domenica 25 luglio 2010

I monumenti al nulla


Non sappiamo più erigere statue e steli plausibili, perché non si sa più a chi dedicarli.

Leggevo proprio ieri su un articolo de la Repubblica – autore: Gabriele Romagnoli; titolo: “Se questo è un monumento” – che l’Europa non sa più erigere monumenti sensati, cioè motivati da valori condivisi o da personaggi unanimemente apprezzati. Così, per adornare piazze e viali, si ricorre alle più bizzarre forme di monumenti, il più delle volte astratti o di difficile decifrazione – puri estetismi –, dedicati alle cose e ai mestieri più strani, mai alle persone realmente vissute.

Bratislava è una delle città europee che, da sempre, ha dedicato grande spazio all’arte statuaria, tanto che non c’è piazza, viale o lungofiume che non abbia la sua giusta dose di monumenti di bronzo, di marmo o di acciaio. Ogni epoca ha avuto i suoi, ovviamente, talvolta poi distrutti da un cambio di regime, talvolta conservati per il tacito consenso della popolazione. Finito il comunismo più di vent’anni addietro, la città non ha abbandonato la sua tradizione monumentale; ma, una volta esauriti quelli dedicati agli ultimi eroi della resistenza anti-sovietica, ha dovuto “abbassare i toni”, erigendo statue e steli – anche assai attraenti, peraltro – ad attori, registi, musicisti, fotografi. Per finire col convergere su temi ludici o effimeri, come la rappresentazione di animali, auto, barche, candele…

È vero: quali possono essere nella nostra vecchia Europa i valori condivisi e le personalità universalmente riconosciute come imperiture? Divisi sulle radici stesse del continente, perse per strada le grandi figure alla Schumann, alla De Gasperi, all’Adenauer, cosa ci resta? Gorbachov e le sue conferenze da centomila dollari? Mitterrand e i suoi finti attentati? Craxi e i suoi ozi hammamettiani? Schroeder e il suo gas vetero-sovietico? Vien da ridere! Questa gente i suoi monumenti se li è già eretti da viva, in forma contemporanea, cioè nei media ossequienti. Ma tali monumenti, una volta passata la moda e cambiato il vento, si sono distrutti da soli, senza dover aspettare nemmeno di essere abbattuti dalle folle deluse. E nessuno – salvo per burla, come il cenotafio di Craxi realizzato da Cattelan – ha pensato di erigere monumenti bronzei o marmorei a tali personaggi. Perché i mass media sembrano sì esaltare esageratamente i protagonisti del momento, ma nel contempo così facendo li mettono alla berlina, rivelandone i lati più mediocri, grossolani, ridicoli.

Forse solo alcuni personaggi della spiritualità universale meriterebbero oggi di essere innalzati sui piedistalli – Giovanni Paolo II, Madre Teresa, Ramakhrishna, Etai Yamada… – ma qui in Europa la religione è stata bandita dalla vita pubblica, dall’agorà, dalla piazza, che preferisce adornarsi di scherzi estetici che non impegnano nessuno… Peccato! Anche questo è un segno che l’Europa è morta. Viva l’Europa!

lunedì 19 luglio 2010

Positano, scale verso il paradiso

Tempo di vacanze, tempo di mare e monti. Ricordi del 2003.

Così Roger Peyrefitte definì la costiera amalfitana, da Salerno fino a Positano: «Tutto è fatto per dare l’impressione che si sia fuori dal mondo, in un paese incantato: la ferrovia non ha scavato queste montagne; non vi è aerodromo; la strada e il mare sono le uniche vie di accesso. Quelle case bianche, quelle torri, quei castelli, quei palazzi, quei campanili sgranati su erte scoscese sembrano altrettante scale lanciate verso il paradiso». Come non convenire?

Leggo queste righe da una terrazzetta pavimentata con piastrelle di quarta categoria, imbiancata dozzinalmente, ricoperta d’un vecchio e tarlato glicine, protetta da orribili parapetti metallici, appoggiato su un tavolino traballante ricoperto di una tovaglia di plastica maleodorante, seduto per di più su una sedia scomoda e dozzinale. Eppure dinanzi a me si apre una delle più incantevoli costiere del mondo, forse addirittura la più straordinaria. Una serie di brevi promontori rocciosi che paiono sipari scesi dal cielo, uno sull’altro, dal primo, quello dell’albergo più pittoresco al mondo – lo dicono tedeschi, francesi e americani, per una volta d’accordo –, il San Pietro, fino all’ultimo, i faraglioni di Capri, che chiudono la scena prima del mare nostrum. A mezza distanza, le isolette dette “Li galli”, luogo di delizia e perdizione per artisti e mecenati, sembrano voler indicare a chi come me ammira la scogliera che quelle scene sovrapposte sono semplicemente delle illusioni del cielo, che non si era accorto della presenza dell’acqua, tant’era la sua trasparenza.

La sequenza delle scene sovrapposte m’affascina, e non resisto alla tentazione del dolce naufragio in questo mare che ispirò il poeta triste. Quattrocento e passa gradini per scendere alla cala delle sirene, con la prospettiva cangiante per l’increspatura dello specchio d’acqua che si fa via via più imponente, lasciando alle scene sovrapposte uno spicchio di cielo vieppiù limitato, quasi annullandone l’effetto di profondità, saldandole l’una all’altra in un profilo degradante che pare realmente una scala lanciata verso il paradiso. Finché mi chiedo, arrivato a pelo d’acqua, se il paradiso sia l’azzurro del cielo o quello del mare. Forse entrambi.

L’alba successiva mi riserva un’altra tentazione, verso il cielo questa volta. Duemila e passa gradini verso Nocelle, un grapolo di case bianche come la calce aggrappate ai contrafforti del Monte Faito. Cerco la via d’ascesa, da Laurito, poi da Arienzo. Una scalinata interminabile sale al piccolo villaggio, regolare come un’opera d’arte, accompagnata lungo tutto il suo zigzagare che sposa la roccia dalle terrazze di olivi e arance, separate da ciuffi di fichi d’India e da fichi nostrani che spuntano di mezzo ai muretti a secco che trattengono la poca terra di questa contrada aspra e benedetta. Più m’innalzo sul declivio, più le scene sovrapposte si stagliano l’una sull’altra, con i loro profili cangianti e inequivocabilmente unici, straordinariamente unici. Fino alla terrazzetta della piccola chiesa di Nocelle, sul cui bordo una mano sapiente d’artigiano ha intagliato brevi panchine sull’infinito. Ed ecco la sorpresa, speculare a quella della cala delle sirene: lo spicchio residuo è lasciato al cielo che è mare, mentre è la teoria di scene teatrali che occupa il proscenio. Ma l’effetto è identico: un’unica scalinata verso il paradiso, dai gradini certo più elevati, ma assai simile a quella visibile da basso.

Aveva ragione Roger Peyrefitte, ancora lui: «La strada che da Salerno conduce a Positano è sicuramente una delle più belle al mondo. S’inerpica a fianco di montagne selvagge e sopra precipizi ricopererti di vigne e aranceti, lungo una costa frastagliata, dove zampillano pennacchi di schiuma, quando negli anfratti più tranquilli, non vi si dispiegano tutte le sfumature dello zaffiro».

lunedì 12 luglio 2010

15 anni dall'eccedio di Srebrenica. "Cartolina dalla fossa"

Il Parlamento europeo ha proclamato l’11 luglio Giornata della memoria per le vittime del genocidio di Srebrenica, in Bosnia. “Cartolina dalla fossa”, di Emir Suljagić.

Ci sono dei luoghi sulla Terra, benedetta e maledetta Terra, che una volta visitati non cessano di “abitarti”, di tornare alla memoria nei momenti più impensati e nelle forme meno usuali. Luoghi che sono stati testimoni della barbarie e che continuano a testimoniarla, a futura memoria. Luoghi che hanno visto lo scatenamento dei sentimenti più bestiali che uomo possa sperimentare, ma anche dei sentimenti più profondi.

Uno di questi luoghi è Srebrenica, dove ebbi la ventura di inoltrarmi nel 2005, a dieci anni esatti dall’uccisione di più di 8 mila bosniaci musulmani da parte dei cetnici serbi. Era l’11 luglio 1995, data di una retata che pose fine all’esistenza autonoma di un’enclave bosniaca all’interno del territorio reclamato dai serbi. Una macchia che i vari Mladić e Karadžić pretesero di lavare con uno dei più efferati genocidi che il suolo europeo abbia conosciuto. Certamente il crimine di guerra più efferato che il suolo europeo abbia conosciuto dalla fine della Seconda guerra mondiale.

A ricordare quei giorni, esce per Beit-Memoria un libro che non lascia indenni. È scritto da Emir Suljagić, un testimone e un sopravvissuto all’eccidio: Cartolina dalla fossa. Diario di Srebrenica (pp. 270, euro 20,00). Giovane proveniva da una cittadina del Nord del Paese. Assieme a migliaia di altre persone si era rifugiato nell’enclave di Srebrenica per sfuggire alle retate e alle operazioni tanto simili a quelle di una programmata “pulizia etnica” messe in atto dall’esercito cetnico. Tutti loro pensavano, meschini, che in quella città rimasta fieramente indipendente avrebbero trovato la tanto agognata salvezza.

Sappiamo bene, invece, come andò a finire: dopo tre anni di assedio, di continue scaramucce, di fame e di eroismo, di spaventose bestialità generatrici di altre bestialità, per una «leggerezza burocratica» delle truppe Onu di interposizione, in quel momento olandesi, le truppe del generale Mladić riuscirono a entrare senza opposizione nell’enclave, avviando una sistematica eliminazione di tutti i bosniaci musulmani presenti nel territorio. Eliminazione che avvenne nello spazio di alcune settimane. In totale più di 8 mila morti ammazzati. Non si saprà mai la cifra esatta.

Delle pagine di Emir Suljagić colpiscono soprattutto quelle in cui, con lucida capacità narrativa, lo scrittore-testimone racconta con profusione di dettagli e di ricordi significativi, la trasformazione degli assediati in uomini e donne condannati a morte in via preventiva. Gente lasciata “disumanizzarsi” giorno dopo giorno, mutando in una congrega sbandata di ladri, traditori, violenti. Per fame. Per terrore. Per abbandono.

Immaginate una stretta valle bombardata per tre anni da ogni parte, senza calendari né orari precisi. Immaginate gente che mangia una volta al giorno, poco e male. Immaginate delle incursioni aeree senza nessuna contraerea, ad attaccare casa dopo casa. Immaginate, solo immaginate. Perché le parole di Emir Suljagić non fanno immaginare, fanno rivivere la realtà. Cruda. Spietata. Intollerabile.

Di Srebrenica l’immagine che più mi torna in mente è quella delle case scarnificate, con lo scheletro di cemento armato – in ogni caso precario e artigianale – a cui sono rimasti attaccati a volte penzolante moncherini di muro. Gli altri mattoni sono stati prelevati, assieme a tutto ciò che eventualmente esisteva, ed ora compongono altri muri, magari quelli della casa del vicino serbo. Le parole di Emir Suljagić restituiscono in qualche modo questi mattoni.

martedì 6 luglio 2010

Nasr Hamid Abu Zayd se n'è andato

In ricordo del noto esegeta e studioso musulmano, egiziano trapiantato in Olanda, riporto quanto mi aveva detto in un'intervista del 2005.

Viveva e insegnava in Olanda, a Leida e a Utrecht, dove aveva una cattedra di studi islamici. Il prof. Nasr Hamid Abu Zayd aveva una storia lunga e tormentata alle spalle, che aveva raccontato in un delizioso e terribile libro, Una vita con l’Islam (Il Mulino). Si professava musulmano, e nel contempo era esiliato dal suo Paese assieme alla moglie, da quando nel 1995 una corte gli intimò di divorziare dalla stessa cara Ibtihal perché murtadd, apostata. Poi ebbe la ventura di tornare in patria, dove è morto due giorni fa per una meningite fulminante.

Esperto d’islamologia, aveva da sempre messo una particolare attenzione sugli studi esegetici del Corano. La sua visione andava spesso controcorrente, ma indubbiamente era uno dei massimi esperti degli sviluppi recenti della galassia islamica. Secondo Susanna Nierestain, «in lui permane una certa ambiguità… riformisti sì, ma intrisi di ostilità nei confronti di Israele, dell’America, di un occidente che dicono imperialista e rapace». In realtà avevo incontrato un uomo ragionevole e mite, rigoroso.

«È ben noto – mi aveva detto – che l’esegesi coranica non tradizionale sta prendendo sempre più terreno. Persino alcuni ulema tradizionalisti hanno incominciato, sotto la pressione delle nuove metodologie di esegesi e di critica testuale, a citare o applicare una certa lettura moderna della Scrittura, pur senza ammetterlo. Se ne trovano esempi in Egitto, in Siria, in Tunisia e altrove. Anche dentro le istituzioni tradizionali c’è chi sta tentando di introdurre una nuova metodologia di interpretazione, non solo per il Corano, ma anche per la sunna. Ma ciò non significa che il trionfo dell’esegesi moderna sia dietro l’angolo: i problemi ci sono, perché le istituzioni stanno difendendo la propria autorità in qualche modo minacciata dal nuovo metodo». Ottimista? «La sorprende? Ritengo che questo nuovo approccio avrebbe potuto imporsi già tempo fa, se la situazione palestinese non fosse stata così grave e se gli statunitensi non avessero interferito per i loro interessi non solo negli affari mediorientali, ma in quelli dell’intero mondo musulmano».

Come ha compreso il Corano nelle varie fase della sua vita? «Essendo stato allevato secondo il modo islamico più tradizionale per una famiglia egiziana – mi aveva risposto –, ho appreso l’Islam da mia madre e da mio padre. Non era l’Islam di cui si sente parlare oggi: non c’era la televisione nel mio villaggio, ma soltanto un’unica radio. Così dovevo imparare la Scrittura dalle persone che mi circondavano, da mia madre che mi sussurrava nelle orecchie, sin dalla nascita, alcuni capitoli della storia del Profeta, e quando piangevo mi recitava una sorta di cantilena coranica. Ricordo che, ero veramente piccolo, mi piaceva questo tipo di attenzioni, e qualche volta piangevo apposta per ricevere questi trattamenti. È così che si impara la religione, quando vedi tuo padre pregare a casa, e poi vai con lui alla moschea di venerdì. Così tu impari la religione, ma ancor più conosci il contesto sociale che esiste fra le persone nel tuo villaggio, e comprendi che è tale contesto sociale che ti accudisce. Capisci che le persone si preoccupano le une delle altre, sono pronte ad aiutarsi non appena c’è bisogno, come quando scoppia un incendio nel villaggio o un allevatore perde gli animali. Questo è il significato della religione che ho imparato, intriso di importanti valori sociali».

E quando ha conosciuto meglio la Scrittura islamica? «Ho imparato a memoria il Corano – mi aveva risposto – quando ero ancora molto giovane: ero capace di pronunciarlo, ma non di capirlo. Negli anni Settanta mi ritrovai invece incapace di accettare qualsiasi cosa senza realmente capirla; così ho incominciato a leggere sull’Islam ogni tipo di libri, e poi a riflettere da solo. Fino a quando non sono diventato uno studioso, e ho scelto di approfondire l’esegesi. Sono così cominciate a sorgere in me tante domande sul Corano, a cui ho cercato di rispondere con la fede e la ragione, insieme». Ha capito il significato dell’Islam? «Non affermo di aver capito tutto, perché questa sarebbe un’affermazione pericolosa: io sto solo cercando di fare del mio meglio, conscio dei miei limiti».


lunedì 5 luglio 2010

Caduta libera in Cecenia

Nicolai Lilin, scrittore della Transnistria da qualche tempo cuneese, pubblica per Einaudi un romanzo-verità sulla guerra cecena. Terribile, perché realistico.

Chi ha una certa dimestichezza con le faccende caucasiche non può non salutare con un applauso la pubblicazione di un romanzo come quello di Nicolai Lilin, dedicato ad uno dei conflitti più tragici e spietati che mai la faccia della terra abbia conosciuto, quello di Cecenia. Il libro racconta le vicende di “Kolima”, un giovane della Transnistria (Paese-non-Paese, riconosciuto solo dalla Russia e da pochi altri territori contesi, come Abcasia, Ossezia del Sud e Nagorno Karabakh) che si ritrova in modo assolutamente inatteso arruolato nell’esercito russo e spedito, per una mancanza di prudenza, tra i sabotatori, le squadre d’assalto della guerra cecena, assolutamente libere di agire nel modo da loro preferito, pur soggiacendo alle direttive dei comandi supremi dell’esercito.

Colpisce la spietatezza manifestata dai combattenti – atroci le descrizioni delle vendette, dei nemici scuoiati da vivi, delle incredibili avventure di un pugno di pronti-a-tutto, crudeli con gli avversari, troppo genericamente e troppo spesso definiti “arabi”, ma tra loro estremamente fraterni, pronti a dare la vita l’uno per l’altro. Ed è questo, forse, il maggior merito del libro, che scava nella psiche umana dei combattenti evidenziandone le palesi contraddizioni, gli insospettabili paradossi.

Non sono pagine da lasciare in mano ai sensibili di spirito (possono causare rigetto immediato e disturbi psichici e fisici vari). Non sono pagine per chi cerca spiegazioni politiche al conflitto (sì, vengono evidenziate le contraddizioni di un regime, quello putiniano, estremamente muscoloso e cinico nelle sue avventure caucasiche, ma con accenni senza seguito). E non sono pagine nemmeno per gli appassionati di strategia militare (anche se in fondo il libro sta nel racconto di tre o quattro uscite dei sabotatori).

Sono invece pagine adatte a chi s’interroga sul perché dell’inestinguibile odio; a chi vuol capire perché bene e male coesistano e divarichino la loro sfera d’azione; a che è convinto che le guerre caucasiche siano qualcosa di “genetico” e a coloro che invece le considerano “politiche”.

p.s. Una nota all’editore: due o tre passaggi sono mimeticamente ripetuti in azioni diverse. Errore grave per la credibilità del libro. Resta infatti il dubbio fino all’ultima pagina: verità o finzione? Comunque, chi ha letto le pagine della Politkovskaja, di assoluta veridicità, propenderà per una salomonica coesistenza di finzione e di realtà. Perché la Cecenia in fondo è tale.