giovedì 31 maggio 2012

Rennes, lo stadio e la grande messe


Visita domenicale nella capitale della Bretagna, per una cresima collettiva allo stadio. 

Capita a volte di giungere in una qualche città senza volerla visitare, ma solamente perché qualche obbligazione ci costringe a visitarla. Così è per Rennes – sono padrino a una cresima –, in questa primavera che oggi splende di sole e d’aria tersa. Rennes, la capitale della Bretagna, la città che venne fondata dai celti armoricani col nome di Condate. In epoca romana venne rinominata come Condate Riedonum. La città sorge ad est della Bretagna, al confine regionale con la Loira. È costruita su una collina, con il lato nord più elevato di quello sud. Si trova all’incontro di due fiumi: l'Ille e la Vilaine.
Oggi si va allo stadio, che solitamente ospita le piroette dei funamboli del pallone dello Stade Rennais, onesta squadra di Prima divisione francese. Eh sì, perché l'arcivescovo della diocesi, Pierre d’Ornellas, in un deserto di indifferentismo se non di ateismo crescente, ha voluto concentrare qui tutte le cresime della sua diocesi, quella dell’Ille-et-Vilaine. 8oo cresime, 800 cresimandi e altrettanti padrini o madrine, parenti ed amici per un totale di circa 20 mila presenti. Il prato è stato decorato con una sorta di pittura geometrica che lascia qualche perplessità estetica, mentre l’insieme della cerimonia sembrerebbe una copia di certi show dei televangelisti americani: musica, mani levate, parole ripetute fino a diventare un ritornello, grande dispiegamento di mezzi, un certo kitsch, come le magliette rosse che sul petto riportano il logo della giornata – una colomba bianca a forma di croce su fondo rosso – e sulle spalle il numero 10 e la scritta Messie, cioè Messia, con un evidente cortocircuito tra la star argentina Lionel Messi e Gesù Cristo.
Le bandiere sventolano a centinaia, maneggiate con passione più che perizia dai diocesani d’ogni età, anche se i bambini e i ragazzi se la godono un mondo, ingannando in questo modo il tempo in una cerimonia che dura la bellezza di quattro ore. Non pochi preti cercano di dirigere l’insieme delle operazioni, con una certa efficacia, provocata più dalla disciplina dei presenti che dalla loro perizia organizzativa, che in effetti lascia molto spesso a desiderare. Indubbiamente lo sforzo pastorale è di quelli che lasciano il segno: i risultati si vedranno nel tempo, anche se le perplessità non mancano, per via del totale ed esclusivo afflato della giornata, assolutamente liturgico, e quindi clericale. Manca la dimensione raccolta del sacramento, a totale beneficio di quella comunitaria e spettacolare. Manca la possibilità di centrare e spiegare il senso più profondo del sacramento della cresima, troppo spesso ormai risultante il “sacramento dell’uscita dalla Chiesa”, perché i cresimati spesso in quest’occasione cessano di frequentare la Chiesa, se va bene fino al seguente matrimonio, anni ed anni più tardi.
Un prete canta (e stona) il Vangelo, mentre i cori paiono ben riusciti, anche se tradizionali nella sostanza. La ragazza che mi trovo ad accompagnare come padrino conversa per tutta la cerimonia con le sue coetanee, cogliendo tuttavia qualcosa di quel che accade, anche qualche parola del vescovo, più come un ipertesto sul quale ci si imbatte che come una sequenza logica di eventi e parole. Mi tornano in mente studi ormai lontani che investigavano il significato del rito e la differenza dalle mascherate, o le arlecchinate, come potrebbero apparire tali manifestazioni pubbliche. La differenza non sta ovviamente nelle forme, ma nella sostanza simbolica dell’evento, della memoria di avvenimenti reali che la storia ha sostanziato. E nella partecipazione della comunità che, debbo proprio dirlo, è intensa e convinta. Anche la valanga di parole pronunciate dal vescovo potrebbero essere verbiage, contributo alla Babele universale, se non ci fosse in ballo il continuo riferimento biblico. Che allontana il pericolo dell’ideologia.
I preti vestiti di rosso scarlatto salgono in fila per uno i ripidi gradini dello stadio. I più anziani vengono sorretti da baldi giovanotti e da gentili amazzoni vestiti con la maglietta “Messie”. La metafora degli “atleti di Cristo” continua. L’efficacia del sacramento non sta in un miracolistico unguento, ma nel cuore sincero di chi dà e di chi riceve. Reciprocità evangelica.

martedì 22 maggio 2012

Parma, della nascente nostalgia

Nel giorno dello stravolgimento politico grillino della città più ricca d'Italia, o quasi, non posso non riandare alle mie origini. E coglierne la natura esuberante, nobile e futuribile. 

Ho scritto di cento e cento città, anni di cammino e di visioni, di muri e gradini. Anni, decenni, alla scoperta dello sconosciuto e del poco o male conosciuto. Mai ho scritto una riga della mia città, quella che mi diede i natali, come si dice, quella che troppo presto abbandonai per poter evitare la blasfemia della mitologia. Parma è rimasta nel mio immaginario una soffusa e circonfusa atmosfera di mistero. Era la città che cacciò la mia famiglia, perché centro bigotto e borghese, perché incapace di capire che il mondo girava: né a destra né a sinistra, ma nella profondità della bellezza.
Parma era l’utero che m’aveva custodito per tre anni, ma che serbavo nella memoria non come un’immagine– tantomeno come una galleria d’immagini –, ma come un’indefettibile assenza, una mancanza di senso, una nostalgia senza lacrime. Parma era un’incrociarsi di viuzze e borghi e slarghi vaghi, avvolti nella nebbia, ammirati attraverso un obiettivo appannato, una finestra battuta dalla pioggia. Era una torre (l’atelier di mio padre); una chiesa (la Steccata di mia nonna); un parco (quello Ducale, di mio nonno); un Antelami oscuro (il Battistero di mio zio); un palazzo (la Pilotta, che nome evocativo, di mia zia); la città matrigna (di mia madre). Non era la mia città, non poteva esserlo e non lo sarebbe mai diventata.
Cinquant’anni più tardi trovo due ore, non di più, per flaner, per girovagare per farini felino garibaldi pace duomo ducale. Due ore per cercare una qualche riconciliazione. No. Qualche filo squarcio soffio. Colgo solo un’atmosfera immobile, cuori liquidi, barlumi di grandeur, ferite nelle pareti. Che riconosco:  l’utero che mi ha custodito, il liquido amniotico che m’ha nutrito, la dimora che m’ha reso atto alla vita in società.
Inseguo per qualche tempo le immagini più parmigiane che si possano trovare in giro: le opere di Antonio Allegri e Francesco Mazzola, il Correggio e il Parmigianino. Una fugace visita alla Diana – Giovanna da Piacenza nel monastero benedettino di San Paolo –, una volta graziosa e birichina, un gioco di muta sensualità, prima di avventurarmi sotto la mole imponente della Pilotta, un po’ trascurata, un po’ altera come un colosso ormai anziano che gonfia il petto e s’atteggia a uno sguardo truce. Salgo le scalinate scure e imponenti del palazzo, spazi che incutono un certo timore ma non abbastanza per impaurire. I passi risuonano amplificati in misura sproporzionata ai locali che attraverso, quasi moltiplicati, esagerati da una qualche immensa cassa toracica. Eccolo, il teatro Farnese, ligneo capolavoro d’ebanistica e di acustica, d’architettura e d’ingegneria. Salgo gli stretti spazi riservati al pubblico, gradini dove accomodarsi è scomodo, ma la visione è perfetta sulla scena di legno e mattone.
Una larga e ampia introduzione alle meraviglie del Correggio, alle sue mezzelune della Annunciazione e dell’Incoronazione della Vergine, e poi ai dipinti della Madonna della scodella e della Madonna col bambino e i Santi Girolamo e Maddalena, nei quali ritrovo arie familiari, ricordi d’infanzia ancora presentissimi: due incisioni a casa nostra li riproducevano, con quella Madonnina piccola e dolce, vicina, sorella e amica, e non solo madre. E poi lo straordinario spazio spirituale ed estetico aperto dalla Schiava turca del Parmigianino, diversissima ma così simile: occhi che mi amano e mi elevano nello spazio dell’amore carnale che diventa spirituale.
L’emozione latita, i sentimenti tacciono. Parma non è mia, ma io sono in qualche modo di questa città, le appartengo per diritto divino, per predestinazione. Me lo conferma una strana sensazione – l’unica – che mi spalma l’anima di balsamo: una nascente nostalgia per quello che questa città avrebbe potuto darmi ma non mi ha mai dato. Una nostalgia per un futuribile. Un aborto culturale, un’incertezza anagrafica. Una vecchia signora avvolta in uno strascico di violetta che muore in un alito di lambrusco, in un conato di ricchezza. Cioè Parma quest’oggi. Nascente nostalgia subito morente.
Salgo i gradini – sproporzionati? – che chiudono come un muro le navate del Duomo. Rossi. Rosa. Gialli. Alle spalle le volte affrescate di romanico e di barocco, e le cappelle di stucchevole ricchezza cromatica. Dinanzi altre volte, altre cupole più lontane, meno accessibili. L’ultimo scalino, una luce breve. La crocifissione dell’Antelami. Pietra nuda amata. Capisco la nascita e la morte. Capisco la nostalgia. Parma s’accende di note.

giovedì 17 maggio 2012

Charleroi, il cui nome è un'icona pop


La città belga è nota da qualche tempo per il suo aeroporto. Ma è anche di più. 

Un’icona del low cost, è Charleroi. Belgio profondo. Piatto. Una città poco coniosciuta in Europa prima dell’avvento delle compagnie aeree economiche, a basso costo, Charleroi orà è conosciuta come fosse una semplice periferia di Bruxelles. Il suo aeroporto ha in effetti preso il nome di Charleroi-Bruxelles Sud. Eppure, sin dal suo nome, la città racconta una lunga storia: già dalla preistoria arrivano tracce di attività metallurgiche e commerciali lungo il fiume Sambre. E edifici pubblici, templi e ville risalgono all’epoca romana. La prima menzione scritta el luogo “Charnoy” è delò IX secolo, nell'abbazia di Lobbes. Nel Medioevo era solo un borgo di 50 abitanti, mentre la storia della città di Charleroi ha inizio nel 1666, quando fu costruita da Francisco Castel Rodrigo, governatore dei Paesi Bassi al servizio di Carlo II di Spagna una fortezza nei pressi del Sambre. Nome cambiato: Charles-Roy. Nella rivoluzione industriale dal 1850 e 1860 conobbe scioperi e scontri: nel 1886, dodici scioperanti sono furono uccisi dall'esercito belga. L’inizio di un’epica storia sindacale, che coinvolgerà soprattutto i minatori della regione. In declino dopo la Seconda guerra mondiale, per il declino dell’industria pesante, ora sembra rinascere per l’industria leggerissima del low cost. Meno interessante della storia è l’abitato attuale, salvo la torre del comune, il beffroy, che è stato inserito dall’Unesco nella lista dei siti Patrimonio dell’umanità.
Si scivola da Bruxelles verso Charleroi per il piatto Paese, autostrade tutte perfette e tutte uguali, verdi in questa verde primavera di vegetazione ancora giovane, perché contenuta dalle rigide temperature degli inverni locali. Campagne pettinate, punteggiate da fattorie che paiono troppo piccole per il paesaggio (e per le pale eoliche), e troppo grandi per la fauna umana, e per quella animale. Impercettibilmente la densità degli alberi diminuisce e cresce quella dei mattoni rossi impilati a formar edifici, lentamente. Fino a giungere alle periferie sempre uguali di palazzoni anonimi o di villette monofamiliare, sogno e dannazione di vite troppo spesso fatte con lo stampino, senza quei guizzi che denotano l’umanità che vive. Con l’intromissione di fabbriche, fabbrichette e stabilimenti e hangar e depositi che non contribuiscono certo a rendere più gradevole l’abitato. Ai rond point la monotonia dell’habitat pare una condanna. Charleroi, alla fine, pare un aeroporto con tutt’attorno un po’ dio vita sociale. E birra. E salsicce. E frites. Low cost.

giovedì 10 maggio 2012

Belluno, che non si prende sul serio


È una di quelle città dove ci si va solo se c’è qualcosa di specifico da fare. Altrimenti al massimo ci si passa in treno. Ma poi ci si vorrebbe restare.

Alle porte delle Dolomiti, Belluno in effetti pare solo un’ancella, un burocratico orpello, un cartello indicatore. Complice una conferenza, mi ritrovo a trascorrere una giornata nella città, 30 mila abitanti, una storia nobile ma non troppo: la cultura paleoveneta, nel V secolo a.C.,  presenta una sua peculiarità locale, anche per la lingua. I reperti attestano un influsso celtico. Erano celtiche le genti ferae che i romani cacciarono verso Nord, iniziando la loro penetrazione nel mondo alpino. La conquista romana, partita da Aquileia nel 181 a.C., fu graduale e pacifica. I primi contatti furono prettamente commerciali: i romani avevano bisogno del ferro e del rame bellunese. Al tempo di Augusto, Belluno divenne municipium, dopo Feltre. In età romana, le zattere di abete, caricate con ogni ben di Dio e della natura, legno soprattutto, scendevano al Po e a Ravenna. Il castro romano corrisponde alla parte più antica della città, issata su una sorta di terrazzo fluviale che scivola verso sud, tra l'alveo dell'Ardo e quello del Piave, col foro in Piazza delle Erbe. La coincidenza della città romana con quella attuale non permette una esatta conoscenza della primitiva struttura urbana; sappiamo tuttavia che la mappa del castrum rimase intatta fin al X secolo.

Il tempo non è dei migliori, cosicché apprezzo non poco i bassi portici – che differenza d’umiltà rispetto a quelli aristocratici di Bologna e a quelli accademici di Padova! –, dai quali ammiro il centro cittadino, issato magistralmente su una cresta rocciosa che domina il Piave. Lo stile del centro non è uniforme (qualche intromissione di cemento la si nota), i palazzi non sono mai imponenti (salvo forse quelli che danno su piazza duomo), le geometrie urbane tradiscono epoche diverse (non trovo una sola via rettilinea). Ma la città pulsa, è viva, sprizza gioia civile, nonostante il ritmo assunto dal deambulare e dall’indaffararsi della gente non sia certo frenetico.

Di Belluno ricorderò le piazze. Quella grande dei maritri, un gran trapezio di verzura circondato da palazzetti in stile gotico veneziano, con un tocco di rinascimento, un che di medievale, uno zeste di barocco, coi tavolini dei bar che invitano all’ozio laborioso di chi elabora pensieri e s’industria per il bene comune, mentre il Teatro comunale, d’uno stuccato più che stucchevole stile neoclassico, chiude la prospettiva ad Oriente. Giusto in tempo per aprirsi su una piazzetta incantevole, coi platani che s’abbassano in un inchino che sfiora la terra, per avvicinare con circospezione alla chiesa goticheggiante di Santo Stefano, ingentilita dal cono di laterizi medievali del campanile.

È per viuzze laboriose ma tranquille che giungo poi ad un altro fazzoletto di selciato a cui s’è dato il nome di piazza, quella delle Erbe, dominata da un palazzo gentile a antico, uno dei pezzi di cui più orgogliosa va la cittadinanza tutta: il Monte di Pietà. Di erbe ce ne sono poche, come di frutti, ma il nome che ricorda altre città venete ben più famose suggerisce un passato contadino che popolava le vie e le piazze: ricordo d’aver visto una foto d’inizio XX secolo della Piazza dei martiri invasa da mucche e vaccari.

E lì dietro Piazza Duomo con i suoi tre gioielli: Palazzo di giustizia, Vescovado vecchio e Palazzo dei rettori. E il grande duomo, un bizzarro concentrato di stili, sormontato da un esagerato campanile che non ha nulla di veneto, né di montanaro, essendo in puro stile sabaudo. Dal vescovado, accanto al Duomo, parquet secolare e mura affrescate, familiarmente, le finestre s’affacciano sul dirupo a picco sul Piave. E allora mi dico che Belluno è un gioiellino perché non prendendosi troppo sul serio ha saputo valorizzare quel poco che la natura le aveva concesso. E il molto che l'uomo vi ha aggiunto.

venerdì 4 maggio 2012

San Salvador, sulla tomba di Romero


Viaggio in Centroamerica/10 - Un martire ormai universalmente riconosciuto, che continua a morire per il suo popolo.

La cattedrale di San Salvador, quella in cui anche il presidente Obama ha voluto trattenersi in preghiera in ricordo di mons. Romero, qui sepolto, da 84 giorni è chiusa al pubblico. Un gruppo di reduci della guerra di liberazione, o guerra civile, l’occupano infatti per protestare contro il governo per promesse fatte e non mantenute, secondo loro almeno. Sulle ringhiere della cattedrale sono affissi degli striscioni bianchi con scritte rosse da cui riesco a capire che chiedono al presidente Don Mauricio Funes Cartagena di dar loro quei benefici di legge, in quanto non hanno né mezzi di sussistenza né speranza di averne. Sono riuniti nel FMNL, cioè la sigla dei guerrillero della guerra civile finita nel 1991, ma non ne sono che una frangia che s’oppone alla direzione del partito. Situazione confusa, quindi. Nonostante i miei due giovani amici siano perplessi e temano situazioni incresciose, bussiamo al cancello. Ci apre un guerrillero nostalgico: bandana nera, pantaloni militari e canottiera nera con scritte anti-imperialiste, una borsa a tracolla che pare sostituire il fucile che non ha. Con lui un’altra decina di personaggi. Denunciano le aggressioni subite, il tentativo di sloggiarli con il gas. Ci fanno accomodare sotto un tendone, mentre aspettiamo l’arrivo della chiave della cripta, che non si sa dove sia né quando possa essere fatta recapitare por nosotros. Conversiamo con tranquillità, dinanzi alle inferriate del recinto della cattedrale, che in realtà vedono aggrapparsi una fila di mendicanti da far paura, di tutte le età e di tutte le etnie. Fanno impressione, non c’è che dire.
Finalmente arriva la chiave, e così scendiamo nella cripta vuota. I passi rimbombano, ricordo vagamente qualche foto del luogo. I nostri accompagnatori ci rassicurano: non ci sarà fatto nulla di male, perché, come abbiamo spiegato, siamo giornalisti per un mass media che lavora per la giustizia e la pace. Buio pesto. Poi accendono qualche fioca luce. La tomba in marmo scuro sta dinanzi al mosaico di mons. Romero, in una cripta che, sulle colonne, porta le raffigurazioni di tutti gli arcivescovi di San Salvador. La tomba è ricoperta di fiori e messaggi, ormai abbastanza invecchiati. C’è odore di marciume. Ma l’impatto è forte. L’idea del martirio mi rimbalza nell’anima e mi costringe a vedere anche la mia vita sotto questo profilo, così come ognuno può fare della sorta. Mi fermo a fotografare e a pregare, mentre gli ex-guerrillero controllano la situazione a debita distanza, con rispetto.