinov, amico di lunga data della Tymoshenko appena liberata, non sono vinte perché il Paese è comunque e in ogni caso spaccato in due. La memoria delle altre rivoluzioni, ultima quella di Yushenko del 2004, è presente ed in qualche modo potrebbe scoraggiare i giovani di Maidan, visto che è fallita, o quasi; ma al contrario questa folla non sembra decisa a mollare d’un centimetro, fertilizzata dal sangue dei martiri.
Martiri che appaiono sulle foto affisse in mille modi in ogni angolo della piazza e dei dintorni, anche se si concentrano nei luoghi precisi in cui quei dati giovani sono stati ammazzati dai cecchini o dalle forze di polizia. Ad onorare la loro memoria ora non ci sono solo i giovani ma il popolo, le famiglie, i papà che vengono dalla campagna e che vogliono mostrare ai loro piccoli le foto dei martiri, perché l’Ucraina forgia la sua identità sui martiri.
Fa freddo, ci si trattiene attorno ai falò, si bevono bevande calde offerte dai Cavalieri di Malta, dalla Croce Rossa, da volontari d’ogni genere. Scorgo una donnetta anziana che versa dal suo thermos una bevanda lattiginosa che va a ruba tra i giovanetti della piazza, c’è dell’alcol in quell’intruglio. Si sta, nel luogo della battaglia, nel luogo della vittoria. Al centro della piazza, su un palco, s’alternano senza soluzione di continuità, le testimonianze relative ai morti, ma anche vengono trasmessi i telegiornali, e un militante della Crimea si issa fino al microfono invocando più volte il nome della penisola nel Mar Nero chiedendo alla folla di ripeterlo, in un mantra salvifico, e forse anche scaramantico. Si dice che i russi stiano per intervenire laggiù, c’è timore diffuso. E determinazione.


Verso l'Ucraina che si vuol ritrovare

Diario da Piazza Maidan/1 - In viaggio verso Kiev, per dar testimonianza della rivoluzione dei cento martiri, come viene già chiamata.


Si parte di nuovo, inaspettatamente per Kiev, uno dei luoghi decisivi per il futuro del continente europeo. La situazione appare relativamente calma a Kiev, le violenze si sono spostate in Chimera, dove la Russia ha enormi interessi economico-militari, strategici quindi. Il viaggio è nato in modo rocambolesco, ma queste sono le occasioni da non perdere. Per incontrare la storia nel suo farsi. Chissà cosa mi attende, come sempre, quando le armi tacciono, per un certo lasso di tempo di qualche settimana, sì crea uno stato di sospensione particolare che fa emergere l'intenzione vera di un popolo, stremato dalla vista del sangue versato e nel contempo desideroso di volta pagina. Il massimo dolore e il massimo amore emergono come non mai in questi frangenti. L'ho già sperimentato in Kosovo, in Iraq, in Georgia. Speriamo che anche questa volta mi si presenti un tale stato sospeso... (Stazione Termini, 28 febbraio 2014)

C'è grande incertezza a Kiev e in tutta l'Ucraina. Sì avverte l'emozione dirompente di un momento storico per l'Europa, anche se non si sa bene che cosa potrà succedere nei prossimi mesi. Bisogna cogliere il momento, capire quel che succede, riaprire le ferite e spurgare la strana virulenza che si è creata in questi ultimi anni da quelle parti. L'oscena esposizione delle ricchezze kitsch di Yanukovich racconta un comunismo mai morto, una corruzione mai spazia e un'ingiustizia mai abbastanza denunciata. Mentre la gente normale fatica a mettere assieme quel che serve per sopravvivere. E allora si accende d'improvviso il cocktail molotov dell'ingiustizia, della fame e della mancanza di libertà. L'esplosione in questi casi è più che naturale. (Tra Roma Termini e Fiumicino, 28 febbraio 2014)

Dell'aereo della Ukrainian Airlines c'è aria di sospensione. Tra le badanti che tornano a casa e qualche uomo di affari - il volo non è pieno - i sorrisi tirati e le chiacchierate irrefrenabile ad alta voce paiono un segno dell'incertezza che attanaglia i cuori di tutti coloro che hanno per destinazione Kiev, di questi giorni tutto tranne che una ambita metà turistica, nemmeno per quella sordida migrazione sessuale che negli ultimi anni ha avuto tanto spazio in Ucraina. Chi torna di questi tempi nel Paese di Chernobyl lo fa per motivi legati in qualche modo alla rivoluzione. (Partendo da Fiumicino, 28 febbraio 2014)

Accanto a me si è associata una giovane donna ucraina dai tratti delicati, multiforme, occhi chiari e capelli convinti, una delle tante e tante ragazze che stanno cercando fortuna fuori dal loro Paese. Sono le donne che migrano dall'Ucraina, solitamente di grande valore, che svolgono i loro compiti con abnegazione e intelligenza. Certo, qua e là la giovane badante che convince l'anziano assistito a sposarla e a intestare tutti i beni la si trova, e talvolta la malizia abita il loro cuore. Ma sono eccezioni. Gli uomini, invece, paiono molto meno sicuri di sé e ben più propensi ai facili guadagni. Su quest'aereo ce ne sono meno della metà delle donne! (Tra Roma e Kiev, 28 febbraio 2014)

Mi sono riletto un po' di storia dell'Ucraina. Un susseguirsi quasi ininterrotto di guerre e conflitti civili, con continui cambi i monarchi e governanti, in una carneficina facile e ripetuta che ha avuto il suo culmine nella Seconda guerra mindiale, che provocò sette milioni di morti, due dei quali ebrei, ricordati nello struggente mausoleo di Babyn Yar, e pure titolo di una straordinaria sinfonia di Shostakovich. Appena un leader sembra riuscire a salire sul gradino più alto del podio, ecco che nel giro di pochi mesi perde ogni sicurezza e si ritrova a dover condividere il potere con i nemici di una volta, fino all'inevitabile rottura e alle altrettanto inevitabili elezioni. Le fazioni presenti nel Paese non sono così uniformi come si potrebbe pensare - russi, cosacchi, tatari, slavi ucraini, polacchi... -, per giunta divisi in culti molteplici e spesso in conflitto tra loro, come accade ad esempio per le tre Chiese ortodosse ufficiali. Frange violente - antiche e post moderne, dai cosacchi agli skinhead -, soffiano facilmente sul fuoco, infiammato piazze e palazzi del potere. Non c'è da stupirsi, allora, delle recenti fiammate nazionaliste e filorusse, che trovano la loro origine in brutali repressioni e in violente rappresaglie che si susseguono ogni dieci-venti anni. Per tutto questo non è poi così semplice immaginare una qualche soluzione all'attuale crisi: secessione, riconciliazione, autonoma delle regioni, guerra civile, Tymoshenko di nuovo al potere o emergenza dell'ex pugile? Tutte questioni che a tutt'oggi non hanno alcuna reale riposta. (Tra Roma e Kiev, 28 febbraio 2014)

L'incertezza ucraina è simboleggiare dalla sua bandiera, due strisce sovrapposte gialla, in basso, e azzurra, in basso. Colori assolutamente insoliti nei vessilli dei Paesi slavi, che normalmente giocano le loro combinazioni cromatiche tra bianco, rosso e azzurro. In varie combinazioni. Non si sa bene, in realtà, quale sia l'origine di tale vessillo. Una prima teoria cerca di spiegare la bicromia col fuoco e dell'acqua, una seconda col grano e col cielo, una terza con l'origine svedese del Paese. Mi piace pensare che queste tre origini siano tutte e te valide. Perché una nazione come l'Ucraina ha oggi bisogno di inclusione e non di esclusione. (Tra Roma e Kiev, 28 febbraio 2014)