lunedì 19 dicembre 2011

Praga, il castello di Vaclav


E' morto Havel. Lo ricordo passeggiando nel "suo" Hrad.

La collina della “piccola Torre Eiffell”, la Rozhledna, la Torre dell’osservatorio, profuma di fiori di pesco e di biancospino e passiflora. La deambulazione pomeridiana pare un passeggiare paradisiaco, mentre i bimbi sgusciano tra le gambe, gli adolescenti in bicicletta tra gli adulti e gli innamorati cedono alla seduzione della primavera che illanguidisce. Al tavolino del caffè il boccale di birra brilla degli ultimi raggi confondendosi con l’oro riflesso della città che s’abbandona innamorata anch’essa e languida sulle rive della Moldava increspata d’oro liquido e aereo.

Il tramonto verso il Castello s’apre senza fine, senza limiti alle gradazioni cromatiche, senza profondità immutabili, senza confine tra cielo e terra e acqua, senza spazi chiusi e senza spazi già visti. Un tramonto primaverile come raramente se ne vedono. Sul molo, nei pressi del Ponte Carlo, ad ammirare lo show della Natura, non ci sono solo turisti pacchiani e firmati, ma pure indigeni un po’ tristi e un po’ trasandati. Lo spettacolo non è di quelli che si dimenticano facilmente, con le guglie della cattedrale che paiono evidenziare, nere, tutta la scala cromatica del cielo e che sembrano voler fare il solletico alla natura che ride e sorride.

Le due città. Non quella terrena e quella celeste, ma, molto più prosaicamente, quella dei turisti e quella degli indigeni. A Praga non è questione di luoghi, ma di tempi. Gli stessi luoghi sono occupati in orari diversi o in stagioni differenti da folle diverse, spesso opposte, per vestimenta, rudimenta, bastinenza. Mi piace capitarci all’alba, quando i turisti ancora dormono; alle due del pomeriggio, quando si ingozzano di gulash e delizie; alla notte, quando sono nelle discoteche. E allora il museo a cielo aperto ritira i suoi cartelloni pubblicitari e si tramuta per incanto in scrigno di intrighi, banalità, letture, sputi, baci, preghiere… Quello che chiamiamo habitat. Praha, non più Praga-Prague-Prag-Πραγη…

Zlata Praha, Praga dorata, l’oro a Praga. Ce n’è ovunque, steso da una mano sulle facciate delle case, sulle inferriate, sulle fontane, persino sui gradini. Talvolta pare eccessivo, e allora abbaglia e schiaccia. Compie la sua funzione appieno solo quando è giusto, misurato, direi sapiente, così da illuminare una facciata, una fontana, una inferriata intera. Illumina quando non è, quando scompare. E così, come il bianco, dà colore. A Praga ci sono strade che paiono d’oro. A Praga ci sono anime che paiono d’oro.

lunedì 12 dicembre 2011

Delfi, ascesa all'oracolo


Ci sarebbe da interrogarlo anche oggi per capire dove va la Grecia. Visita del 1998

In piena estate, mentre la temperatura amoreggia coi quaranta gradi, quando tutto farei tranne che del turismo, ecco che l’auto mi porta quasi magicamente nel luogo dove vaticinava l’oracolo. Ma in tal luogo non ci tornerò un’altra volta… Sarebbe una profezia con poche speranze di verifica. E allora mi costringo a scendere dall’auto, ad acquistare il biglietto di entrata, a rifugiarmi nel nuovissimo museo che presenta il tesoro di Sifnos, bronzi e marmi di atleti e kouros, ompholoi e sculture crisoelefantine, la Niké alata l’auriga e le metope del tesoro degli ateniesi.

Ma Delfi non è in quelle sale, di reperti ce ne sono anche più al British o al Louvre. Delfi è fuori, sotto il sole cocente, tra gli ulivi e le pietre rimosse. E allora, forza e coraggio, alla ricerca dell’oracolo, cominciando dal baso, dal santuario dedicato ad Atena pronaia, di cui restano soprattutto tre stupende colonne del colonnato esterno, attraverso le quali l’ascesa si mostra in tutta la sua impervia, ma soprattutto in tutta la sua benedizione. Sì, proprio benedizione, perché il cielo azzurro e l’argento degli ulivi indicano che l’ascesa è benedizione. E poi il tesoro e la stoà degli ateniesi, il muro poligonale con le pietre interamente ricamate dalle scritture dei devoti che invocavano gli dèi attraverso la mediazione dell’oracolo.

Il Tempio di Apollo mi lascia esterrefatto: sei colonne come moncherini di culto levati al cielo e un mare di pietre divelte, ma con il risultato della rarefazione, della distillazione della preghiera, perché questo era in primo luogo un santuario per la preghiera, non per le offerte. Il teatro, immenso, con la scena che addirittura muore nel mare lontano, fa pensare ai versi immortali di Eschilo, di Sofocle, di Euripide, condensato del pensare greco e anche della fede dell’epoca, in un connubio che mai risulterà più convincente, nemmeno in epoca cristiana: dal cielo al mare, il teatro è la rappresentazione dell’umanissimo bisogno di comunicare col divino passando per la mediazione della cultura. Non sempre ci si riesce.

Al culmine della salita mi aspettavo un tempio, un santuario, un romito al limite. Nulla di tutto ciò. Solo un’immenso stadio, con la sua entrata che fu a tre archi. Sudato come rare volte, affaticato dall’erta ascesa, attraversato dai mille stimoli di un luogo come questo, unico al mondo, mi chiedo dove sia il senso di questo stadio, bello quanto si vuole, perfetto nelle dimensioni e nell’orientamento. Mi sfugge il senso, e me ne dolgo, perché il quesito sull’oracolo permane senza risposta. Poi il fiato grosso e il cuore a centoventi pulsazioni al minuto aprono una breccia: certo, l’oracolo profetizzava e vaticinava, ponendosi come mediatore della divinità. Ma in questo sito aveva predisposto il primo oracolo, il primo vaticinio dell’uomo che anela a Dio: l’ascesa, la fatica del superare, gradino dopo gradino, l’umana tenzone che appanna la psiche, per giungere all’umana tenzone, figurata dalla corsa, che appanna il fisico. Per poi lasciarlo più forte di prima, forgiato dall’ascesa.

martedì 6 dicembre 2011

Sulmona, la semplice giustezza

Una cittadina ai piedi della Maiella. Nulla di speciale, se non che è al posto giusto.

Giustezza, à la française, cioè col significato che quello che c’è è proprio quel che deve esserci. Sulmona non ha pretese artistiche particolari, né aspirazioni economiche, né tantomeno politiche. Sulmona desidera essere quel che è, né più né meno. Vie e viuzze disegnate sapientemente da una mano anonima e collettiva nel corso dei secoli, nella valle Peligna, cinta da una cerchia di severe montagne. Si fregia di un monumento di grande valore, L’Annunciata, che risale al 1320 e che comprende la chiesa, purtroppo ricostruita nel XVIII secolo, e l’annesso palazzo, che invece resta quello originario del XV secolo, elegantee pulito, direi fresco, ricco di quella semplicità che non puòl lasciare indifferenti. Si deambula nelle piazze e nei vicoli, si coglie una battuta in stretto dialetto abruzzese, si cglie un cane vagante che pare essere a casa sua, si ammirano le anticaglie preziose d’una bottega, il tranquillo incedere d’un’anziana signora che pare aver preso su di sé guerre e terremoti, pestilenze e tutte le drammatiche vicende di questa valle. La Piazza del Comune non è altro che un allargamento di Corso Ovidio, impreziosita dalla Fontana del vecchio, che risale al 1474 rinascimentale. Un caffè, un po’ dell’ultimo sole estivo. E la giustezza si manifesta in tutta la sua pregnanza. A Sulmona non si deve cercare nulla, perché così facendo si riceve il tutto. Gratuitamente, come gratuitamente s’è cercato di percorrerla.

domenica 27 novembre 2011

Ritorno a Tunisi


È la terza volta che vengo a Tunisi, la prima nel dopo-Ben Ali, dopo quella “primavera araba” che tanta gente ormai preferisce chiamare “transizione araba”, se non addirittura “autunno arabo”. Oppure, per completare la revisione, “inverno arabo”.

Nell’aereo per tre quarti vuoto incontro il vescovo mons. Lahham, che subito mi dice: «È stata e resta una primavera araba, bisogna crederci e bisogna andare avanti con fiducia e speranza». Categorico.Sullo stesso volo notturno, un imprenditore turistico non è per niente dello stesso avviso: «L’economia è in difficoltà, i Paesi europei non ci danno una mano, presi nella grave crisi finanziaria, e così la gente finisce con il cadere nelle braccia degli islamici, che assicurano certezze, quelle che ci mancano come economia e come ordine pubblico. Poco importa che siano religiose, sono pur sempre certezze». Interviene nella discussione una donna cinquantenne, fresca vedova di un modenese, lei tunisina con doppio passaporto: «Non riconosco più il mio Paese, qui ormai non si è più sicuri di nulla. Abito a due passi dalla villa di Ben Ali, e posso dire che non c’è più né sicurezza né libertà come prima. Le donne sono sempre più col velo, i giovani imam barbuti non hanno più rispetto per gli anziani e vogliono insegnar loro come pregare. Siamo alla follia!».

Con le premesse del volo Roma-Tunisi mi accingo a trascorrere un sabato particolare. Avrei dovuto andare in Libia, ma il visto non è arrivato, e quindi mi ritrovo a trascorrere qui a Tunisi l’ultimo giorno dell’anno secondo il vecchio calendario arabo. LA città brulica di gente, i turisti sono quasi inesistenti, gli autoblindo controllano il centro città, ma la polizia in giro è molto rara. Effettivamente noto un bel po’ di foulard, di hijab e persino qualche burqa, in quantità decisamente maggiore rispetto al periodo della dittatura-soft di Ben Ali. I tradizionali capannelli di donne che passeggiano al centro sono sempre più misti, donne velate e donne a capo scoperto, nel rispetto delle rispettive scelte, ma anche segno di una progressiva divisione ideologica della società tunisina. Se non pare che vi siano grandi differenze rispetto al passato, le conversazioni tradiscono una forte tensione. Si parla all’infinito di “transizione”, anche alla radio e alla tv. Qui tutto pare in transizione, ormai, è quasi un ritornello.

I tassisti sono il miglior punto di osservazione della città, come sempre. Anche qui a Tunisi. Mi carica un ex-pescatore, ex-poliziotto, ex-operatore turistico ed ex-disoccupato. La sua Renault Clio è piena di strisci e di bozzi. Parliamo in francese, poi naturalmente viriamo all’italiano, lingua che possiede discretamente, nonostante non abbia mai visitato la Penisola: «Ho tre figli che studiano, debbo pure far vivere la famiglia! – mi spiega –. Quando l’economia va in crisi bisogna darsi da fare. Per questo ho dipinto la mia vecchia auto di giallo e mi sono messo a fare il tassista». Confessa senza particolare stati d’animo né tantomeno vergogne che ha votato per Hennada, il partito che ha vinto le elezioni per l’Assemblea costituente, e che si sta preparando a governare. Il partito che la stampa occidentale guarda con sospetto e che definisce «moderatamente islamico» e di cui si paventa un possibile irrigidimento verso un radicalismo sempre più integrista, con al riproposizione della shari’a, la legge islamica. «Ma non è vero – precisa il tassista Ahmad –, perché Hennada è il solo partito di onesti, non legati al passato regime e assai sinceri nelle loro espressioni. Gli altri partiti sono tutti compromessi, questa è la verità». Come il mio tassista circa la metà della popolazione tunisina la pensa così. Dopo quarant’anni di dittatura che assicurava comunque l’ordine, il caos è visto come la peste. Meglio un deficit di libertà e di ricchezza che di tranquillità sociale.

Effettivamente è un po’ schizofrenica la Tunisia di questi tempi. Assapora insolite libertà – oggi, udite udite, persino i poliziotti fanno sciopero, restando tuttavia al loro posto ma portando un bracciale azzurro in segno di protesta –, ma in fondo non sa cosa farsene, come gestirla, come occupare il proprio tempo. Serve tempo per una democrazia di stile arabo, o meglio di una libertà di impronta araba. Non è detto che debba corrispondere alla nostra democrazia parlamentare. I social network affascinano i giovani acculturati tunisini, li spronano a conquistare le loro libertà, ma nel contempo spaccano in due le famiglie, scavano fossati tra le generazioni, aprono nuove strade ma senza che vi siano i mezzi per percorrerle. In un caffè nel lungomare di La Goulette, al di là della laguna che bagna Tunisi, una giovane donna emancipata – sia nell’abbigliamento che nel vocabolario – mi confida il suo smarrimento, dopo essersi seduta al mio tavolino sua sponte, e un po’ sfrontatamente: «Sono disoccupata ma non posso essere nostalgica dei tempi di Ben Ali. Non sopporto Hennada e le donne col velo, ma in qualche modo invidio le loro certezze. Non sono né carne né pesce, non so chi sono. Mi consolo sorbendo un caffè sulla spiaggia, e sperando di incontrare un uomo italiano che mi sposi e mi porti al di là del mare».

lunedì 21 novembre 2011

Kronborg Slot, dove Amleto continua a dubitare


Uno dei castelli più celebri della Danimarca, nella Selandia nord-occidentale. Una visita che consiglierei a tutti gli euroscettici.

Lascio Copenhagen che la nebbia avvolge ogni cosa, ingrigisce l’erba e taglia la testa alle torri. Il piatto Nord pare ancora più piatto, e la nostalgia del Sud assolato mi sfiora anche solo per qualche istante. Il tempo d’imboccare l’autostrada e di puntare decisamente verso settentrione, per scoprire i castelli che rendono celebre e misteriosa la Danimarca. Una trentina di chilometri e la brezza del mare pare modellare cose e case con la sua salsedine e, in fondo, con il tepore della sua temperatura. Di che fare dubitare gli stereotipi del Paese nordico che trema di freddo e vegeta sotto la neve.

M’avvicino al luogo dove l’immenso Shakespeare osò ambientare il suo capolavoro, quell’Amleto che, volenti o nolenti, è diventato l’eroe, l’antesignano, il simbolo dell’uomo che dubita, del pensiero che s’attorciglia su sé stesso alla ricerca d’una soluzione. Nella sua irriducibile solitudine, nella sua universale vicinanza agli uomini e alle donne di ogni tempo, ma ancor più, forse, alle folle smarrite d’oggidì.

Al castello di Kronborg probabilmente William il poeta non vi mise mai piede. Ma tale era la sua fama, già all’epoca, che gli piacque ambientare in questa terra, al limitar del Freddo Mare, la vicenda del re vikingo, Amleto appunto, secondo quanto racconta la Historia Danica di Saxo Grammaticus, omicidio e vendetta, sangue e sentimenti, per immortalare l’umana predisposizione alla complicazione delle cose e alla costruzione di castelli non di pietra ma di carta, di pensieri vani, di mortalissime considerazioni. Certo, il mistero da queste parti pare proprio a suo agio, s’avviluppa attorno alle torri del castello, si nasconde nei mille anfratti creati negli interstizi delle mura e nei circuiti delle stanze segrete. Così come si cela nelle diverse trincee riempite d’acqua che proteggono il maniero e che arrivano fino al mare in una mortale fusione che nei fatti non ha mai luogo. Persino i cigni paiono evitare di mostrarsi alteri della loro fredda bellezza, per nascondere il grazioso capo e l’affusolato collo nell’acqua scura, nera, dei fossati, accentuando in tal modo la misteriosa angoscia che alberga da queste parti.

Un pallido sole riesce tuttavia a forare la coltre di nubi per ridare un po’ di colore alla pietra umida del castello, e delle casematte che l’attorniano, luoghi che oggi albergano artisti e artigiani, ma che una volta ospitavano le milizie poste a difesa del maniero, luoghi di fedeltà ed eroismo, ma guarda caso anche di tradimenti e vigliaccherie. La storia, però, ha la sua parte, quella vera, non quella della finzione letteraria: costruito per volere di Erik di Pomerania all’inizio del XV secolo, fu rimaneggiato da Federico II e da Cristiano IV e usato dalla famiglia reale danese con un certo timore, sì proprio così. Prefericano il vicino Fredriksborg Slot, più solare e pacifico. Come a dire che il dubbio alberga tuttora in queste stanze, come prende dimora ovunque il potere e l’interesse configgente si fanno strada nel cuore degli uomini, così come il vento e il passo umano si fanno strada nelle strette torri delle scalinate del castello, trovando in ogi gradino di pietra un ostacolo o un nuov slancio. Perché il dubbio si nutre di sé stesso e del suo costante salir di tono, di cambiar passo per trovare nuove sfide. O per precipitare nel baratro oscuro d’una scala a chiocciola scura e tetra, priva d’ogni plausibile riferimento alla realtà.

martedì 15 novembre 2011

Copenhagen, la città dove non si corre


Un weekend nella capitale danese ripone fiducia nel valore catartico del tempo.

Sarà che siamo di sabato, ma la città di Copenhagen pare proprio prendersela comoda. Siamo nell’industrioso Nord europeo, ma qui – a parte le ciminiere che al di là dell’Inderhaven fumano un po’ sonnacchiose, la mattina fredda ma assolata pare ospitare solo qualche raro deambulante: una mamma in bicicletta che trasporta nel carrellino anteriore il suo bebè che se la spassa come un mondo; una coppia avanti negli anni che passeggia nel parco del Rosenborg Slot come se stesse misurando la lunghezza del percorso verso il paradiso (o l’inferno, o più probabilmente il limbo degli agnostici); un giovane gay col suo minuscolo bulldog che cerca invano un caffè aperto; i patiti dello jogging del sabato mattina che sfrecciano magrissimi e atletici sulle mura ricoperte d’erba del Kastellet; le guardie intabarrate di pelo che fanno la guardia all’Amaliensborg Slot. E così via, gente che ama il mattino, che ama la luce, che ama la chiarità del sole che fatica comunque a salire sull’orizzonte, restando come trattenuto al suolo da un invisibile filo di nylon. Questa è Copenhagen. Anche.

Nella capitale danese colpiscono gli slot, cioè i castelli, e i parchi, in questa stagione dipinti dei colori brillanti ma caduchi dell’autunno declinante. Castelli per modo di dire, perché sono palazzi più o meno originali – da favola il Rosenborg, il più antico, immerso nel verde di un ampio parco curatissimo –, che testimoniano ovviamente più il potere che l’arte; ma che ormai, vista la loro natura obsoleta, servono da libro di storia e di politica, più che da luogi ove si amministra la cosa pubblica. Piace osservarli al sole, ammirarne l’armonia e la purezza delle forme, anche l’ingenuità di talune soluzioni architettoniche. E i parchi, da non tralasciare, perché è lì che la luce si fa limpida e chiara, visto che nei lunghi mesi autunnali e invernali in tante e tante strade i raggi solari riescono solo a spennellare i piani alti, che per questo qui a Copenhagen sono i piani nobili. Paiono perciò dei luoghi paradisiaci, i grandi parchi della città, dove si respira purezza e spensieratezza, dove la ragione della luce supera quella della tenebra, dove giocare coi bambini non è un optional ma un vero momento di gioia, dove giocare a rimpiattino con le ombre lunghe degli alberi diventa una semplice ovvietà.

Ma la luce si trova anche sulla sommità dei campanili, delle torri, delle antenne. Stupenda è la Rundetaarn, che ha una sua lunga storia, sin da quando Cristiano IV ne iniziò la costruzione, nel 1642. Ci si avvita sette volte e mezzo (209 metri di lunghezza) per salire i 35 metri della torre rotonda, inerpicandosi per la lunga rampa in mattoni posati di taglio. Un unico gradino che permetteva anche ai cavalli di salire in cima, trascinando le carrozze dei nobili, fino all’impennata finale, un centinaio di gradini appena, lignei e inerpicati come su una vetta di montagna. Dall’alto, dalla terrazza circolare che racchiude un osservatorio ancora in funzione, la città di Copenhagen appare nella sua frammentazione di bei palazzi antichi e gradevoli moderni building di vetro,di torri rivestite alla sommità di rame verde e di ciminiere pulite e discrete. In basso la gente cammina lenta, un fiume sonnacchioso di formiche ordinate.

E poi, last but not least, c’è la luce dei canali, sempre divisi in due dalla linea di demarcazione fra la luce e l’ombra, belli e colorati come il Nyhavn, che brulica di gente di ogni età in attesa di un caffè, d’un traghetto, d’un amore. La luce nei canali gode dei riflessi che si stampano sulle retine dei viandanti così come sulle facciate delle case che s’affacciano sull’acqua. La luce dei canali, appunto, canalizza la potenza della vitale energia atmosferica nella mediazione con l’abitato, opera d’artista e d’artigiano per un bene comune estetico. Le barche ormeggiate in città paiono incongrue presenze finché l’ubriacatura della luce non porta all’ebbrezza dell’ombra, in cui il principio di realtà lascia il posto al principio di creazione, visto che solo nell’ombra e nella penombra si può immaginare qualcosa d’altro rispetto alla realtà. O una realtà meno cruda e più vivibile.

Copenhagen è vivibile. E bene. Come dimostra la Sirenetta, come suggerisce il Rådhus, come gridano i bambini al parco Tivoli.

giovedì 10 novembre 2011

Bangkok, l'infinito oro


Continuano le micidiali inondazioni nella capitale thailandese. Viaggio nella sua bellezza, del 2008.

16 miloni di abitanti la città ce li ha tutti, come dimostra con la sua sola evidenza l’espansione dell’abitato: solo da un decennio o poco più s’è deciso di costruire quei grattacieli che ormai costituiscono le cattedrali del XXI secolo, steli tutte simili e tutte diverse erette al dio-consumo. Anche Bangkok sta cedendo alla moda, o piuttosto alla necessità dell’urbanistica da boom. Eppure ha conservato il pudore e l’intelligenza di farlo con moderazione, senza danneggiare il cuore antico della città che s’estende attorno alle mura del Palazzo imperiale, il Ko Ratanakosin, impareggiabile gioiello dell’arte thai, orgoglio nazionale e vetrina di un intero popolo stretto attorno al suo amatissimo monarca, Rama IX.

Per apprezzare la grandezza e l’intelligenza di Bangkok e dei suoi abitanti, m’avvicino al centro storico con circospezione, a bordo del battello pubblico da tre bath (neanche dieci centesimi di euro), che percorre da Sud a Nord, dal ponte Chao Taksin, la grande ansa del fiume Chao Phraya, che racchiude come nel palmo di una mano i tesori più preziosi della tradizione thai. Così mi accorgo, senza traumi estetici particolari, che qui a Bangkok la foresta di steli esiste da secoli, prima che gli architetti di fine millennio inventassero gli skyscreaper. Se questi ultimi sono dettati dalla contrazione dello spazio, quelli erano invece frutto dell’esigenza di contrarre il tempo, non per grattare il cielo, ma per blandirlo con le umane, umanissime richieste della gente comune, del popolo di Bangkok e della regione.

Le acque del Chao Phraya sono sempre mosse, quasi agitate, e il battello ondeggia fortemente, nonostante la sua mole non sia da moscone. Nella visione nautica, anche le steli ondeggiano vistosamente e sembrano voler aritmicamente farsi presenti ai voleri divini, con insistenza. Gli stupa, o chedi, questo il primigenio nome degli antenati dei “gratta-cielo”, sono in realtà dei “blandisci-cielo”; stanno eretti con la sapienza delle antiche storie e con la giovinezza dell’eterna rinascita. Che brillino d’oro o rilucano di maioliche floreali, che siano più o meno elevati, più o meno affusolati, in ogni caso raccontano un intero popolo e invitano alla gioiosa tensione verso il cielo degli avi, del mistero, del Buddha eterno.

Ecco il tempio di marmo, il Wat Benchamabophit, situato ai bordi del centro della città: da qui parte la mia perlustrazione dei templi più importanti di Bangkok, perché questo è il solo tempio aperto inuna mattinata di festa buddhista. Una scelta obbligata ma in fondo assai propedeutica, per cominciare da un luogo non affollato, direi protetto, in cui poter iniziare ad apprezzare le forme architettoniche della tradizione thai con calma, senza distrazioni. E allora apprezzo l’inclinazione perfettamente calcolata dei tetti, il loro concatenarsi nel reciproco rispetto, le piccole tegole smaltate di rosso e di verde, qualcuna di bianco, le decorazioni dorate onnipresenti e quella specie di rostri votivi che paiono spade sguainate, braccia levate al cielo, strane creature mezze umane e mezze animali dal collo sconfinato proteso verso l’alto. Il tempio, illuminato come da un bacio divino, è immerso in un ampio parco assai curato, diviso in due da un rigagnolo superato da cinque o sei ponti di metallo rosso, con un effetto cromatico superlativo. Gli alberi secolari sono numerosi e vengono onorati e venerati, direi vezzeggiati, viste le corone di fiori, i piccoli Buddha di pochi centimetri d’altezza che la gente depone nelle sue cavità.

Seconda tappa, la cosiddetta “Montagna dorata”, cioè il Wat Saket. C’è già più gente, la folla dei fedeli si fa nutrita e vociante. Silenziosa. Si sale per una settantina di metri di altezza, per una scalinata circolare dai gradini lunghi e irregolari, fino a raggiungere una terrazza sulla quale s’erge un luminosissimo chedi dorato, che dicono racchiuda le ceneri del Buddha, oggetto della venerazione di buddhisti tradizionali ma anche dei seguaci di alcune sette poco ortodosse. Dall’alto la città di Bankok appare una distesa informe avvolta da una massa oleosa che provoca un certo disgusto. Ma tale pastoia informe qua e là lascia trasparire la punta di uno stupa, i tetti di un tempio, le belle armonie dell’architettura templare. E così anche la Bangkok più banalmente consumista acquista una sua dignità.

Con un risciò a motore mi reco quindi a What Pho, il tempio che sta appena a ridosso del palazzo imperiale, il più antico e il più prestigioso della capitale. Qui il cambiamento di scena è impressionante, con una profuzione di strumenti votivi impressionante, volti a onorare l’immenso Buddha sdraiato che giace pacifico e sereno, accettando tutte le preghiere e tutte le fotografie che decine di migliaia di persone ogni giorno gli tributano. E tutt’attrono una vera foresta di stupa, in massima parte maiolicati, ma talvolta dorati o candidi, a segnare un concerto di forme e di suoni, di pensieri e di propositi che solo la divinità può dirimere, giudicare, valutare se non altro. Una scuola di massaggi thai, la migliore in asoluto, è ospitata nel tempio, a testimonianza della bellezza d’ogni traccia di umano che lascia trasparire il divino.

Ancora non oso entrare nel Palazzo reale, meglio attraversare di nuovo i fiume, e immergermi nel Wat Arun, in quello che appare un tempio dimesso ma che, all’avvicinarsi, appare uno degli assoluti capolavori dell’architettura templare della regione indocinese. Non è curato come altri, tirato a lucido, ma ciò sembra conferirgli una forza, una generosità e un’umanità che tanti altri templi non paiono aver conservato. La cosmologia indù-buddhista qui trova il suo massimo splendore attorno alla torre centrale, il prang, coi suoi livelli e le sue regole, le sue cosmogonie. I rivestimenti qui non sono dorati, ma rilucono delle mille e mille tessere di maiolica che arricchiscono le superfici del tempio della materialità rilucente della città.

Wat Phra Kaeo, il Tempio del Buddha di smeraldo conservato nel bot, che doveva superare in bellezza e grandezza i complessi templari di Ayutthaya e di Sukhothai. Finalmente le sue porte si aprono al pubblico. E allora è l’apoteosi della bellezza e della giustezza delle proporzioni, della perfezione delle decorazioni musive e di quelle invece murali, della disposizione urbanistica dei diversi templi e della esatta collocazione per catturare ogni minimo raggio di luce che s’avventura al di sopra del Palazzo reale. Il tempio reale appare la quintessenza della religiosità thai, e nel contempo il modello irraggiungibile e irraggiunto della perfezione architettonica. Forse altri templi in passato, in Indocina, hanno trovato la loro canonizzazione, cioè il loro canone; ma nessuno come questo, ancor oggi nel 2007, risulta così perfettamente riuscito da attirare solo un bisogno di silenzio. Assoluto, protetto dai demoni all’entrata dei templi.

giovedì 3 novembre 2011

Cinqueterre, toccare il mare con un dito


Omaggio a una terra che soffre. Note scritte nell'agosto 2011.

Toccare il mare con un dito e tuffarsi nel cielo disegnando curve e controcurve. Uan sottile scriscia di mare, un’ampia distesa di cielo. Confini sfumati. Insenature come cura, pendii come promesse, vegetazione come manto di clorofilla. La brezza disegna sollievo come un dondolio di onde. Gli abitati pariono ciuffi di convivenza e convivialità. I carrugi prolungano i tinelli domestici. La fontanella accanto alla chiesetta dispensa acqua e spirito. Una coppia mi offre un bicchierino di ciacchetà, e sincerità amorevole. Scale interminabili come protezione e come liberazione. Santuari, lassù, sul rilievo, delle cose e delle anime. Tormenti appacificati di sudore. Il pesce: anche la tenerezza è saporita d’erbe mediterranee. Cinque terre, cinque dita, cinque sensi. Da lì a là, non di più. La qualità è limitata.

lunedì 24 ottobre 2011

Ollantaytambo, il trionfo inca


Nella Valle Sacra inca, che si estende più o meno tra Cuzco e Ollantaytambo, in Perù, lo scenario naturale ha del maestoso e del misterioso.

Sul fondo valle scorre il fiume sacro inca, il río Urubamba, più avanti chiamato invece Vilcanota, in uno spazio sostanzialmente assai angusto, cioè circa un chilometro, con pareti che s’innalzano per mille, duemila metri, spesso e volentieri interrotti nella loro monotonia scarsa di vegetazione, verso i giganti andini del Pitusiray e La Verónica, montagne da venerare, apus. Qui la storia ha parlato, e non poco. Furono gli ayamarca ad abitare il sito prima degli inca. Furono sconfitti dall’imperatore Pachacútec solamente verso la metà del XV secolo, dopo un’acerrima resistenza capitanata da eroi quali Paucar Ancho e Tokori Tupa. Lo sfruttamento del sito iniziò subito dopo, con opere grandiose, quali il raddrizzamento del río Urubamba per tre chilometri, la costruzione di un efficientissimo sistema di irrigazione, la costruzione di enormi granai, l’edificazione di un enorme ponte sul fiume che resistette cinque secoli, prima di essere sostituito da una struttura metallica che però poggia sull’unico, antico pilastro inca. Gli spagnoli tentarono di occupare Ollantaytambo già con Francisco Pizarro, ma il leader inca Manco Inca resistette a lungo, grazie anche a due enormi muri difensivi ancor oggi visibili.

Ollantaytambo è certamente un luogo particolare sotto il profilo storico, più di tutti gli altri centri che punteggiano la valle: Pisac, Urubamba, Calca... Qui gli inca hanno vissuto, ma raccogliendo l’eredità di civiltà millenarie, appunto, pre-incaiche, in particolare gli ayamarca. L’abitato attuale, più che in qualsiasi altro centro della regione, e forse dell’intero continente latino-americano, è rimasto simile a quello del XV secolo, o forse ancora prima. Anche perché, soprattutto nella valle di Yucay che parte dalla città, abitano popolazioni ancora considerate di purezza etnica incaica. Come si dice, da sette generazioni. Le basi murarie sono tipicamente incaiche; ma spesso anche la parte superiore delle abitazioni, di fango adobe e coi tetti di paglia, probabilmente è assai conforme agli standard dell’epoca. Entrando in una di queste abitazioni – tutte circondate da alti muri, a proteggerne l’intimità e la sicurezza, in isolati chiamati canchas – si riconoscono gli spazi per la cucina, quelli per la notte, quelli ancora per la convivialità, sotto la protezione di lama mummificati, dei teschi degli antenati, di simboli e raffigurazioni della religiosità tradizionale…

L’ordito della città è regolare e particolarmente riconoscibile. È gradevolissimo abbandonarsi alla deambulazione senza meta, scoprire angoli sempre nuovi, alzando lo sguardo ad ammirare le tre valli – Valle Sacra, Yucay e Tambo – che si aprono al confluire della città, per poi abbassarlo sull’acciottolato regolare ma faticoso per la nostra deambulazione abituata all’asfalto e all’assenza di asperità. Due bimbette con in testa un vaso di petunie fucsia, vogliono assolutamente farsi fotografare per strapparmi una moneta. Cedo, e nei loro occhi leggo non solo la gioia di avermi fregato ma, soprattutto, l’orgoglio di un popolo indomito, che gli spagnoli credevano di avere sottomesso. Fieri forse non come gli aymara, ma quasi.

Sulla montagna a Oriente, si riconoscono i Qolqas, una sorta di vecchi granai, delle fortificazioni e dei condomini – sì, dei condomini, con abitazioni a due piani. Ma è a Occidente che l’incanto diventa realtà. È il luogo della cosiddetta “fortezza”, che nei fatti era un luogo complesso, come sempre accade per gli insediamenti inca di grande portata e dimensione: Francisco Pizarro la definì «così ben fortificata da essere terrificante». Grandi terrazze fortificate salgono verso l’irraggiungibile santuario, talvolta curvilinee, per seguire mimeticamente le variazioni orografiche. Nella cinta muraria sono ospitati anche edifici amministrativi e abitativi, oltre a vari luoghi di culto.

L’ascesa alla fortezza è lenta, deve essere lenta, ma in fondo assai gradevole, nel clima secco di queste parti, che al sole può diventare anche impietoso. Le scale sono state indiscutibilmente una specializzazione degli inca: tutto nei loro insediamenti in fondo ha forma di scala, proprio tutto. Si sale accompagnati da lunghe e larghe terrazze che probabilmente erano coltivate, fino a un gradino più alto degli altri, su cui era sistemato il tempio. A questo livello i muri diventano spettacolari nella loro precisione assoluta d’incastro: le pietre, alcune enormi, di tonnellate e tonnellate di peso, erano state trasportate in questo sito dalla montagna di fronte, in cui ancora si riconosce la cava d’estrazione. Sia dal nostro lato della valle che dall’altro, sono visibili delle ampie rampe che sicuramente erano servite per trasportare le pietre, a costo certamente di una quantità impressionante di vite umane. Ma erano altri tempi, il valore della vita umana non era quello attuale (per certi versi). Sulle enormi pietre del tempio certamente erano state scolpite dei bassorilievi raffiguranti forme animali, simboli religiosi o astronomici. Ma gli spagnoli, a quanto sembra, non sono andati per il sottile nel cercare di convertire le masse alla cattolicità.

La città era stata circondata da Manco Inca, per resistere ai conquistador, con mura fornite di torri e merli, mentre nelle lunghe pareti erano ricavate nicchie o finestre dalla caratteristica forma a trapezio, mai rettangolari, chissà perché. Ciò conferisce all’insieme delle rovine un’inconfondibile aura di esoticità e un marchio inconfondibile. È difficile riuscire a svelare il segreto delle varie funzioni degli edifici: gli esperti ancora si arrampicano sugli specchi al riguardo. Solo sotto la fortezza, a livello dell’attuale città, certamente degli edifici erano dedicati al culto e all’uso dell’acqua, e altri erano invece centri amministrativi. Si riconoscono pure degli edifici costruiti dagli spagnoli, con assai minor perizia costruttiva!

Ed è deambulando nel fantastico sito di Ollantaytambo che mi trovo a rifiutare di giudicare la civiltà inca, come qualsiasi altra civiltà. Serve rispetto, serve attenzione, serve un lungo periodo di studio e approfondimento per riuscire a esprimere un qualsiasi giudizio al riguardo. Meno male.

mercoledì 12 ottobre 2011

Ravenna a portata di sguardo


Una mattinata a Ravenna è come un sogno nella luce. Non tanto e non solo quella esterna – che pure in questo settembre di sole non è da poco –, quanto quella che emana dai mosaici ravennati.

La città è carina, opulenta, cordiale, ma somma architetture spesso infelici del periodo fascista e post-fascista, a gioielli del periodo bizantino, quando qualche decennio la vide trasformarsi addirittura in capitale imperiale, seppur di un impero in disfacimento. Roma migrò in questo sito perché era facilmente difendibile, soprattutto per via del delta del Po e di quelle paludi – le valli – che le proteggevano le spalle, col mare dinanzi. Per qualche decennio, tra il 493 e il 568, funzionò, sotto Teodorico e Belisario, prima dell’invasione longobarda. Poi le distruzioni, o forse piuttosto l’abbandono e le inondazioni periodiche, in qualche modo ne preservarono i gioielli.

Perché di gioielli si tratta, indiscutibilmente. Tutti interiori, ché l’esterno è tutto in laterizi, gradevoli ma in fondo monotoni. È l’interno che si accende, che ci accende, che li accende (i cuori e le anime). Un incanto che, ad esempio, annichilisce nel progressivo adeguamento degli occhi all’oscurità del Mausoleo di Galla Placidia: è la prima volta che vi penetro, ma l’immediata e poi la mediata sensazione è di conoscere tassello per tassello l’intera superficie musiva del piccolo paradiso terrestre, per averne serbato memoria nel cervello: decorazioni, figure umane, vegetali, animali, colombe e riquadri, spirali e volti. Troppo belle queste immagini per non averle registrate definitivamente nella memoria liquida – ma ben più solida di quella del calcolator elettronico – del cervello umano. La copertina di un libro, il fregio di un biglietto nuziale, il frame nascosto di un film di Tarkovski, un’illustrazione nel sussidiario di terza elementare…

Si accende Sant’Apollinare nuovo, con la fantasmagoria delle Vergini e degli Angeli preceduti dai Magi verso la Madonna con Bambino, con città e basiliche fissate e idealizzate nei mosaici, come se le due schiere volessero accompagnare l’illusione di una terrestre possanza che s’annuncia caduca e cadente. Come l’impero. Una storia vera: tra il 493 e il 496 Teodorico la fece costruire per gli ariani, etale rimase fino al 560, quando divenne luogo di culto latino. Il bel campanile circolare data al IX-X secolo, invece.

Si accende pure nel minuscolo e infossato Battistero degli ariani, con una enorme pietra fessurata al suolo e una cupoletta a mosaico coevo d’incantevole precisione: rappresenta il battesimo di Cristo e gli apostoli. E poi il terzo scrigno, il Battistero neoniano, del V secolo, insuperabile nella sua semplicità: rappresenta il battesimo di Cristo, apostoli e troni cruciferi.

Ogni dettaglio architettonico della città non può che impallidire dinanzi a tanta bellezza. Non potrebbe essere altrimenti. Le vie di Ravenna sanno tale verità e vivono quindi di umiltà – sulla propria natura – e di fierezza – per ospitare la natura dei gioielli bizantini. E sta proprio qui la grandezza della città romagnola.

Mosaici ravennati. Difficile non rimanere abbagliati, nel cuore. Un impero in disfacimento ha qui concentrato le ultime energie creative, già indicando la direzione dell’Oriente, l’apertura, il confronto e il dialogo tra le culture, più che la lotta tra di esse. I risultati paiono straordinari, addirittura decisivi. Non per l’oro che brilla, ma per quello che fa brillare gli altri colori e le forme tutte. Questa non solo è arte, ma concentrato di storia e geografia e tradizione.

Sant’Apollinare in Classe: basilica cimiteriale del 549, con un mosaico absidale da togliere il fiato, con un Buon pastore e le sue pecore che incanta di bucolica atmosfera che sfiora la teologia paradisiaca. Classe, con la maiuscola, è il paesello che sta alle spalle della chiesa, il porto sull’Adriatico. Ma è anche la “classe”, con la minuscola, quella che rende grandi la bellezza creata dall’umana perizia.

lunedì 3 ottobre 2011

Isla del Sol, il mare di luce


Viaggio in Bolivia/10 e fine - Lascio le bellezze del Paese andino in un'isola che verrebbe voglia di includere nelle sette meraviglie del mondo.

Ci sono momenti che si oserebbe definire perfetti. Come questo, nel piccolo borgo di Copacabana (il copyright del nome è locale, non carioca!), sulla terrazza di un albergo che si affaccia sul lago Titicaca all’ora del tramonto, mentre dalla spiaggia provengono i rumori della festa dei peruviani che sono venuti qui a far benedire le loro auto dalla madonna indigena dei boliviani e degli aymara, la Virgen de Copacabana dalla pelle scura. Sono appena tornato da un’escursione all’Isla del Sol, che dista circa un’ora di barca da questo porticciolo. Il benessere è totale, salvo un certo affaticamento dello sguardo: un’ubriacatura di luce.

È sì, qui siamo a 3800 metri sul livello del mare, il respiro è faticoso e ogni movimento deve essere calcolato e non si può lasciarsi andare: l’eccesso qui va lasciato solo alla luce, che ne è gelosa. Che rende il mare – pardon, il lago! – un abisso di blu e il cielo un tetto d’azzurro. Che dà rilievo a ogni dettaglio, che universalizza il panorama, che trasforma l’ordinario in straordinario.

L’Isla del Sol è la più grande del più alto lago navigabile del mondo, per estensione secondo solo al Mar Caspio. È nota per essere un luogo sacro per gli inca: ha dato il nome all’intero lago, essendo chiamata nella storia Titi Khar’ka, cioè “roccia del puma”. Il luogo veniva considerato dalle popolazioni pre-incaiche come luogo della nascita di diverse divinità, Sole compreso. Qui fecero la loro apparizione terrestre Manco Capac e sua sorella e sposa Mama Ocllo, i prima inca. Qui aymara e quechua condividono le leggende fondative, e solo qui.

Arrivo dopo un’ora di traversata movimentata: il pilota – un uomo sulla trentina dai denti d’oro, che oggi s’è portato dietro due splendidi marmocchi – mi spiega che a fine luglio e inizio agosto, cioè in pieno inverno, qui capitano giornate così: apparentemente il vento non spira, ma le acque del lago si mettono in movimento come scosse da un fremito interno, che sale dagli abissi per volere della Pacha Mama, della Madre Natura, l’armonia universale degli aymara. Ma tutto quanto si spalanca intorno a noi ha del fantastico: le Ande e la Cordillera Real; le isole e isolette che si materializzano dinanzi al natante; i radi boschi di eucalipto; le nuvole che muovono un poco il cielo sempre terso; la spuma delle onde.

Dopo il superamento di uno stretto che pare troppo angusto anche per una piroga, ben presto giungiamo al porticciolo di Pilko Kaina, nell’Isla del Sol. Ed è un universo che si apre, il mondo inca assieme a quello pre-incaico, il passato e il presente totalmente aymara. Un primo complesso di rovine dà l’idea di quel che può offrire l’isola: il Palacio del inca, presumibilmente fatto costruire dall’imperatore Tupac-Yupanqui ha le finestre e le porte rastremate, dai davanzali e dalle soglie verso gli architravi. Ma non c’è solo il retaggio incaico: nella lunga passeggiata tra Pilko Kaina e Yumani, per un inimmaginabile sentiero in costa, una terrazza sul lago e sulla cordigliera, incontriamo lama e asini, alpaca e pecore accompagnati dai loro pastori, sempre riservati, sempre gentili, talvolta refrattari alla fotografia d’uopo. Un mondo che ora s’apre al turismo, e chissà come andrà.

A Yumani si torna in qualche modo alla civiltà, anche se la presenza aymara è così forte che pare difficile che un popolo che ha resistito agli inca si faccia abbindolare dal dio denaro. È qui che scendiamo i 200 e passa gradini di una scalinata chiamata Escalera del inca, che a metà percorso porta a delle fonti perenni che stupiscono in un luogo come questo: sono la Fuente del inca, che viene suddivisa in tre canali di pietra che fiancheggiano la scalinata, di rara perfezione, curata e percorribile agevolmente. La sorgente irriga un meraviglioso giardino a terrazze, ricco di piante e fiori. Per gli inca i tre canali di pietra erano la rappresentazione fisica del loro motto: Ama sua, Ama lulla, Ama khella, cioè non rubare, non mentire, non essere pigro. Nella luce del pomeriggio ancora abbagliante non posso non guardare a questo popolo aymara mescolato al popolo dei turisti, così riconoscibili e così degni. E m’appare chiaro come l’identità di un popolo sia una questione di luce, più che di essere. La luce della divinità e quella dell’umanità che si fondono. Abbagliando.

Non mi resta che aspettare la barchetta che ci riporta a Copacabana. Il sole cala dietro le nostre spalle, la luce si canalizza, si materializza, si colora. Come un amore maturo.

lunedì 19 settembre 2011

Copacabana, la benedizione e l’osservatorio


Viaggio in Bolivia/9 - Sul Lago Titicaca, dove il cielo si fonde coll'acqua, infuocandosi

È una perla del lago Titicaca, Copacabana. Per la sua posizione geografica, soprattutto. Costruita tra due incantevoli insenature, è custodita e protetta da due collinette rotondette ma impervie – a 3800 metri la più piccola salita è una montagna –: il Cerro Calvario, promontorio sul lago, e il Cerro Kopacafe, che dà verso la frontiera peruviana.

C’è aria di festa da queste parti, come sempre accade, o quasi, a motivo della Madonna: la Virgen de Candelaria (o de Copacabana), scolpita da Francisco Yupanqui, nipote dell’imperatore inca Tupac Tupanqui. È custodita in una cappella chiamata Camarín de la Virgen de Candelaria, e non è mai stata spostata, perché secondo una tradizionale profezia il suo allontanamento farebbe straripare il lago Titiaca. In questo periodo i peruviani aymara scendono da queste parti per far benedire le loro auto e i loro camion nuovi, decorati con ghirlande di carta e di fiori, facendoli aspergere dall’acqua benedetta dei francescani, e aspergendole essi stessi con quell’altra acqua benedetta, o piuttosto sacra, che risponde al nome di alcol. S’è creata una confusione notevole, anche perché la chiesa sta proprio di fronte al mercato domenicale. E i pur volenterosi poliziotti sembrano aggiungere confusione a confusione.

Una nota a parte merita la “cappella delle candele”, uno stretto e oscuro locale affumicato, attiguo alla chiesa, dove i boliviani offrono le loro candele alla Virgen, ceri di ogni grandezza e colore. Ma non soddisfatti dall’offerta votiva, sciolgono la cera per poi tracciare sui muri le loro domande a disegni, i loro desideri, una casa, un’auto, una guarigione, un matrimonio… Nell’oscurità della cappella ricchi e poveri sono tutti uguali, piccoli e grandi, aymara, quechua, bianchi e meticci.

Ma Copacabana è anche altro. Seguendo un cammino che dalla chiesa s’indirizza verso Sud, verso la collina di Cerro Kopacafe, si giunge a un sito chiamato Horca del Inca, l’osservatorio dell’inca, un misterioso luogo pre-incaico e incaico che conserva una sorta di porta, cioè due blocchi di pietra uniti da una traversina perpendicolare anch’essa di pietra che, secondo la tradizione, nel giorno del solstizio del 21 giugno, Capodanno aymara, viene completamente illuminata dai raggi del sole, all’alba, filtrando attraverso altre pietre forate o disposte in un modo che pare voluto. Al sito si giunge percorrendo un cammino che richiede una buona mezz’ora di marcia, che toglie il respiro e che lascia interdetti per l’alternanza tra lunghi lastroni di pietra levigata e scalini ora incisi nella roccia, ora costruiti con pietre di riporto.

Il vento soffia, mi porta via il cappello a larghe falde appena acquistato al mercato. Ma nel contempo sembra conservare il mistero e il sacro, l’armonia universale e il contrasto tra gli elementi della natura. E ci si lascia inebriare dalla luce e dal vento, dal fiato mozzato e dalla pace del cuore. Pronti a ridiscendere a valle, sul lungolago e sulla spiaggia, dove si beve e ci si gode il sole, si mangia e si espongono le auto appena benedette. La festa da queste parti pare una condizione di vita, assieme alla fatica.

giovedì 15 settembre 2011

La Paz, la città che non ha vie piane

Viaggio in Bolivia/8 Una città straordinaria, assolutamente unica. Dove si vive in altezza, lentamente

Pazza città, La Paz, anche se il suo nome non viene certo da “pazzia” ma da Nostra Señora de la Paz, la Madonna più venerata del posto. Pazza lo è, perché non si costruisce una metropoli in tali sfavorevoli condizioni di altezza e di clima, per giunta tutta in salita, o discesa, tra i 3300 metri della Zona Sur e i 4000 metri di El Alto. Pazza perché lungo le sue direttrici presenta un’incredibile varietà di tipologie di abitazione, dalla baracca al grattacielo, dalla chiesa colonial ai palazzi del potere di stile indefinito, dai musei graziosi e ben fatti a quelli che non dicono nulla. La Paz vive di commistioni tra etnie diverse che qui convivono con una certa serenità – anche se, sopra di essa, sull’altopiano, s’è creata negli ultimi 30 anni una’altra metropoli, El Alto appunto, che conta quasi un milione di abitanti, al 90 per cento di etnia aymara, la gente del lago –, nonostante la evidente differenza di razza. Si vedono ricchi professionisti d’origine india e vecchi dalla pelle bianca quasi alla miseria. Così va il mondo, anche a La Paz.

Girellare per la città non è comunque esercizio da poco: in primo luogo perché l’altitudine obbliga a una deambulazione lenta, ponderata, regolare; secondo, perché qui a La Paz non esiste una “cultura” dei marciapiedi, che immancabilmente sono stretti, sconnessi e pericolosamente esposti al traffico caotico della città; che per giunta, ed ecco la terza difficoltà, è composto da auto, pullman e pullmini che non hanno certo passato il bollino blu; infine, quarto motivo per una deambulazione complessa, c’è la mancanza di numerazione razionale nelle strade della città. Non ci sono indicazioni precise, e così quasi sempre bisogna arrangiarsi.

E tuttavia La Paz prende il cuore, mostra la vivacità che viene dalla diversità, evidenzia la reale democrazia del Paese pur nella sua giovinezza e, in fondo, nella sua precarietà istituzionale. Nel corso del mio breve soggiorno, tre giorni appena, assisto in effetti a tre manifestazioni, modeste nel numero – più o meno duecento persone – ma rumorose e decise, al cuore delle quali si trovano donne aymara con i loro cappellini a bombetta in bilico sulla testa, la loro mole cospicua, le loro voce improvvisamente potente (qui si parla sempre piano, quasi sottovoce). E tutto ciò a due passi dal Parlamento, dove si muove la fauna umana tipica del potere, dei portaborse, delle segretarie dai tailleur attillati e scollati, appena un po’. Nei mercati che invadono gran parte della città, soprattutto nel centro, la propensione femminile al commercio s’evidenzia in tutta la sua forza: un venditore su tre è maschio, le altre due sono signore e signorine di tutte le età molto impegnate nella loro missione commerciale, assolutamente iscritta nel loro Dna.

E poi a La Paz ogni via scoscesa (cioè tutte) ha delle presenze misteriose, a cominciare dalla sagoma impressionante dell’Illimani, la mitica montagna che supera i seimila metri, e presente ovunque come una protezione e una minaccia. C’è poi lo sfondo delle pareti del canyon “foderate” di casette in mattoni senza intonaco, o di baracche, o invece di abitazioni più dignitose in alcuni quartieri più residenziali: gradini abitativi senza fine. Ed è misterioso pure l’equilibrio delle sue diverse presenze umane, dei colori della pelle, delle fogge vestimentarie. A La Paz la banalità della piana non esisterà mai. Tutto deve essere più difficile, ma anche più appassionante. Non è antica, La Paz. Come Potosí e Lima, è stata fondata dagli spagnoli per i loro commerci, in particolare quello dell’argento che, estratto dal Cerro Rico di Potosí, finiva nei galeoni ormeggiati nel porto di Lima: La Paz era il principale luogo di transito di tanta ricca mercanzia. E poi si diceva che il Rio Choqueyapu, che costituisce la spina dorsale della città, fosse ricco d’oro, ma non era vero. Ma il capitano Mendoza, che la fondò nel 1548, non se ne diede a male e ne diventò il primo sindaco: seppe tenere assieme la popolazione spagnola, quasi esclusivamente maschile, e quella indigena, dando ben presto origine a una città molto meticcia. E turbolenta, visto che ha ospitato dopo l’indipendenza del 1825 quasi duecento governi!

Non c’è molto da vedere di artistico a La Paz: una cattedrale neoclassica, una chiesa di san Francesco in buono stile coloniale e mestizo, qualche museo – interessante e insolito quello sulla coca; ricco e intrigante quello sull’etnologia e il folklore; imperdibile e ben assortito quello di archeologia, con buoni reperti dalla città pre-incaica di Tiwanaku –, soprattutto immensi mercati, talvolta turistici, talaltra invece “autentici”. Non c’è molto da vedere, è vero, ma La Paz ti conquista con la sua vitalità economica e culturale, con la sua anima una e molteplice, che sembra lasciar spazio a chiunque, in una democrazia partecipativa che pare ancorarsi lontano nel tempo, molto lontano.

mercoledì 7 settembre 2011

Ascoli Piceno, la notte e il giorno, la bellezza


Breve toccata e fuga in una città che è come un salotto, in cui si sorbisce l'Anisetta e si ammirano le pietre antiche.

I salotti pubblici, quelli autentici, si valutano la notte e all’alba. Una questione di luce. Ad Ascoli l’oscurità addormenta un un festival di marmi e pietre e stemmi e colonne. Il bell'imbusto che deambula al braccio della sua donna proprio di fronte al mio punto d'osservazione mi sembri provi addirittura momenti d’imbarazzo nel volgere lo sguardo alla bellezza dell’amata, al suo profilo giusto, alle sue labbra disegnate da Fidia e unte di brillìo, alla fronte che ricorda la perfezione della geometria, allo sguardo che investiga le intenzioni dell’amato. E ritrova quelle labbra, quella fronte, quegli sguardi sulle scanalature del marmo, sulla lucentezza delle pavimentazioni delle piazze, sui cornicioni delle dimore signorili. C’è quasi un velo di gelosia nel trio: lui, lei, la città.

Il desco pacifica le vampe del fresco e dell’oscurità sotto volte ornate del candore appassionato della patronne, che gode della serenità degli avventori e della messa in moto delle loro papille, sollecitate dalle ricette della nonna, della terra e della fantasia. E così la follia di Nietzsche rivive come genialità, il Petit traité des grande vertus del Comte-Sponville diventa il Petit traité des grandes beautés. Si vorrebbe dilatare il rempo e ridurre lo spazio alla fusione.

L’Ascoli Piceno dell’operosa normalità l’ho solo immaginata tra un tramonto e un’alba. L’ho vista popolata di eteree fate e di svelti cavalieri. Nulla di più reale di un sogno ad occhi aperti. Grazie a Dio.

lunedì 29 agosto 2011

Cogne, scalino al Paradiso


A 30 chilometri da Aosta, nella valle che porta al Gran Paradiso. Per cambiare opinione su un luogo.

Dicono, i depliant turistici, che sia una scala al Paradiso, anzi al Gran Paradiso. Una scala composta da un solo gradino, e per giunta colorato di verde. Un prato. Io invece avevo un solo ricordo di Cogne, e per giunta libresco: un luogo tetro, da minatori, incassato tra le montagne, con un abitato poco invitante per essere stato costruito con pietra locale, poco ci manca che fosse del colore del carbone.

Finalmente mi si presenta l’occasione di visitare la valle di Cogne: dopo un’estate secca e bollente, senza una goccia d’acqua, oggi le cataratte del cielo si sono aperte e vengono giù, come dicono i vicini savoiardi, les cordes. Rischio di confermare la mia ipotesi, non quella della pro loco. Se non fosse per la mia ospite – inesausta e molto di più, moglie attenta e madre di tre stupendi rampolli, oltre che deliziosa scrittrice – penso che avrei girato i tacchi molto volentieri. Una tisana al tiglio nelle tenebre d’una terrazza di bar inondata dalla pioggia, una passeggiata alle cascate dove i tre marmocchi amano bagnarsi, qualche (suo) apprezzamento urbanistico (pertinente), conversazioni semplici ed elevate nel contempo, un incidente al piccolo Giacomo, con annesso rischio di una gita fuori programma al pronto soccorso di Aosta..

E d’improvviso Cogne si tinge di tonalità meno funeree. Finché, visitando lo scalino verde, per la graziosa – cioè piena di grazia – presenza dei miei ospiti, il sole appare, i ghiacciai si svestono del loro manto di nebbia, l’erba s’asciuga del suo acquitrino meterologico, il cielo si dipinge d’azzurro. E la valle di Cogne mi si svela col suo dover essere, quasi come la descrivono i depliant. La notte è flagellata dal vento e dalle ondate di pioggia. Sono gli occhi che viaggiano. Talvolta quelli degli altri.

sabato 13 agosto 2011

Potosí, l’argento


Viaggio in Bolivia/7 - 4100 metri per una città che ha vissuto d'argento, e che ora cerca un suo spazio nel Paese sudamericano.

L’arrivo a Potosí è spettacolare. Dopo aver percorso una decina di chilometri sull’ultimo altipiano che porta da Sucre alla città più alta del mondo (4070 metri per 150 mila abitanti), accompagnati dalla linea ferroviaria che collega le due città (7 ore di viaggio, tre volte a settimana) e che nell’ultimo tratto scorre parallela alla carreggiata asfaltata, d’improvviso appare il Cerro Grande, la montagna conica che sovrasta l’abitato, e poco dopo in basso si scorge una città del color della polvere, disordinata nella sua urbanizzazione, rutilante di gente e mezzi vari, colorata di mille follie cromatiche. Il traffico è caotico, ma come sempre si trova una soluzione anche per i più intricati ingorghi. Potosí conserva nel suo cuore – a valle la città commerciale, a monte quella dei minatori – un centro coloniale assolutamente fantastico, unico nel suo genere, conservatosi quasi intatto nei secoli. Al catasto si contano circa 5 mila edifici che datano alla dominazione spagnola, quindi tra il XVI e il XIX secolo, più o meno ben conservati, più o meno restaurati. Ma belli, coloniali, e per di più abitati, vissuti anche oggi, il che conferisce all’abitato un sentore di autenticità. I balconi chiusi di legno, naturale o colorato, sorprendono il passante con la loro grazia, e le mille storie di vicinato raccontate, anzi sussurrate e mai gridate. I portoni spesso e volentieri appaiono secolari, di legno con enormi borchie, trucchi estetici e di sicurezza. La città è convenzionalmente divisa in quadra, come tutte le città spagnole, ma senza quella regolarità che spesso le rende stucchevoli: ogni via ha qualcosa d’irregolare. Così ci si ritrova d’improvviso in piazzette deliziose, quasi miniature urbanistiche, mai regolari, adattate nei secoli alle esigenze delle singole abitazioni.

Tutti camminano a ritmo lento, l’altezza conta anche per chi ci è abituato, sotto lo guardo onnipresente del Cerro Grande, “montagna d’argento” che a lungo fu la principale fonte di sostentamento dell’impero spagnolo: si calcola che ne siano state estratte milioni e milioni di tonnellate di argento, a costo (piccolo dettaglio) di alcuni milioni di morti (le stime variano dai 2 agli 8). Le donne quechua, e qualcuna aymara, vendono come sempre accade in Bolivia un po’ di tutto, in un disordine-ordinato che comincio a conoscere e apprezzare. La luce è accecante, pura e limpida, il cielo grida d’azzurro e l’abitato sussurra i più vari colori: qui la fede è profonda e l’apporto umano sempre sottovoce. Il paesaggio è “rovinato” dai cavi elettrici e telefonici che sono stati tesi ad ogni altezza nell’abitato, creando conformazioni e intrecci assolutamente fantastici. Qua e là sorgono architetture moderne (quasi mai terminate) che gridano vendetta agli occhi degli dei di ogni religione: che ci fa un cubo blu, un cono rosso o un’ala gialla in un abitato antico come Potosí?

Oggi Potosí conta 15 mila minatori, che lavorano sostanzialmente alle stesse condizioni del XVI secolo. Abitano i sobborghi, hanno orari sfiancanti, muoiono presto, prima dei 50 anni, minati dalla silicosi, dall’alcol e forse anche dall’abuso di coca. Non si può pensare a Potosí senza tener in conto questa umanità sfruttata, ancor oggi, senza capire che essi ne sono stati la ragione iniziale e forse anche attuale, nonostante le vene di minerale puro siano in fase di esaurimento. Anche se i minatori di una volta cercavano di far divenire tali anche i propri figli, sempre numerosi perché erano fonti di guadagno, mentre oggi l’ambizione dei mineros abituati alla televisione è quella di lavorare per trovare un futuro diverso ai propri figli. Lavoratori che sono quasi tutti di origine indigena, ovviamente, ma che in qualche modo hanno trovato una conciliazione nei secoli con i conquistatori.

Visito uno dei tanti conventi della città, quello di San Francesco. Incontro un religioso da 40 anni quassù, padre Felice, viene da Viareggio: «È una città incantevole Potosí – mi confessa –, e non saprei più vivere altrove. La gente è amica, calorosa, è ricca di risorse umane». E la religiosità tradizionale? «Sono cattolici quasi tutti, anche se conservano i riti della propria terra, ma questo non va contro la loro cattolicità», conclude un po’ ottimisticamente, mi sembra. Il convento, oltre ad una serie di dipinti sulla vita del Poverello del XVII secolo, ad una rappresentazione della Sacra Famiglia in sombrero, e ad un enorme quadro catechetico sui sette vizi capitali, non ha ricchezze straordinarie. Salvo il tetto, sopra cui ci si può issare attraverso scale anguste e sconnesse, suggestive nella loro plastica irregolarità: la vista è straordinaria, e dimostra come l’intelligenza urbanistica degli spagnoli, coniugata alla convivialità indigena, abbia prodotto un vero e proprio capolavoro. Il Palazzo della moneta – museo che ripercorre la storia della città sovrapponendola a quella dell’argento –, la Torre dei gesuiti, la chiesa di San Lorenzo dalla quale un prete anziano mi caccia perché ho scattato una foto, il convento di Santa Teresa (all’epoca abitato da ricche ereditarie di nobili famiglie locali)… I grandi esempi del colonial più puro e antico si mescolano con l’indigenicità più spinta, in un connubio che è sudamericano ma è patrimonio dell’umanità.