martedì 26 giugno 2012

Avila, città di perfezione


La città di Avila conta ormai un nuovo dottore della Chiesa, San Giovanni d'Avila. Visita del 2001.

Silencio. Solo Dios basta. La cruz si es amada es suave de elevar… Sono solo alcune delle scritte, dipinte in nero da una mano ferma sui muri bianchi di calce, che mi accompagnano nell’indimenticabile visita al Monasterio de la Encarnación ad Avila, il convento dove Teresa de Ahumada, che prese più tardi il nome di Teresa di Gesù, visse dall’età di vent’anni fino oltre i cinquanta, e dove a 39 anni ebbe la «conversione definitiva», che la portò alla riforma del Carmelo e alla straordinaria avventura dello spirito che si suole sintetizzare nell’immagine del “castello interiore” che l’uomo deve costruire in sé per accedere alla comunione con Dio.

Per un permesso straordinario concessomi, posso visitare il monastero negli angoli storicamente più significativi, accompagnati dalla madre priora e da altre suore, che mi fanno rivivere a passo a passo l’avventura di Santa Teresa. Ecco lo studio di Teresa, povero, essenziale, ancora arredato coi mobili dell’epoca, pochi libri. Soprattutto, su un muro spoglio appare ancora un piccolo affresco della crocifissione, dinanzi al quale la madre aveva deciso di mettere definitivamente la sua fiducia in lui, il Cristo piagato.
Poi il chiostro inferiore, semplice e arioso, attorno al quale la santa passeggiava, avendo alla sua destra, come diceva, il Cristo, testimone di quanto avveniva. Al centro del chiostro viene ancora conservato con ogni cura un nocciolo che si dice piantato dalla stessa Teresa. Quindi il parlatorio, dove avvenivano le sue conversazioni con l’altro gigante del Carmelo, San Giovanni della Croce. Erano colloqui elevatissimi, all’origine di tante composizioni dei due. Qui, nella festa della Santissima Trinità, mentre si avventuravano in terreni mistici, una sorella, suor Beatrice, vide entrambi sollevarsi da terra, mentre continuanvano a parlare tra loro, senza accorgersi di quel che accadeva loro.
Ancora, eccomi dinanzi alla scalinata del convento che sale ai piani superiori, chiamata ora “scala dell’apparizione”, dove appunto si dice che Gesù Bambino sia apparso a Teresa, sotto le sembianze di un bel bambino. «Come ti chiami», le chiese. «Teresa di Gesù», rispose lei. E a sua volta le chiese chi fosse: «Io? Gesù di Teresa», rispose il bambino.
Poi il coro superiore, poverissimo nelle decorazioni delle pareti laterali e nel legno degli scranni, ma rilucente d’oro nel grande polittico della parete di fondo, dominato da una grande statua di Maria (che un giorno, si dice, parlò a Teresa), e più in basso, sulla destra, da un crocifisso sanguinante. Quindi altre scale per giungere al coro inferiore, da cui Teresa e le sue consorelle seguivano le celebrazioni che avvenivano nella sottostante chiesa, protette da grate robustissime. Nella parete opposta, una grande teca di vetro protegge una statua della Madonna dall’ampio manto: è “Maria-priora del monastero”, che copre col suo ampio mantello tutte le suore del convento. In questa sala Teresa fu fatta priora, nonostante le reticenze di parte della comunità. E qui, ricevendo l’eucaristia da San Giovanni della Croce, strinse il 18 novembre 1572 il cosiddetto “matrimonio spirituale”. Fu «una visione nell’intimo», dirà, in cui lo Sposo le diede la mano destra e disse: «Guarda questo chiodo, sarai d’ora in poi la mia sposa». Teresa chiese a Gesù che facesse crescere la sua piccolezza, altrimenti non sarebbe stata capace di sopportare una tale grazia. In questa “settima mansione” del “castello interiore”, Teresa trascorrerà stabilmente gli ultimi anni della sua vita. Poi morì d’amore.

Mi trasferisco quindi in una angusta cella dove avvenne quanto rappresentò il Bernini nella celebre statua conservata a Roma, e cioè l’estasi di Teresa. Sopra l’ingresso della piccola cella, ecco un quadro del Cristo crocifisso che la madre aveva sempre voluto tenere nella sua cella.
Passeggiando di nuovo nel chiostro superiore, la madre priora mi spiega che, quando Teresa entrò in convento, erano presenti 160 suore, ognuna col suo appartamento e il suo seguito, chi ricca e chi povera, a seconda delle famiglie di provenienza: fu lei che, nella nuova regola, volle che fosse scritto che in ogni convento non ci fossero più di 21 suore, «come un piccolo collegio di Cristo». Mi racconta pure che il convento è costruito su un cimitero ebraico e che Teresa stessa era di origini ebraiche. Il nonno era stato addirittura processato a Toledo nel 1490, perché “convertitosi” al cattolicesimo era poi tornato alle pratiche religiose ebraiche. Nella famiglia dovevano perciò portare il marchio infamante che veniva applicato sulla spalla degli ebrei che non avevano confermato il loro passaggio al cristianesimo.
¡Oh Dios mio quien no os conoce no os ama!”. Così è scritto invece nella “cella del dardo”, dove Teresa visse cinque anni, e dove ebbe il dono appunto “del dardo”. Un mosaico riporta la narrazione autobiografica della grazia, avvenuta nel 1572. Una consorella accorse per soccorrerla, ma Teresa esclamò: «Uscite, figlia mia, e che vi succeda altrettanto».
Salgo poi, attraverso una scaletta angusta e ripida, al “piccolo carcere”, dove la madre trascorse da reclusa sei mesi dopo la prima, travagliata fondazione del Monastero di San Giuseppe: richiamata dal suo prelato, fu costretta a ritirarsi in tale piccola stanza. Ma lei non se ne lamentò mai, perché diceva di avere una compagnia più che gradevole, quella di Gesù e Maria.
Scendo poi di nuovo la scalinata centrale del chiostro, dove la madre ebbe a lamentarsi col Signore, stanca com’era per il viaggio da Santander che aveva appena concluso. Una voce le rispose: «Ma non avrai mai la stanchezza che ho provato io».

Dicono che Avila sia terra di santi (mai dimenticare San Giovanni d'Avila) e di pietre. Torno verso Madrid, mentre fuori dal finestrino sfila la meseta ondulata, punteggiata di ciuffi di verzura aspra e di pietre levigate dal vento impetuoso. Preso come sono dall’intensità della visita al Monasterio de la Encarnación, mi crederei ancora all’epoca di Teresa, se all’orizzonte i mulini a vento d’oggi, le gigantesche pale di una centrale eolica, non mi richiamassero all’attualità.

mercoledì 20 giugno 2012

Tower Bridge, massicci bulloni di ferro


Agli Europei ci tocca nei quarti di finale l'Inghilterra. Che sia il ponte verso le semifinali? Scritto del giugno 2004

Più che altri monumenti, più della Torre, più della cattedrale, il ponte della torre, il Tower Bridge, è il simbolo di Londra: la sua silhouette è conosciuta ovunque nel mondo. Eppure non è una costruzione antica, datando solo al 1894; è un’opera di ingegneria vittoriana, un ponte a suo modo maestoso che divarica le sue braccia di rado, per far transitare bastimenti di stazza smodata, o in occasioni solenni come per il ritorno del Gipsy Moth, il celebre piccolo veliero su cui sir Francis Chichester circumnavigò il nostro pianeta terracqueo. O come per il “pensionamento” della nave da guerra HMS Belfast, ora museo navale, che staziona poco distante, sulla riva sud del Tamigi in dorato riposo, dopo aver servito a Capo Nord, nello sbarco di Normandia e in Corea, agli ordini dell’Onu. Il meccanismo a vapore del ponte levatoio era all’epoca qualcosa di straordinario, l’ottava meraviglia del mondo, l’ennesima. Oggi è solo museo.
Trecento – non uno di più, non uno di meno – sono i gradini che mi issano sulla vetta della torre sud, e poi nelle passerelle che uniscono le due torri, trasformate naturalmente anch’esse in museo pensile. Trecento gradini di ferro, avvitati con bulloni giganteschi, ingentiliti tuttavia da un mancorrente di legno massiccio, così come lo sono le pareti della tromba delle scale che si innalza poco alla volta dal livello della strada – trafficatissima – sino alla sommità della torre – invece solitaria –. Salendo, avvolti negli scricciolii ferrei e lignei e accompagnati dal rumore dei passi che rimbombano nelle viscere della costruzione, si provano sensazioni liquide simili a quelle sperimentate sulle scalette altrettanto bullonate e ancora più metalliche della Torre Eiffel: l’uomo della fine del XIX secolo aveva raggiunto vette d’ingegno insospettabili, che solo la rivoluzione digitale poi supererà.
Sentimenti di sacralità mi abitano in questo tempio dell’umana creatività: quando vuole, l’uomo sa essere un degno compartecipe della creazione divina. Ma solo quando vuole, e se ha l’umiltà di mantenere le giuste proporzioni delle cose. Il che non sempre accade. Ma sul Tower Bridge tutto è nella scala giusta.

martedì 12 giugno 2012

al-Hamra, o della terra che prende forma


Oman profondo, nel Paese più pacifico della penisola arabica. La polvere, il vento, il silenzio.

È considerata una delle città più antiche dell’Oman, al-Hamra, ma in fondo poco si sa della sua vicenda. Così scrivono i libri di storia: «Situato ai piedi dei monti Hajar, nella regione di al-Dakhiliyan, è senza dubbio uno dei centri abitati più antichi del Paese, almeno sette secoli qui si respirano. Il centro abitato è costruito in case di mattoni crudi, simili nello stile a quelle yemenite». Nemmeno su Internet si ricava molto di più.
Poco importa – o meglio, importa assai, ma sullo sfondo della mia piccola vicenda –, perché la storia ad al-Hamra la si vede e la si tocca, non solo la si legge. In esperienze inattese che riempiono il cuore, la mente, le mani, gli occhi, le orecchie e persino l’olfatto e le papille gustative.
Il cuore. Le rovine di una città qui ad al-Hamra sono anche le rovine in una città. Poco alla volta il vecchio abitato viene ripreso dalla madre terra, abbandonato dagli abitanti forse stanchi di dover curare giorno dopo giorno costruzioni affascinanti e ardite nelle loro forme e nelle loro altezze, ma fragili e precarie. Incantevoli. Chiamano al-Hamra la piccola Sana’a. Strazia il cuore vedere queste case, anzi questi palazzi cadere al suolo… in polvere, osservare i soffitti crollati che espongono senza pudore le canne che sostenevano il sonno e il lavoro di tanta gente, anche l’amore familiare, quello di coppia. Strappa l’anima osservare le nicchie sospese nel vuoto ancora occupate da quotidiane suppellettili imbalsamate da una crosta di polvere.
La mente. Passeggiando nella cittadina, a quest’ora deserta, salendo scale precarie che paiono di cartapesta appoggiandovi sopra il piede e pregando che reggano, osservando le spine crescere sulla terra ammucchiata che una volta era un muro, non si può non pensare all’hebel, al soffio, al vapore, alla vanità della nuova ricchezza che nasce già vecchia già obsoleta già morta. Memento homo, anche varcando una soglia erosa dal tempo e calpestando la porta divelta la nevrosi dei moderni si pacifica. Grazie alle case che si sfaldano che si sgretolano che implodono.
Le mani. Viene continuamente l’imperativo desiderio di poggiare le mani sulle pareti delle case di al-Hamra. Sulle mensole di mattoni, sulle suppellettili sopravvissute alla distruzione, sui muri che paiono a ogni momento della progressiva elisione nella terra chiedere di essere toccati, confortati, quasi accarezzati. E poco importa che sulle mani resti solo polvere rossastra, fine, che s’infiltra sotto le unghie perdendovi pervicace dimora. Le mani partecipano così alle scoperte del cuore e della mente.
Gli occhi, ah gli occhi! È un festival di emozioni estetiche quello che provo perdendomi nelle viuzze deserte del quartiere vecchio della città, temendo per la stabilità di muri che paiono tutto salvo che perpendicolari al suolo, che peraltro piatto non lo è mai. Ogni angolo apre nuove prospettive, nuove rovine e nuove aperture, un mondo in perpetuo mutamento, panta rei. Le forze della natura paiono sempre perdere la loro battaglia con le forze umane, ma alla fine è sempre la natura che riporta la vittoria, prima o poi. Dolcemente o brutalmente.
Le orecchie: anche loro hanno la loro parte ad al-Hamra, anche se sembra che di rumori ce ne siano ben pochi. Ma deambulando si riescono a cogliere non solo quelli accidentali ma anche il suono lontano del muezzin che scivola nelle strette vie dell’abitato, perde la sua potenza per acquistare la dolcezza del sussurro divino. Ma un’altra musica s’ode ad al-Hamra, non lo si crederà ma è così: fermatomi su una soglia a far silenzio, ecco che poco alla volta inizio a udire le note polifoniche di uno strano concerto senza strumenti, in lievissimo e pianissimo, e null’altro, proveniente da non so dove, forse da nessuna parte. Poi, accarezzandomi il volto arso dal sole, avverto qualche granello di polvere appiccicatosi al sudore. La musica che odo è quella dell’infinita polvere che scivola sui muri, sulle balaustre, sulle nicchie, sui gradini.
Anche di odori ad al-Hamra ne ho respirati pochi. Qua e là una qualche carne grigliata sparge i suoi effluvi. Qualche rara pianta – timo? rosmarino? menta? – un po’ di profumo lo sparge attorno a sé. Ma le essenze respirate non venivano tanto dalla vita vegetale o animale, quanto da quella minerale. Perché qui in Oman s’è coltivata da secoli l’arte del profumo. Le pietre profumano, proprio così. Incensano l’aria.
E infine il gusto. Finalmente nella città vecchia incontro figure umane non fuggitive, come fiamme bianche o nere che entrano ed escono dalle abitazioni quasi fossero fantasmi. Due anziani siedono su un tappeto liso dinanzi alle loro abitazioni. Non hanno pretese, m’invitano a sedere con loro. Mi offrono un’arancia che sa d’arancia. E un caffè che sa… no, non sa di caffè, ma di cardamomo, vaniglia, incenso e ospitalità. L’uomo m’invita poi a visitare la sua casa, a salire sulla terrazza. Da solo, lui è vecchio, e richiama la sua donna perché si chiuda nella sua stanza e non si mostri all’estraneo. Salgo gradini levigati, accarezzati, strofinati d’attenzione femminile. Quasi mi vergogno d’entrare nell’intimità, nello scoprire che i vestiti non sono impilati negli armadi ma appesi a chiodi di legno. I luoghi dell’igiene non hanno confort alcuno, ma sono puliti. I letti sono intagliati. E i merli del terrazzo sono arrotondati. E la vista dall’alto è d’incanto e di apertura, sulla città per metà svuotata. E le palme del wadi paiono spiriti leggeri. E la cresta delle montagne, vicine o lontane, sono solo corone.

venerdì 8 giugno 2012

Faenza, quando piove e tira vento


Una visita che incanta per la sua bellezza, ma ancor più per i suoi tesori umanistici.

Di città come Faenza in Italia se ne contano centinaia. Città che hanno il loro pittoresco centro storico medievale, la loro Piazza dei martiri, il loro palazzo signorile, il loggione di turno, la loro cattedrale con tanto di scalinate di marmo, le loro collegiate, i loro merli, le fontane e le pinacoteche con cento dipinti d’epoche diverse, il loro artigianato delle ceramiche e dei pizzi, il loro vino o vinello. E altro ancora, e non è mai finita. Ogni artifizio tecnologico viene inventato da queste parti, nelle mille e mille fabbrichette che attorniano il centro storico.
Capito a Faenza che la primavera gioca lo scherzo di dimenticarsi che di domenica è d’uopo che il sole splenda e che le ragazze possano uscire con i loro vetsitini corti e i ragazzi mostrino il loro ultimo tatuaggio sui bicipiti. Capito a Faenza che piove e tira vento, e l’umidità arriccia le pagine del mio taccuino, e i bar sono tutti chiusi, o quasi. Sotto la loggia del Palazzo del Popolo, di manfrediana memoria, un coktail bar all’aperto m’accoglie col suo glamour di plastica e la sua musica troppo grounge per essere credibile. Ma non ho scelta, non ho nemmeno la chiave del mio alloggio. Scrivo per non soccombere allo sconforto.
Ho passeggiato per un’ora per una Faenza scurita dal cielo plumbeo. Nessun’anima vivente per le vie, un cane, due gatti, tavolini deserti e lontane musiche da cardiopalmo. Ingurgito brandelli di storia: Faenza, di origini romane, ha brillato soprattutto nel periodo rinascimentale per la produzione di oggetti in ceramica, di squisita fattura, esportati in molti Paesi europei. Il toponimo stesso è diventato sinonimo di ceramica (maiolica) in molte lingue, tra cui il francese (faïance) e l'inglese (faience). La città fiorì notevolmente, a partire dalla seconda metà del I secolo d. C., per la sua vocazione agricola e lo sviluppo di attività industriali quali la produzione di oggetti d'uso in ceramica, laterizi, e tessili in lino. Dopo un periodo di decadenza che dal II secolo si protrasse fino al primo Medioevo, ritrovò la prosperità a partire dall'VIII secolo. Intorno al Mille, con il governo dei Vescovi, e successivamente nell'età comunale, visse un lungo momento di ricchezza ed espansione edilizia che avrebbe raggiunto il suo culmine nell'età della signoria dei Manfredi. Con il governo di Carlo II Manfredi, nella seconda metà del XV secolo, venne infatti realizzato il piano di rinnovamento urbanistico del centro cittadino. Dopo un breve dominio veneziano, Faenza entrò a far parte dello Stato della Chiesa fino al 1859.
Mi riconcilio con Faenza e col suo tempo in una visita alla Cattedrale, dove doveva arrivare una processione, ma il cattivo meteo ne ha impedito lo svolgimento. E allora visito le cappelle e siedo nei banchi lignei. Una tomba, un corpicino rivestito di rosso attira la mia attenzione: è il sacrario di San Pier Damiani, illustre santo e teologo medievale, che morì qui a Faenza, in viaggio, pur essendo ravennate. E allora diventa ricca e doverosamente da rispettare la bella Faenza, nonostante la pioggia  eil vento.