lunedì 29 ottobre 2012

Réthimno, verbi per stupirsi



Viaggio a Creta/2 

Una città veneziana, ma non solo; 

cretese, ma non solo; 

ottomana, ma non solo. 

Forse appena un po' universale.








Passeggiare per borghi sconosciuti.
Cogliere i dettagli che svelano.
Osservare con misericordia la miseria.
Osservare con distacco la ricchezza.
Trovare ricorrenze storiche e artistiche.
Ascoltare i rumori della gente e dell’aria.
Sfiorare le pietre per carpirne i segreti.
Annusare fiori, frutta e piante, per respirare.
Baciare la memoria dei vivi e dei morti.
Sollevare la mano raggrinzita del tempo.
Stringere la mano vigorosa dello spazio.
Indovinare l’origine di una musica.
Assaggiare un brano di storia culinaria.
Sbirciare attraverso imposte rabberciate.
Ammirare edifici che cadono in rovina.
Sorbire un ouzo nella frescura.
Contare le luci sulla baia.
Scorrere con lo sguardo il faro veneziano.
Passeggiare e perdersi nelle viuzze.
Salire i gradini della fortezza imponente.
Scendere i gradini della debolezza umana.
Abbandonarsi sui cuscini d’un caffè sul porto.
Disegnare i reticoli delle pietre del molo.
Farsi sfiorare dalle onde sulla sabbia.
Farsi cullare dalla bonaccia sulla sabbia.
Gustare agnello al pomodoro della nonna.
Contrattare il prezzo d’una tovaglia.
Sorbire un succo di pesca al porto veneziano.
Giocare coi monelli nella New Old Town Square.
Cogliere nelle architetture quel che è turco.
Rintracciare le tracce lasciate dei romani.
Sopportare il kitsch del turismo.
Seguire le luci tremolanti nelle scie d’acqua.
Amare Réthimno.
Distaccarsi da Réthimno.

mercoledì 24 ottobre 2012

Akrotiri, da un mucchio di sassi


Viaggio a Creta/1 - Sin dalle prime pietre, dai primi scogli, dai primi cieli e dai primi mari, l'isola si svela.
Agía Triáda, Santa Trinità, un monastero a cinque chilometri dall’aerodromo, come si dice in greco. Lo trovo facilmente, è massiccio, non pare avere al suo interno straordinarie bellezze. Eppure i gatti che mi si strofinano alle caviglie paiono invitarmi ad aver fiducia. Ed è così che penetro sotto il portale evidentemente di fattura veneziana (sono opera dei fratelli Geremia e Benedicto Zangarolo, veneziani convertitisi all’ortodossia), così come la chiesa che tradisce gli stilemi del rinascimento veneziano del XVII secolo: semicolonne, finto frontone e finto cornicione. Deambulare nel cortile del monastero a scoprire dettagli più o meno insignificanti, più o meno artistici, mi spinge a pensare che non è possibile capire l’isola di Creta e la sua storia senza viaggiare, almeno metaforicamente, nelle vicende della Chiesa greco-ortodossa, che di dolori e di incertezze ne ha patiti non pochi. Noto degli alberi che offrono limoni, aranci e cedri che pendono dagli stessi rami. Qualcuno lo considera un miracolo, chissà…
Con un collega ci siamo dati appuntamento all’aeroporto di Chaniá, La Canea nell’isola di Creta, per poi recarci a un congresso in quel di Réthimno, più ad Oriente. Ma tra i nostri due voli intercorrono tre ore, tre lunghe ore di aeroporto, infinitamente noiose. Ho però affittato una macchinetta per i nostri spostamenti, e quindi decido di andare un po’ a zonzo senza allontanarmi troppo dall’aeroporto restando nella penisola di Akrotiri che, all’atterraggio, m’è sembrata un cumulo di pietre qua e là ingentilito dai filari degli olivi.
Riparto, sulla montagna c’è un altro monastero, quello di Gouvernéto. La strada s’inerpica, viene abbandonata anche dai radi ulivi della penisola, s’intrufola in una stretta gola che pare non avere uscita. Finché non giungo ad un verde ripiano su cui si erge un altro parallelepipedo, come una fortezza, questa volta un po’ sommario e in restauro. Oggi i monaci sono rinchiusi in ritiro, tutto è chiuso. Non mi resta che salire un po’ più in alto, fino ad una sorta di valico. Ed è lì che scopro un’altra verità di Creta: non è possibile capirla senza guardarla dall’alto, con la sua eterna commistione e separazione tra pietra ed acqua.
Riprendo l’auto e in una ventina di minuti scendo al mare, al paesello di Tersanás, una stretta spiaggia, qualche barchetta attraccata al modesto molo, un ristorantino, qualche casetta. Scendo dall’auto, faccio quattro passi per sgranchirmi le gambe, mi siedo ad annusare l’odore del mare sotto un ulivo. C’è pace, c’è serenità, s’è l’acqua. Impossibile capire Creta senza tener conto non solo che è un’isola, non solo che vive in gran parte sul mare e del mare, ma che l’acqua stessa è il simbolo della sua natura liquida, che avvolge e penetra l’altra sua natura, quella solida della pietra. Non c’è contraddizione.

lunedì 15 ottobre 2012

L'ambiguità del principe Sihanouk



E' morto colui che era monarca della Cambogia prima della carneficina dei khmer rossi. Ricordandolo con un testimone a Phnom Penh. (dicembre 2009)

È una città assai movimentata, Phnom Penh, ma nel contempo più tranquilla di tanti altri centri dell’Estremo Oriente. Motorini e tuk tuk, tutto si paga, anche scattare foto al mercato. Il palazzo reale è bello, pulito, asettico. Spicca – ma che ci fa da queste parti, perbacco? – il padiglione à la française, regalo dell’imperatore Napoleone III. Una delegazione vietnamita è in visita alla città, e rallenta ogni movimento. C’è chi si lamenta ad alta voce dell’eccessiva vicinanza dell’attuale governo ai vietnamiti comunisti, e chi sostiene, a voce invece sommessa, che ancora ci troviamo in un regime che nei fatti è una pratica dittatura. Non c’è libertà di stampa, né di opinione, tutto pare essere ancora sotto il controllo dei servizi segreti, nemmeno tanto segreti, poi: l’economia s’è fermata da due o tre anni, anche il turismo sta rallentando. Il commercio ancora funziona, ma c’è scarsissima produzione locale, perché anche qui è la Cina a spandere le sue armate economiche. Nulla di nuovo sotto il sole!
Al mercato c’è ressa, c’è puzza di pesce e di verdure fermentate, c’è dozzinale mercanzia, ci sono donne, tante donne, quasi esclusivamente donne. Come sempre, anche qui sono loro a essere il vero motore della società, e il necessario collante sociale.
«Se la ricchezza sono i figli, la montagna della fiamma è la suocera», mi dice seduto ai tavolini di un ristorantino immerso nel mercato un uomo sulla sessantina che ha voglia di praticare il suo francese d’antan. Poi mi spiega che ciò significa che è la parola della suocera quella che può dare fuoco alla montagna. «Da sposati gli uomini vanno a vivere dalle suocere – mi dice l’uomo, affabile, cortese, un po’ alterato forse solo perché emozionato di parlare con uno straniero –. Ed è la suocera che comanda, è lei a cui bisogna versare tutto il denaro che si guadagna. E se l’uomo non raccoglie abbastanza denaro, sono dolori! Non avevo soldi per comprare la casa, e così mi sono deciso a cinquantacinque anni ad allontanarmi da mia moglie, e ritirarmi a vivere da solo. In soli quattro anni, con i miei modesti guadagni da professore sono riuscito a comprarmi un terreno in città e a costruirvi una piccola casa, sufficiente per abitare degnamente. Eppure sono stato e sono ancora fedele a mia moglie, perché dice il proverbio: “Le foglie dell’albero debbono cadere lontano dal tronco”. Mia moglie, come tutte le donne, è una vipera. Prima di sposarla era bella e gentile; dopo il matrimonio s’è trasformata improvvisamente in una megera spietata e cinica».
Passiamo poi a parlare della dittatura – «ma devi assolutamente tacere il mio nome, perché altrimenti mi tagliano la gola» –, che al mio interlocutore appare ancora assolutamente reale. «Abbiamo cambiato il conducente, ma il pullman è rimasto lo stesso – mi spiega –. Poco è cambiato dai tempi di Pol Pot, e ancor oggi si uccide per il potere. Ora non c’è più ideologia comunista, ma c’è l’ideologia del potere per il potere. Si è arrivati ad uccidere la propria razza per il potere. Non sapevamo nulla di Pol Pot e delle sue reali intenzioni. Solo più tardi abbiamo saputo di quel che era successo. Le radici di questo governo sono ancora nei khmer rossi, , e c’è ancora servitù nei confronti dei vicini vietnamiti comunisti. Il governo, comunque, si regge sui brogli elettorali, qui non siamo in purgatorio, ma in inferno! Ha visto il grattacielo in costruzione al centro? Tutti gli appartamenti sono stati già venduti. A chi? Alla gente del governo e dell’esercito! Se vogliono, con una firma possono vendere intere strade, interi caseggiati! E poi si parla di libertà?».
Continua il mio interlocutore, un fiume in piena: «Ci sono intieri quartieri vietnamiti in cui la popolazione non rispetta le leggi cambogiane. Fanno quel che vogliono e rubano al nostro Paese. In ogni casa sono state nascoste delle armi. Nel 1997 c’è stata una rivolta contro i vietnamiti, ci sono stati incidenti: le autorità parlano di 4 o 5 morti, ma in realtà sono stati circa 300. I cadaveri sono stati visti galleggiare sul Mekong, chiusi in sacchi di riso, e destinati a scomparire in mare».
Ripercorre poi la vicenda cambogiana dal colpo di Stato di Lon Nol, all’improvvisa nascita dei khmer rossi – «erano pronti da tempo, perché in una notte sono apparsi ovunque» –. E poi l’invito di Lon Nol ai vietnamiti del Sud per combatterli, l’appello del principe Sihanouk, fuggito prudenzialmente in Cina, a ritirarsi nella foresta per combattere il fedifrago che l’aveva cacciato, l’arrivo dei khmer nelle città, le epurazioni, gli assassinii sistematici di tutti quanti avevano studiato, degli “intellettuali”, i due milioni di morti ammazzati e il milione morto di fame – «un chilo di riso doveva sfamare circa 30 persone!» –, le famiglie smembrate. «Io stesso ho perso mio padre, un professore, due sorelle e un fratello, uccisi sotto tortura. Mio padre è morto per i colpi di bastone ricevuti, mio fratello ucciso da un colpo di pistola alla tempia, le mie sorelle pugnalate al cuore. La mia famiglia aveva la colpa di essere ricca. E tutto per colpa di Pol Pot, che era un uomo di Sihanouk. È lui che ha dato l’ordine di iniziare la carneficina! Il colpo di Stato di Lon Nol era stato “permesso”, se non “voluto”, sihamoni, dallo stesso principe. Il quale ora ci ha lasciato un figlio come re, un ignavo, un incapace, un corrotto».
Riprendo la mia passeggiata nel mercato dopo aver salutato il mio interlocutore, con il cuore un po’ più pesante di prima.

martedì 9 ottobre 2012

Lago Tamblingan, la foresta, le canoe e le tende



La bellezza dell'ambiente non riesce a nascondere il dramma della popolazione locale vittima di una grave inondazione

Nel cuore dell’isola indonesiana di Bali, piuttosto decentrato verso Nord a dire il vero, tra vulcani e valli che ripidissime scendono al mare, tre laghi vulcanici sono attrazione non solo e non tanto per i visitatori stranieri, quanto per il turismo locale. L’accesso infatti non è dei più agevoli e la struttura turistica lascia a desiderare. Bisogna accontentarsi, meglio così. I laghi Tamblingen, Buyan e Bratan e Bedugul hanno un che di familiare e di semplice che vien proprio voglia di praticarli un po’. Scelgo il primo, il più piccolo, il meno accessibile, il meno frequentato. E penso di non sbagliarmi, non solo per il suo accreditamento geografico: il lago Tamblingan.

Vi si arriva percorrendo una di quelle stradine asfaltate ripidissime – spesso e volentieri oltre il 20 per cento – a cui il viaggiatore balinese fa presto il callo. Ed è una buona preparazione, quella di scendere in tre chilometri i circa 300 metri di dislivello che separano la costa della montagna dallo specchio d’acqua. La vegetazione è lussureggiante, i chiodi di garofano stesi ad essiccare profumano l’aria, i tempietti sono tutti cinti dal drappo rituale e con offerte fresche fresche dinanzi a loro, l’incenso acceso, i fiori arancione e qualche frutto.
Una sorta di cooperativa riunisce coloro che lavorano nel parco naturale del lago. È con loro e solo con loro che ci si può avventurare nelle foreste e nello specchio d’acqua. Non nego una certa iniziale ritrosia ad accettare tale imposizione, ma non c’è nulla da fare e le facce buone e sorridenti dei ragazzi mi fanno accettare di buon grado. Arit, questo il nome del mio accompagnatore, mi porterà in un breve cammino nella foresta di un’ora circa, per poi tornare insieme con una delle canoe tipiche della zona. Il tutto per una dozzina di dollari. È piccolo, Arit, pare un adolescente, anche se ha 24 anni ed una figlia. Parla un inglese stentato, senza vocali, ma ci si capirà sempre meglio nel corso della convivenza. Che nella foresta permette di ammirare una vegetazione esuberante, che segmenta la luce per poi moltiplicarla, rilanciandola, raffinandola. Alberi giganteschi si ergono maestosi trascinando con sé verso l’alto piante parassite di dimensioni più che ragguardevoli. Prati di felci si divertono a solleticare il gusto estetico di chi li fende, come uno specchio d’acqua, creando flessuosi cerchi concentrici. La foresta, insomma. Dopo 40 minuti, ecco l’avvisaglia del tempio che è la nostra meta, il Pura Dalem Gubug: d’improvviso nella boscaglia appaiono inusitati una dozzina di ombrelli bianchi e gialli, i colori sacri (anche) da queste parti. Visione divertente, oltre che insolita. E poi il tempio, modesto e a pelo d’acqua: fino ad un mese fa era inondato per via delle grandi piogge di febbraio e marzo. È in questi frangenti che Arit mi racconta il dramma della sua famiglia: da tre mesi vivono sotto delle tende portate dalla protezione civile indonesiana, dopo un mese trascorso semplicemente nella foresta, perché il villaggio è stato anch’esso invaso dalle acque: Tamblingan non è ancora praticabile.
Ma si riparte, verso la pagoda a undici livelli, modesta ma ben tenuta, che s’erge su un promontorio al centro del lago di Tamblingen. Elegante, bella, protetta da due ombrelli bianchi ad Occidente e da due gialli ad Oriente. Una breve sosta, il tempo per Arit di raccontarmi della sua famiglia, povera al limite della miseria. Poi scendiamo il promontorio verso la pagaia, doppia pagaia in realtà, che ci porterà a destinazione. Al comando c’è una giovane donna, una dei 32 abitanti di Tamblingan. In mezz’ora di grande calma attraversiamo il lago, dirigendoci proprio verso il villaggio di Arit che si fregia di un tempio a suo modo imponente, ora un’isola ma non sempre lo è, con tre pagode a undici livelli che impressionano non poco. E, alla loro ombra, ecco le case del villaggio, un informe conglomerato di legno, bambù, plastica e lamiera, brutto e precario. Dietro di esso, sotto i primi alberi, spiccano i colori sgargianti ed elettrici delle tende della protezione civile, nelle quali l’intero villaggio s’è trasferito: ordinato e a suo modo pulito. Ci sono tante gabbie di uccelli multicolori, che rallegrano l’aria e l’ambiente, e qualche vecchio e qualche giovane, e la madre e la figlia di Arit, e una loro dolcissima amica, e suo fratello che sogna una moto, mentre la moglie di Arit è al lavoro, non si capisce dove. A Tamblingan la vita scorre in fondo come prima, in mezzo alla natura. E forse i letti da campo della protezione civile indonesiana sono più comodi di quelli vetusti che i 32 abitanti avevano nelle loro case in riva al lago. Tornando verso l’auto m’accorgo che i campi, tutti i campi, sono coltivati a fiori. Per le offerte votive.

martedì 2 ottobre 2012

Il tempio alla chiusura del lago



Pura Ulum Danu, sullo specchio d'acqua balinese di Batur, testimonia la fede fanciullesca e profonda delle popolazioni locali

Il lago Batur, a Bali, è naturale senza esserlo, perché s’è creato in seguito alla tremenda eruzione del vulcano Gunung Batur, nella notte dei tempi. Ha la forma di una semiluna: sulla riva orientale è lussureggiante ed esuberante in ogni sua espressione – si tratta delle pendici del vulcano Gunung Abang, più calmo del suo confratello –, mentre sulla riva occidentale, che porta invece alla cima del Gunung Penulisan – ogni giorno e ogni notte manifesta in qualche modo la sua esuberanza che sale dalle profondità della Terra – è brullo, arido, lavico. Eh sì, non è che un’enorme colata di lava che la vegetazione fatica non poco a ricoprire. Tre paesetti sopravvivono alla base del vulcano, sulla riva del lago; gli abitanti vivono di pesca e di quel po’ di turismo che viene dallo stesso vulcano. Una strada asfaltata corre lungo il lago, tracciata sul terreno senza tanti scrupoli, e quindi si rivela un continuo saliscendi in brevissimi spazi e senza porre attenzione alle pendenze. Se poi si considera la proverbiale usanza balinese di tracciare sedi stradali strettissime, ecco che ci si può fare un’idea dei rischi che si corrono su questa stradina. In fondo al lago, in fondo a questa strada e in fondo al paesino di Sonh, sorge, addossato all’esuberante vegetazione dei primi contrafforti del vulcano Abang, un tempio che non ha particolari meriti né artistici né storici, ma che risulta assai venerato, non solo dagli abitanti locali, ma da tutti i balinesi del Nord. Prova ne sia il fatto che anche oggi interi villaggi si sono spostati fin quassù (o quaggiù) con ogni mezzo (di preferenza i camion verdi Isuzu, scelti perché molto stretti) per celebrare coi propri sacerdoti i riti del villaggio.
È così che, arrivato a destinazione, capito nel bel mezzo di una celebrazione indù che ricorda alla divinità la fertilità necessaria dei loro campi. Mi cingono col tradizionale sarong, raccomandandomi di non accedere al tempi principale per rispetto cultuale. Ma tant’è, i canti, le musiche, le orazioni sono così insistenti e invitanti che non riesco a trattenermi e, seppur con rispetto e adeguata circospezione, penetro nel recinto sacro. Circa 300 persone sono sedute per terra alle spalle degli officianti vestiti di bianco dal turbante alle babucce, in file regolari, ma con una certa anarchia sui bordi. Qualcuno si accorge dell’intrusione, ma inequivocabilmente mi sorride, tutti mi sorridono, tutti paiono essere grati della mia presenza. Forse solo i sacerdoti si direbbero scontenti…. I riti si susseguono: campanelle suonano di continuo invitando a compiere gesti coordinati con le mani: una di queste preghiere delle dita mi colpisce particolarmente, quello di sollevare le mani giunte sopra il capo, lasciando sporgere oltre le estremità delle dita un petalo di fiore, solo uno.
Il sole finalmente fa capolino al di sopra del vulcano, cadendo dall’alto quasi a perpendicolo su queste mani e questi petali, conferendo alla scena qualcosa di magico, o piuttosto di divino. Ma è l’ora delle processioni e delle aspersioni: donne, uomini e bambini portano e depongono le loro offerte su uno degli altari del tempio, di preferenza su quello che giace alla base della alta pagoda a undici livelli, elegantissima ed ardita, mentre i preti in bianco aspergono abbondantemente di acqua benedetta il capo dei presenti, molti dei quali, non so per che motivo, hanno la testa coperta da foulard rossi. E la fine della cerimonia fatalmente s’avvicina; la gente si solleva guardandosi intorno gioiosissima, in una sorta di abbraccio collettivo che mi commuove non poco, anche perché il primo ad esservi coinvolto è il sottoscritto, col quale non pochi desiderano farsi fotografare. I fedeli escono, consumano un frugale pasto a base di riso, fagioli e pesce, a quanto ne capisco, e poi risalgono diligentemente sui loro camion verdi senza la minima recriminazione, nonostante li attendano quattro ore abbondanti di traballamenti vari e la visita ad altri due santuari lungo il cammino di ritorno. E io riprendo la “mia” Toyota Avanza e li seguo lungo la strada della lava, felice della cerimonia appena conclusa ma anche e soprattutto per aver potuto conoscere qualche brano della vera cultura balinese non ancora toccata, se non di striscio, dal demone del turismo. Nel tempio alla chiusura del lago.