lunedì 17 novembre 2014

Khoja Ahmed Yasawi: i raggi della sera creano l’opera d’arte

Viaggio in Kazakistan/8 - L'opera d'arte timuride più importante del Paese è un mausoleo perso nel deserto.

Sette di sera. Il sole sta piegando la sua forza cercando di nascondersi dietro il disordinato e trascurato abitato di Turkestan. Sono appena ritornato al Mausoleo di Khoja Ahmed Yasawi dopo la sfiancante visita in pieno giorno e un momento di pausa abbandonato in una stanza pulita ma estremamente essenziale dal letto sfondato. Sono tornato qui perché questo luogo mi attira, come già da tempo mi attirava anche solo gettando un’occhiata alle sue foto nelle guide turistiche. Ho già visitato Samarcanda, Buchara, Konjeurgench e Isfahan, dove si ergono forse i migliori capolavori dell’arte religiosa  centrasiatica, ma qui qualcosa si aggiunge. La vox populi parla chiaro: tre pellegrinaggi a questo mausoleo valgono un pellegrinaggio alla Mecca. Fu costruito su ordine di Tamerlano tra il 1389 e il 1405 in onore del profeta Khoja Ahmed Yasawi che, nato nel 1094 a Sayram, era poeta e mistico, fondatore dell’ordine sufi Tariqah. Terminò la sua vita nel 1166 in un eremitaggio su una collina non lontana dal luogo del mausoleo. Si dice che qui passò Tamerlano stesso il quale, dopo una preghiera e vedendo il pietoso stato della gente e della cittadina, ordinò che vi fosse costruito un enorme mausoleo per riscattare la città che aveva ospitato un tale personaggio. Naturalmente si servì dell’arte di artisti e artigiani iraniani all’epoca celebri, come Haddzhi Hassan e di Shems Abdul Wahhab che venivano da Shiraz. La composizione archiettonica del mausoleo è strana, decorato totalmente nella porta nordoccidentale, mentre la grandiosa porta sudorientale è in mattoni apparenti: fu l’ultima a venire costruita e forse i soldi erano finiti, e Tamerlano ormai era morto e sepolto...
Stasera tira un forte vento, caldo e secco, il mausoleo vive della sua pelle screpolata che crea disegni coi mattoni e tra i mattoni, che esalta le decorazioni timuridi azzurre e blu sul beige dei mattoni, che trasforma le imperfezioni in bellezza, come in una donna che nel fior della maturità viene resa perfetta dalle prime rughe che appaiono sul suo corpo. La luce radente della sera esalta la sapienza del tempo che passa rendendo d’oro la pelle che non è preziosa. Le due cupole, una azzurra uniforme, l’altra a scanalature sempre azzurre ma con decorazioni floreali verdi e blu, giocano tra di loro e con le pareti tracciate di armonie. C’è serenità e bellezza, merci rare in Kazakistan.
Come sempre accade, quasi sempre, nei monumenti musulmani l’interno non è la portata migliore del menù. Anche qui, più che nelle decorazioni la bellezza va cercata nel gioco delle forme e delle luci, nelle aperture che lasciano filtrare quel po’ di luminescenza atta a cercare prospettive sempre uguali e sempre nuove, a suscitare l’intersecarsi di linee che muoiono al proprio apogeo per rinascere poi nel luogo dell’altrui morte. Reciprocamente legate. L’esterno, al contrario, è stupefacente nella sua levità e nell’inconsueta leggerezza pur nelle dimensioni maestose della costruzione che per alcuni versi richiama il travagliato esempio della moschea di Bibi Kanoum a Samarcanda, che non fu mai terminata perché in parte crollò durante la costruzione. Le due cupole creano sempre nuove armonie e nuove sorprese, al punto che il fotografo che dovrei essere s’arrende: solo il filmato può rendere giustizia a un tale capolavore mutante a seconda della luce che lo avvolge.
Un pavone rallegra i visitatori all’ingresso del mausoleo orientato a Sud-Est, visitatori che peraltro debbono stare attenti alle deiezioni delle centinaia di piccioni e altri volatili che da sempre occupano la mai terminata facciata dalla quale, nella parte superiore, spuntano assi irregolari di legno che avrebbero dovuto sorreggere altre decorazioni e maiolicati, ulteriori strutture architettoniche. Quel pavone, segno di bellezza ed eternità (potente connubio!) rende i visitatori – al 99,9 per cento indigeni – perché, sia detto per inciso, chi mai si sfianca per venire in questo deserto ad ammirare un solo monumento, visto che il resto conta poco o nulla? –, consci che qui si tocca qualcosa della grazia. Quella universale, quella che non può limitarsi a baciare una sola religione, la grazia di Dio, il potente e misericordioso, il buono e il bello, il giusto e il grazioso. L’amore.
Ma non è finita qui. Il mausoleo mi trattiene ancora un paio d’ore, fino all’ultimo raggio di sole che brucia la pietra, le maioliche, i mattoni, fino alla consunzione della grazia che s’evapora in mille gocce di colore. Un cammello, un secondo, dove sono, chi sono, dove vado? Il mondo pare sospeso stasera. Chissà  quali misteriosi movimenti avvengono in un’anima per costringerla a girare attorno a un mausoleo timuride per ore e ore, fino alla benedizione dell’ultimo raggio di sole! Certamente qualcosa che ha a che fare con la grazia.

mercoledì 5 novembre 2014

Alla stazione di Shymkent

Viaggio in Kazakistan/7 - Un centro commerciale e industriale nel deserto dell'Ovest del Paese, ovvero capire i locali aspettando un treno...

Di questa città nel Sud del Kazakistan non avrei molto da dire, perché in realtà ci trascorro appena qualche ora, tra l’arrivo dell’aereo che mi ha portato qui da Almaty e la partenza del treno che mi condurrà a Turkestan. Un tassì mi ha deposto in qualche modo , è il caso di dirlo, alla stazione ferroviaria, dove ora mi trovo a trascorrere un paio d’ore di attesa. L’abitato che scorreva fuori dal finestrino mi è parso quello consueto delle repubbliche ex-sovietiche, con un evidente disordine urbanistico, una dose considerevole di trascuratezza e un’inveterata allergia alla bellezza dell’abitato, e non solo di quello.
Passano pochissimi treni, ma la gente è tanta e così le bottegucce che vendono prodotti alimentari: vivono di quel che riescono a smerciare durante la sosta dei lunghi convogli sferraglianti, sufficientemente ampie (almeno dieci minuti) perché la gente scenda dal proprio vagone e si procuri il cibo necessario per il prosieguo del viaggio.
Fa caldo, non c’è un solo caffè che fornisca un minimo di conforto, non dico l’aria condizionata... Ma tant’è, una sedia di plastica azzurra la trovo sotto un portico e così una bibita fresca e uno di quei deliziosi fagottini alla carne e alle cipolle che da queste parti sanno cuocere proprio bene. Sull’unico binario passeggeri la signora biondo platino con incongrui tacchi a spillo che aspetta il treno con atteggiamento di sopportazione e la babuska che sgrana le sue preghiere con una faccia durissima, di terra; c’è il ferroviere che suda come una fontana ma che si ostina a rimanere al sole in attesa del convoglio seguente, annunciato tra 48 minuti; c’è la muta di marmocchi che, sotto la guida della più grandicella, improvvisa una scuola di danza contemporanea; c’è il ristoratore di origini uzbeche che inalbera con fierezza la sua barba da imam integralista mentre le sue donne tirano la pasta; c’è la poveretta che elemosina una briciola di pane, nemmeno un soldino...
Al mio tavolino sbilenco s’accomoda sua sponte un uomo che ovviamente non parla una parola d’inglese ma che vuol comunque attaccar bottone col sottoscritto, attirato dalle pagine che sto vergando con la mia calligrafia regolare così diversa dal loro alfabeto e da quello russo. Riesco a capire che lavora come scaricabagagli alla stazione, che ha sette figli tra cui due ragazze, che ha una casetta in periferia, che il venerdì va sempre alla moschea, che a casa sua tutti hanno il telefonino anche se di modelli antiquati, che il figlio più grande vuole diventare medico, che Nazarbayev è poco meno di un dio, che Shymkent è grande perché ci arrivano gli aerei, che Nibali è il migliore ciclista al mondo, che Dio è grande e misericordioso e che dobbiamo temerlo, che viaggiare fino a Roma è il suo sogno nasconto e irrealizzabile perché non ha il passaporto, chissà perché, che gli spiedini sono il suo piatto preferito e che ogni domenica con la famiglia vanno al fiume per grigliarli... Tutto ciò sarà poco più del 5 per cento di quello che dice il mio interlocutore, Nusultan si chiama, comunque sufficiente per aprire uno spaccato sulla vita della gente di Shymkent.