venerdì 4 settembre 2015

Mathari, tra il campo di golf e la città

Viaggio in Tanzania e Kenya/8 (ultima puntata) - Mathari, un'altra bidonville. I contrasti di Nairobi che diventano quasi naturali.
 
Il secondo slum di Nairobi prende il nome di Mathari. Non raggiunge il milione di abitanti, ma poco ci manca. Vi accedo con la mia accompagnatrice, Mada, attraverso un paradossale viale attorno al quale si aprono i club esclusivi dell'esercito, della Microsoft, della marina, delle multinazionali. C'è persino un campo da golf. Lasciata la macchina, ci dirigiamo verso la fine dell'impasse, che pare morire sul gabbiotto dei vigilantes dell'ennesimo club con prati all'inglese (una vera mania qui tra i ricchi di Nairobi, memori della colonizzazione d'Oltremanica). Ed è quando ormai mi chiedo che cosa ci stiamo lì a fare che sulla sinistra, tra un muro di cinta e una robusta rete di recinzione si allunga un fangoso sentiero lungo circa 300 metri. 

Mada avanza con le stampelle (ha una piede fratturato) come se nulla fosse. Poi una curva ad angolo retto e, ai piedi   di uan scarpata di una settantina di metri d'altezza, ecco un quartiere fitto, sembra che uno spillo di troppo farebbe esplodere tutto l'abitato. Si osservano zone più "residenziali" (si fa per dire, si tratta di casette in muratura, semplicemente, in una di quest abita la famiglia di Mada) ed altre invece assolutamente precarie: lamiera, cartooni, teloni di plastica e chissà cosa d'altro. Questa è Mathari, da cui la gente fatica ad andarsene, perché preferisce il poco ceryo che ha al di più incerto che non ha.

giovedì 27 agosto 2015

Kibera, la più grande bidonville d'Africa

Viaggio in Tanzania e Kenya/7 - Un'altro degli aspetti paradossali dell'Africa, di certa Africa. Ma con che diritto voler giudicare una situazione così complessa e variegata come la giustizia distributiva in un continente saccheggiato e impoverito da secoli?
 

La vecchia Nissan di Mada sembra non farcela più nelle lunghe salite delle highway locali. Ma siamo arrivati a destinazione, a Kibera, appena dietro la parrocchia di Guadalupe, in un quartiere residenziale. Ad annunciare Kibera è un albergo, l'Hotel Classic, una baracca dipinta di rosso e d'azzurro, dove finisce l'asfalto e inizia un altro mondo. Il mondo dei rifiuto, della provvisorietà assoluta.
Attorno all'unica strada asfaltata dello slum, si allungano dei veri e propri muri di baracche, in mezzo ale quali di tanto in tanto si apre un breve spazio, un metro o poco meno, che indica una via laterale, un budello che porta ad altre migliaia di baracche. Quei budelli sono ricettacolo di ogni cosa che vaghi nel mondo, fogne a cielo aperto, ma anche luogo di giochi, di litigi, di socializzazione. Aleggia ovunque un  odore acido di fogna, mentre la nettezza urbana è lasciata alla buona volontà dei singoli abitanti. Eppure nella via principale non mancano i negozietti di cosmetici e telefonini, segni di sogni consumisti in tutto il mondo. Ovviamente qui non c'è elettricità, né acqua corrente, figuriamoci se potabile! 


Per la strada passeggiano personaggi dalle facce inquietanti, talvolta leggo un'infinita invidia per il mio status di uomo libero bianco, ma anche uno sguardo inquisitore per vedere se posso essere oggetto di qualche sottrazione. Non tiro fuori la macchina fotografica nemmeno per sogno, i miei accompagnatori sono stati categorici. Non rischio tanto di venir derubato, quanto di beccarmi una coltellata. Eppure c'è una certa gaiezza in giro, i colori sono sgargianti, nonostante il marrone delle strade e di ogni cosa. Colgo sguardi di infinito amore. Non solo di donne. I giovani indossano magliette del Milan e del Barcellona, dalle baracche fuoriescono musiche a tutto volume. Un giovane uomo a gambe divaricate siede su una immensa poltrona in damascato rosa; accanto a sé ha una bacinella di plastica azzurra che ospita un quadro del Sacro Cuore, mentre dietro le sue spalle un immenso hifi sputa musica rap a tutto volume. E vicino a quest'uomo una giovane mamma con tre bimbi, già sformata nonostante l'età ancora verde, sbuccia un'arancia per i tre frugoletti mentre vende un mucchietto di arachidi in bottiglia. Dietro alla scena campeggia un Hotel De Luxe con una guardiana che si atteggia a pin up dall'alto dei suoi abbondanti cento chili. Ogni tanto si creano dei crocicchi attorno a una motocicletta, circola alcol, circola erba, talvolta polvere che non è eroina ma devastante droga chimica. Si beve un intruglio che si chiama changhà, alcol da canna da zucchero e chimica, si rischia la cecità e la demenza, se non la morte.
 

È qui che faccio conoscenza, attraverso i miei amici, con Nancy, una giovane donna che vive in una baracca infilata in una viuzza laterale di 2 metri per 3. Lamiera e qualche pezzo di plastica o di legno sono i materiali da costruzione: baracche bollenti d'estate e gelide d'inverno. E si sente tutto quanto accade nelle baracche vicine, non c'è possibilità di privacy, se non chiudendosi a chiave nel proprio loculo. La vicina di Nancy langue nel suo bugigattolo sparando musica rap e ubriacandosi. «Non si preoccupi, in fondo è una brava donna», cerca di giustificarla Nancy ai miei occhi, anzi al mio udito, perché ne colgo solo il respiro affannoso e sincopato a pochi millimetri da dove sono seduto, appena un foglio di lamiera. C'è un perfetto ordine nella baracca della giovane donna, ogni cosa è al suo posto pur nell'assoluta precarietà dei luoghi, del mobilio e delle suppellettili.
Nancy vi abita con sua figlia e con la nipote, che ha accolto a casa sua, si fa per dire, dopo la morte della sorella e del cognato. Abitava in campagna, come tutti o quasi gli abitanti di Kibera ed era venuta in città per lavorare come donna delle pulizie presso una famiglia facoltosa. Poi è rimasta incinta e non ha potuto più continuare a lavorare, mentre l'uomo che l'aveva ingravidata è sparito nel nulla. Nancy previene la mia domanda: «Sono rimasta e continuo a rimanere qui invece di tornare nel mio paese perché qui i miei due piccoli possono frequentare una buona scuola tenuta dagli italiani. Tra qualche anno potranno emanciparsi da questo luogo. Io cerco di guadagnare qualcosa lavando panni. C'è pure qualche associazione che ci fornisce di medicinali e quando c'è bisogno di un dottore riusciamo a trovarlo. Quindi preferisco stare qui». Ma non ti senti immersa nello squallore? «Io qui in fondo ho creato un mio angolo pulito nel quale vivo bene con i due piccoli. Basta stare attenti, basta pagare l'affitto regolarmente, basta non dare fastidio ai vicini e così riesco a vivere abbastanza bene». E non vorresti andare a vivere in un quartiere migliore? «Certo che sì, ma non so come poter guadagnare abbastanza per mantenere i miei figli e pagare un affitto alto. E poi ormai conosco tutti qui e fuori sarei trattata come una mendicante. Qui ho una mia dignità».

mercoledì 29 luglio 2015

Nairobi National Park, il safari urbano

Viaggio in Tanzania e Kenya/6 - La sorpresa di un ambiente naturale straordinario in piena città. Tra l'aeroporto e gli slum.

Una delle sorprese più inattese di questa mia breve tournée kenyota, è la visita al Nairobi National Park, 117 chilometri quadrati di terreno tra l'aeroporto internazionale e lo slum di Kibera, che anticipa il centro della città, che coi suoi grattacieli crea un costante orizzonte insolito per un parco nazionale: uno skyline di insolita forza quando nel mirino appare un rinoceronte bianco sullo sfondo dei grattacieli.
È qui che partecipo al primo safari della mia vita. Mi hanno sempre interessato piuttosto gli umani, ma avverto che qui in Africa non posso esimermi dal conoscere da vicino la bellezza stucchevole della natura, con le sue icone e le sue riproduzioni. A parte il prezzo inquietante (alla fine si pagano 100 dollari a testa!), il breve safari, che durerà in tutto quattro ore, colazione compresa in un delizioso country club con tanto di prato all'inglese su cui scorrazzano dei plaicidi cinghiali e qualche timida gazzella, si rivela per me una vera scoperta, come se per 58 anni avessi vissuto all'oscuro dell'esistenza di una natura che è madre e terra madre e terra matrigna, nel mistero dell'alternanza tra vita e morte, pace e violenza. Capisco di più gli uomini e le donne e le loro relazioni umane osservando gli animali allo stato naturale.
 

Mi reco nel parco grazie a un'amica kenyota, una vera forza della natura, moglie di un deputato, promotrice di innumerevoli attività di solidarietà. Con la sua fuoristrada, accompagnati da una guida corpulenta al punto da sembrare lui stesso un partecipante della naturalità dell'ambiente (è un complimento sincero, non uno scherzo!), ci avviamo partendo, come d'uopo, da un sacrario insolito, il luogo dove nel ... fu bruciato uno stock di zanne d'avorio sequestrato ai trafficanti illegali, che avevano ammazzato in quell'occasione centinaia di elefanti per orbarli delle zanne d'avorio tanto prezioso. Fu un tournant, una vera svolta nella politica naturalistica del Kenya, che avviò così una strategia di protezione dei grandi parchi nazionali, capendo che la preservazione dell'integrità della natura era nel contempo il maggior investimento finanziario che si potesse immaginare per il Paese est-africano.
 

Inizia poi la lunga peregrinazione nel parco, alla fine una quarantina di chilometri su piste in terra battuta. Se l'inizio è timido, con qualche bufalo e qualche gazzella che pascolano lontano negli spazi erbosi della savana, che la nostra guiida riesce a vedere ma che noi a malapena vediamo coi nostri teleobiettivi, come piccole macchie nere. Poi, addentradoci nelle piege del parco, nelle valli e negli altipiani dai nomi esotici (...), gli incontri con gli animali aumentano di frequenza e d'intensità, finché ci ritroviamo ad osservare ippopotami, rinoceronti bianchi e neri, gazzelle e zebre in quantità, mandrie di bufali, vari gruppi di simpaticissime giraffe, cervi e caprioli, altri animali cui non so nemmeno dare un nome. Solo i 140 leoni e leonesse del parco si nascondono, ma non è l'ora giusta e nemmeno la giornata. Ma non fa nulla, li vedremo poi nelle gabbie all'entrata...
 

Confesso di sentirmi particolarmente felice per essere almeno un po' entrato in comunione con la Natura, con queste stupende giraffe che sono opere d'arte assolutamente uniche, con queste giraffe che paiono esseri arrivati dalla preistoria col solo scopo di rallegrare la nostra vista, con questo enorme rinoceronte bianco che ci attraversa la strada con una calma olimpica dapprima, poi con una corsa impetuosa che assomiglia tanto a una danza elegantissima, con questi bufali che si abbeverano in un invaso fangoso e che sollevano nuvole di polvere che paiono effetti cinematografici da milioni di dollari ma che sono invece totalmente gratis, degli avvoltoi che qui paiono addirittura meno minacciosi...
 

Mi sento più uomo dopo un tale safari urbano, che tanto urbano poi non è. Piuttosto si tratta di un safari nell'anima dell'Africa.

venerdì 24 luglio 2015

Kilimanjaro, colui che sta

Viaggio in Kenya e Tanzania/5 - Sorvolando con l'aereo la cima più alta dell'intera Africa.

Avrei voluto ma... non ne avevo il tempo, non avevo le forze fisiche necessarie, e forse non avevo nemmeno la voglia di spendere 2000 euro per foterlo violare. Il Kilimanjaro non ho potuto avvicinarlo, né tantomeno raggiungerne la cima. Qualcosa che rimane nel cuore come una mancanza, come un'occasione mancata, come un sogno rimasto tale. Non mi resta che leggere le mie guide: 5896 metri, la più alta cima del continente africano, uno tra i dieci vulcani più alti del mondo, un massiccio isolato, non parte di una catena montuosa ma espressione di sé stesso, tre cime sommitali, una calotta nevosa che ha perso l'80 per cento della sua superficie negli ultimi cinquant'anni...

Non ci pensavo più, quando ho prso l'aereo da Dar es Salaam la calda per atterrare a Nairobi la fresca. Un'ora di volo, nulla di speciale. Salvo che a un certo punto il pilota si premura di avvisare la gentile clientela che sulla sinistra dell'aeromobile apparirà tra pochi istanti lui, il sogno, il grande fratello, la «chiara coscienza divina» per tanti masai e per altre genti dell'Est dell'Africa. E mi trovo proprio dal lato giusto e la visibilità s'è d'improvviso fatta eccellente dopo mezz'ora di nubi e tappeti di cotone idrofilo sparsi sulla Tanzania. E allora osservo poco alla volta apparire la sagoma imponente del Kilimanjaro, che svetta come un'evidenza, come un'escrescenza della Terra, come un'elezione. Sta. Sale imperioso per poi verso la cima proporre un altipiano che non è tale, ma che appare tale nonostante sia costruito da tre vette principali e altre secondarie. Sì, c'era la neve una volta, ora c'è solo un residuo di nevaio che potrebbe essere un'icona del bianco Kilimanjaro che si ricordava decenni addietro. Ma intanto mi godo la vista, che se ne va, della Montagna dell'Africa.

giovedì 2 luglio 2015

Stone Town, la città di pietra

Viaggio in Kenya e Tanzania/4 - Il cuore della città di Zanzibar svela una cultura che non è solo africana.

Dopo la messa delle 6, in inglese, alla presenza di una dozzina di fedeli, usciamo per la città, dirigendoci verso la spiaggia per vicoli ancora deserti, sotto i grandi edifici arabo-coloniali che svettano sulle casette tipo suq. Una città che da subito mi affascina, questa Stone Town, ricchissima di belle sorprese, di connubi architettonici inusitati, di scorci maestosi e di vedute quasi da slum, giardini che par d'essere nell'Eden e spiagge di sabbia bianca che verrebbe voglia solo di sedersi e bere un drink contandone i granelli. Non ci sono ancora turisti, cioè bianchi, in giro per la città, hanno senza dubbio fatto bisboccia nella notte, ci sono solo indigeni, le donne con il loro hijab (ce ne sono addirittura che fanno jogging sulla spiaggia, qualche anno fa solamente sarebbe stato impossibile) e gli uomini con il loro copricapo cilindrico di chiara origine omanita. 

Ali guarda il mare, e il mare lo guarda. Avrà ottant'anni, lo sguardo è quello corto delle cataratte, ma la sua vista è di quelle che vanno lontano: «Qui stiamo bene, la natura ci asseconda, il mare ci dà il cibo, una casa ce l'hanno tutti, c'è forse un po' di povertà qua e là ma non possiamo lamentarci. Ma da qualche tempo, da quando cioè la politica ha cominciato ad occuparsi di religione, le cose non vanno più tanto bene. Ci sono le donne che si coprono troppo e ci sono gli uomini che comandano senza limitarsi, gli anziani non vengono più rispettati e i cristiani vengono considerati kafir, mentre sono i miei fratelli e le mie sorelle. I politici pensano di accaparrarsi i voti facendo i duri in materia di religione, mentre poi di Allah e dei suoi precetti non gliene importa nulla. Speriamo che la smettano di mescolare politica e religione». Abbraccio Ali, mio fratello.
 

Il porto è come tutti i porti del mondo: nei suoi dintorni si concentrano coloro che non riescono a sbarcare il lunario e che quindi cercano di offrire piccoli servizi, di spillare qualche moneta o addirittura qualche biglietto verde. Ahmed ci porta al botteghino dei traghetti per le prenotazioni. Racconta di una vita grama, non ha una casa fissa, ha tre figli ma non sa dove siano, la moglie si offre ai turisti, ma da tempo non stanno più assieme. Le tracce di umidità su molti muri non sono più tracce isolate, ma colore principale, in uno stato di abbandono che potrebbe inquietare. Un vecchio palazzo coloniale rimane in piedi perché puntellato da grossi funi metalliche ancorate in blocchi di cemento chee circondano la mole minacciosa dell'edificio.
 

Girando per le stradine della Stone Town, quasi a caso, si scoprono le ben note porte lignee intagliate di Zanzibar, il principale manufatto artistico locale. Ce ne sono di antiche e di recenti: quelle nuove di zecca non riportano più le incisioni di frasi del Corano, ma semplici decorazioni, anche qui pare che lo spirito religioso abbia qualche problema a perpetuarsi. Sono belle, a volte incantevoli, queste porte, anche se talvolta appaiono d'improvviso lungo un budello di via che pare un'anticamera dell'inferno in mezzo a brutture del tempo e a immondizie. Un vecchio imam mi offre una tazza di tè dentro un bricco di alluminio che par avere due o tre secoli. Accanto a lui delle pie donne sembrano fiamme cangianti nei loro sari che suggeriscono il fuoco, il sole, il mare, la foresta. Questa e tanto altro è Stone Town, la città di pietra che è anche Soul Town, cioè la città dell'anima.

mercoledì 24 giugno 2015

Le spiagge di Zanzibar

Viaggio in Tanzania e Kenya/3 - Nell'arcipelago di fronte a Dar es Salaam la sabbia bianchissima e il mare blu ispirano sentimenti risolutivi

Le spiaggie di Zanzibar sono una prova dell'esistenza di Dio. Per tre ragioni, a mio modesto modo di vedere.
 

Primo, perché la sabbia delle spiagge è così bianca e immacolata che mi dico che Iddio voleva lasciare sulla terra il colore-base per il Pantone, il bianco-zero in cui ogni altra tonalità troverebbe il suo standard di riferimento.
 

Secondo, perché stando sul bordo di un tal mare, all'ombra di una palma, sorpendo magari una fresca e buona bibita, osservando le onde dell'oceano che si infrangono mollemente sulla rena e facendo vagare lo sguardo sulle trasparenze alla ricerc a di qualche pescetto... il tempo non corre più come in città, come al lavoro, e s'immobilizza nel perfetto dinamismo della bellezza.
 

Terzo, perché il cervello dinanzi a un tale spettacolo comincia a ragionare in modo più completo, meno monolitico, meno monotono, usando sia dell'emisfero delle emozioni che di quello della ragione, suggerendo soluzioni ai problemi personali e a quelli dell'umanità che paiono non solo credibili ma anche evidenti. 

Ed in tale giustizia distributiva della conoscenza non ci si interroga più ma si ragiona nel modo dell'amore, che è e non è, che è uno ed è molteplice, che vive dell'amore stesso che le cose e le persone (anche quelle divine, soprattutto quelle) sanno manifestare.

martedì 16 giugno 2015

La calca al porto di Zanzibar


Viaggio in Tanzania e Kenya/2 - Arrivando nella "metà" della Tanzania, arcipelago musulmano dalla ricca tradizione e turistico

Lo sbarco a Zanzibar è colorato. Non tanto per il paesaggio – scende la sera e le nuvole oscurano il sole –, quanto per il "paesaggio umano". Dopo un avvicinamento in fondo rapido, che evidenzia subito la fantastica commistione di stili di quest'isola, vera "porta all'Africa" per subcontinente indiano e penisola arabica, lo sbarco sembra svolgersi senza grandi problemi,. Ma una volta scesi sulle passerelle galleggianti del porto, tre grossi gradini inchiavardati, tutto pare bloccato per non si sa quale motivo. Che ben presto si svela: forse per un errore del personale, le ondate di coloro che s'imbarcano e di coloro che invece sbarcano vengono convogliate sullo stesso percorso, creando uan confusione difficilmente descrivibile.
Mentre noi poveri cristiani (e poveri musulmani, ovviamente) veniamo stritolati dalla calca, sulle nostre teste i trasportatori, veri padroni dei porti di questi meridiani, fanno passare sacchi di riso da 50 chili, balle di chissà quale cereale di un metro per due, valige che per sollevarle servirebbe un argano... E ci passano pure degli infanti, alcuni divertiti matti, altri terrorizzati da una tale follia. Il gioco dura una buona mezz'ora, finché qualcuno non intuisce che si è aperto non si sa come un varco nella banchina. E allora, tutti contenti.
Nella calca, però, ho l'occasione di far conoscenza con alcuni compagni d'avventura, chiamiamoli così, come una donna sulla cinquantina che si serve di una stampella e che perciò ha bisogno di aiuto: è velata, ma non esita ad appoggiarsi, diciamo “comodamente”, sul mio braccio e sulla mia spalla. Vive a Nairobi, è divorziata, con un figlio a Washington e una a Zanzibar, che viene per abbracciare. La donna è nata a Zanzibar da madre indiana e padre indigeno. Commercia in tessuti, ha una discreta fortuna. Crede nell'Islam più autentico, secondo lei quello che vuole gente morigerata ma libera. E poi c'è il vecchio saggio che ricorda i bei tempi «sottomessi» della colonizzazione britannica e gli altrettanto bei tempi ma «orgogliosi» di Julius Nyerere (no, non è una contraddizione), e che oggi attacca la corruzione imperante che sta travolgendo la politica e la religione. Per finire, ecco il frugolino che mi prende per mano, così, spontaneamente, «perché sei così bianco!».
Benvenuti a Zanzibar!

martedì 9 giugno 2015

Il mercato della verdura di tutti i colori

Viaggio in Tanzania e Kenya/1 - Dar es Salaam è come uno specchio della natura benevola e conciliante dei suoi abitanti. Nonostante la vivacità indiscutibile...

Il luogo che più mi prende nel cuore e negli occhi è guarda caso il mercato. Si estende per una ventina di isolati, con le strade che fungono da corridoi del mercato a cielo aperto e da luoghi di trasporto, da banchi per le contrattazioni (obbligatorie!) e da deposito provvisorio delle mercanzie. È facile immaginare il caos del traffico che pur tuttavia alla fine trova sempre una soluzione alle situazioni più ingarbugliate. Tocca stare in campana, come in ogni mercato del mondo d'altronde, ma alla fine debbo dire che il clima generale del mercato è tranquillo e quasi sereno, o perlomeno non preoccupante come in altri Paesi.
Straordinario è il mercato della frutta e verdura, un trionfo dei cinque sensi, soprattutto direi dell'odorato, per le profumazioni straordinarie della frutta locale. Anche se a competere con gli odori ci sono i colori, infiammati nella produzione agricola così come nelle vesti delle donne, mentre gli abiti maschili sono il più delle volte tristi e scontati. Osservo a lungo le contrattazioni che seguono rituali precisi – più resisti, più i prezzi si abbassano –, ma con un ampio spazio lasciato all'inventiva, e talvolta anche alla genialità, dei singoli.
Compro una bottiglietta d'acqua pagando pochi centesimi con un biglietto abbondante. Il giovane che mi ha venduto la bibita scompare, penso per godersi il "di più" che gli ho lasciato. E invece torna un paio di minuti più tardi con il resto al centesimo. Ha un sorriso che dice grandezza d'animo e onestà. In lui oso riassumere la bellezza di Dar es Salaam, che è bella non nelle sue pietre ma nella sua gente.
Mi fa ridere poco più tardi – o piuttosto piangere – passare dinanzi al vicino New Africa Hotel, l'albergo più esclusivo di Dar es Salaam, dove un caffè costa la bellezza di 10 mila scellini, cifra con la quale una famiglia mangia per un'intera settimana.

giovedì 14 maggio 2015

Bodnath, dove il buddhismo diventa umano



Altra tappa del tour di un anno fa in Nepal, per tenere nel cuore tutta la povera gente che sta vivendo un periodo difficilissimo nella valle di Kathmandu. Oggi un centro religioso straordinario...

 Si trova alla periferia di Kathmandu, Bodnath, la periferia meno attraente che si possa pensare, dove la gente s’affastella in immobili che non sono altro che casermoni, dove le botteghe s’allineano disordinate e affollate, dove lo smog si solidfica e i vigili paiono preposti a sciogliere nodi inestricabili. Ma è proprio qui che la storia ha voluto far cadere uno dei templi più straordinari del buddhismo di tradizione tibetana, li santuario di Bodnath appunto.
L’ingresso è quanto di più pacchiano si possa immaginare, peraltro in un viale caotico e rumoroso. Un arco colorato piuttosto banale, attorno a cui s’allungano una serie di minuscole botteghe che sono esemplificazione della pura simonia. Ma tant’è, tutti i luoghi di culto sono come delle carte moschicide che attirano ogni sorta di business. Anche qui. 

Ma da subito l’attenzione, tutta l’attenzione, è catturata dalla presenza invasiva e discreta dello stupa che s’erge al di sopra di una grande cupola bianca che bianca non è, perché punteggiata di piccioni scuri e perché tinteggiata qua e là con arabeschi dorati. È una presenza nel contempo, anche in questo caso, pacificante per i colori e le forme, ma inquietante per quegli occhi profondi e senza età che ti guardano attentamente dalla base della piramide centrale. La storia e l’arte qui si sono incrociate: lo stupa originario è stato costruito nel 600 d.C. allorché il re tibetano Songtsen Gampo si convertì al buddhismo. Poi, nel XIV secolo, lo stupa fu distrutto dai moghul. 

La ricostruzione ha portato ad ammirare le perfette dimensioni dell’edificio, che è completato da 108 sculture del Buddha, da 147 nicchie per le ruote della preghiera e da alcuni gompa, monasteri, che s’accalcano attorno allo stupa centrale mischiati alle botteghe e alle residenze, in un grande caos ordinatissimo. Questi centri spirituali propongono le loro ricette buddhiste, dai più rigidi e indissolubili legami monacali alle più blande meditazioni per occidentali in crisi di cristianesimo (o di ateismo). E tutti convivono e tutti fanno affari e tutti paiono bearsi coi loro momenti di soddisfazione manducato ria o commerciale, sotto lo sguardo vigile dei monaci che pregano col corpo, alzandosi e sdraiandosi a ritmo regolare, quasi a sfidare la divinità nella ricerca di un equilibrio soddisfacente. Così è del buddhismo, tutti cercano un equilibrio che non c’è, cercano di trovare quel punto che impedisce di tornare indietro e che apre a nuovi orizzonti sempre promessi.

Percorro il perimetro di base dello stupa, e poi due altri perimetri più stretti, avvicinandosi alla torre centrale, e ancora una volta mi trovo a cercare l’equilibrio: quando mi elevo, grazie ad angusti gradini, da un livello all’altro mi chiedo cosa mai possa trovarsi di nuovo e di più elevato salendo quelle scale. Si trova solo una nuova ricerca d’equilibrio.

lunedì 11 maggio 2015

Durbar Square (Kathmandu), dove il Nepal si fa più profondo



Continuando nel reportage scritto un anno fa dai luoghi recentemente sconvolti dal sisma che ha colpito il Paese himalayano, ecco il gioiello dei gioielli della capitale. Per ricordare tutte le vittime del terremoto.

Ci sono dei luoghi dove è difficile mantenere la calma spirituale e fisica tanta è la novità che ci tocca affrontare. Mi capita qualcosa di simile a Kathmandu, capitale del Nepal, in questo periodo di lavoro e vacanza in cui non è poi così semplice riposarsi, per l’eccessiva quantità di sorprese che ci si trova ad affrontare nello spazio di poche ore, se non di pochi minuti. Durbar Square è un concentrato di storia e d’arte: era il luogo dove venivano incoronati i re e dove poi governavano (durbar vuol dire palazzo) ed è tuttora il maggior patrimonio architettonico tradizionale del Paese himalayano. Complesso dichiarato nel 1979 “patrimonio dell’umanità” dall’Unesco, è in realtà un complesso di tre piazze sulle quali si affacciano una quantità impressionante di templi e palazzi. C’è il Kasthamandap, XII secolo, la più antica costruzione della regione, edificata col legno di un solo albero di sal. C’è l’Ashok Binayak, santuario dorato dedicato a Ganesh, il dio dalla proboscide. Sul Maju Deval, dedicato a Shiva, si può osservare la folla variopinta in visita alla Durbar seduti sui suoi gradoni. C’è, soprattutto, l’Hanuman Dhoka, il palazzo del potere, fondato nel IV secolo, che contava in origine 35 cortili, ma nel 1934 un terremoto terribile ridusse i cortili a una decina…

L’approccio è di quelli che non lasciano indenni. Arrivo dal mio alloggio dopo aver attraversato una quantità di strade, viuzze, piazze e slarghi trovando non poche sorprese e molta, moltissima voglia di vivere e non solo di sopravvivere. La tensione spirituale, umana e civica è al massimo allorché, in fondo a un viale (in realtà una stradina!) appare uno dei templi della celeberrima Durbar Square, il Saraswati. E comincia allora un grappolo d’ore trascorse a salire e scendere i gradini dei tanti templi che occupano la piazza, anzi le piazze, concatenate assieme senza una logica apparente, ma comunque non senza legami culturali e, soprattutto, estetici. Vago tra un tempio e l’altro, tra un mendicante e l’altro, tra una donna che offre candeline e un’altra che invece propone collane di fiori arancioni, tra una coppia di innamorati che tubano in un anfratto ligneo e uno stormo di piccioni che tubano per i fatti loro attorno a un monaco color zafferano e a uno color della porpora, tra una turba di mocciosi che occupano il carro approntato per il Capodanno locale e un’altra turba che invece gioca a pallone con un grumo sfilacciato di stracci… Perso, o forse ritrovato. Così m’identifico.

Il museo del Hanuman Dhoka è certamente meno vivo, anzi in confronto è quasi morto. Ma espone i capolavori assoluti dell’arte newari, legno e mattoni, niente pietra. L’esperienza più elettrizzante è quella della salita per le nove scale di legno della Torre di Basantapur, il più alto edificio dell’antico palazzo reale, salendo a uno a uno i gradini che conducono all’ultimo livello da cui si gode una straordinaria vista sull’intera Kathmandu. Sotto di noi appare un alveare la piazza omonima, occupata dai mercanti d’ottone e peltro, mentre i templi della Durbar Square appaiono mucchi aggraziati di offerte votive e la folla un liquido oleoso in movimento; senza contare i rumori, che quassù giungono attutiti quanto basta per sentirsi al di sopra della tenzone della sopravvivenza. La discesa per le anguste scale, infide per la profonda oscurità pur in pieno giorno, pare una semplice preparazione psicologica all’immersione nella folla della piazza, concentrato d’umanità e di profusione vegetale e animale, tra mucche sacre e serpentelli sacralizzati, tra ghirlande candide-dorate-arancioni e manciate di petali al vento.